Verso una definizione comune di dipendenza affettiva patologica: una nuova scala di misurazione basata su un modello cognitivo

di Paola Lioce

Secondo il modello cognitivo della dipendenza affettiva patologica (DAP) sviluppato da Erica Pugliese e collaboratori, la DAP può essere considerata un fenomeno relazionale in cui almeno uno dei due membri della coppia ha un bisogno indispensabile dell’altra persona – tipicamente un partner violento o manipolatore – e protegge la relazione a tutti i costi. La rottura causa una sofferenza emotiva intollerabile, così la persona rimane intrappolata nella relazione. Dal momento che il partner del dipendente affettivo patologico causa una continua frustrazione di scopi importanti di relazione come l’autostima, l’autonomia e la sicurezza, queste persone vivono un conflitto spesso non consapevole tra il mantenimento del legame di attaccamento e lo scopo di proteggere sé stessi e l’autostima. Spesso queste persone mantengono la relazione nella speranza di un cambiamento del partner che, non solo non si verifica mai, ma che congela a lungo il rapporto con gravi conseguenze in termini di disturbi fisici e/o psicologici. In questi casi non è inedito arrivare a una degenerazione della relazione in vera e propria violenza intima da parte del partner di tipo fisico o psicologico.

Ma qual è il profilo tipico del dipendente affettivo patologico? Per quale ragione non riesce ad uscire dalla relazione pur essendo consapevole delle conseguenze negative che essa porta? Secondo il modello cognitivo della DAP spesso l’adulto con dipendenza affettiva è stato un bambino che ha subito traumi di deprivazione emotiva e abuso. Potrebbe essere nata una identificazione con il genitore che portava avanti la missione di amore e sacrificio verso il partner problematico oppure potrebbe essere stato un figlio dedito a salvare il genitore abusato e trascurato dal partner. Mantenere la relazione nonostante il disagio vissuto ha le sue origini nel desiderio spesso inconsapevole di rimediare ai traumi vissuti durante l’infanzia.
Lo scopo principale della persona dipendente affettiva non è ricevere cura dei suoi bisogni (come succede nel disturbo dipendente di personalità). Il “dipendente affettivo” considera “noiosa” la relazione con il partner amorevole, si sente oppresso dai partner premurosi e continua a scegliere partner sfuggenti o distanti. Lo scenario peggiore per il dipendente affettivo è la rottura del rapporto con il partner e di conseguenza fa di tutto per mantenere la relazione tossica ed essere amato come sogna. L’antiscopo comune a tutti i soggetti con dipendenza affettiva patologica è dunque la rottura del legame con il partner.

Negli ultimi decenni si è registrato negli studi di psicoterapia un aumento del tasso dei pazienti vittime di relazioni intime disfunzionali e violente. Nonostante i dati siano allarmanti, il concetto di dipendenza affettiva patologica non trova ancora posto nella nosologia psichiatrica.

Sulla base del modello cognitivo di DAP sopra citato è stata recentemente sviluppata una scala di misurazione della dipendenza affettiva patologica chiamata PADS (Pathological Affective Dependence Scale). La scala è stata testata su un campione clinico di 25 persone di età compresa tra 29 e 61 anni reclutate in un gruppo di auto mutuo aiuto Millemè – violenza di genere e dipendenze affettive e nel centro di psicoterapia, presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC). Gli item della PADS sono articolati in quattro fattori principali, che possono descrivere il funzionamento mentale del dipendente affettivo tipico: Fattore Altruistico (quando si vuole evitare la sofferenza dell’altro ritenuto bisognoso); Fattore Deontologico (quando ci si ritiene indegni di un altro partner); Fattore Vulnerabilità (quando ci si considera vulnerabili e si mantiene la relazione per evitare di sentirsi soli e in pericolo) e Fattore Conflitto. Il conflitto può essere di tre tipi: Assente (nel momento in cui la persona non si rende conto di stare in una relazione tossica ma gli altri glielo fanno notare), Alternato (quando si alternano momenti di consapevolezza della disfunzionalità della relazione, a momenti di soddisfazione), Akrasico (quando ci si rende conto che sarebbe il caso di interrompere la relazione ma la persona non riesce a rinunciarvi).

Sembrerebbe che la dipendenza affettiva patologica sia la base cognitiva ed emotiva della violenza di genere; dunque, identificare i profili di DAP è utile per intervenire prima che la dipendenza affettiva sfoci in violenza e a lavorare anche con programmi psicoeducativi (ad esempio in contesti come scuole, università, centri antiviolenza, servizi sociali ecc.). Avere a disposizione uno strumento che possa misurare la sintomatologia che presenta la persona con dipendenza affettiva patologica potrà essere un valido aiuto in questa direzione.

Bibliografia

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Iannucci, Perdighe, Saliani, & Pugliese, E. (2021). Karina. Il Legame Irrinunciabile: Scopi, Anti-Goal e Conflitti Tipici della Dipendenza Affettiva Patologica. Cognitivismo Clinico.

Perdighe, C., Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2022). Gaslighting: una sofisticata forma di manipolazione, difficile da riconoscere. Psicoterapeuti in-formazione.

Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2019). Un Modello Cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche. Psicobiettivo, 1, 43-58.
https://doi.org/10.3280/PSOB2019-001005

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15, 1624.
https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A.M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., Cellitti, E., Barbaro, G.F., Goffredo, M., Lioce, P., Orsini, E., Quintavalle, C., Rienzi, S., Vargiu, A., & Mancini, F. (2023). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14, 305-333.
https://doi.org/10.4236/psych.2023.142018

Kane, T. A., Staiger, P. K., & Ricciardelli, L. A. (2000). Male Domestic Violence: Attitudes, Aggression, and Interpersonal Dependency. Journal of Interpersonal Violence, 15, 16-29. https://doi.org/10.1177/088626000015001002

Foto di Anete Lusina:
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Curare il disturbo ossessivo compulsivo

di Mauro Giacomantonio

La Terapia Cognitivo Comportamentale è efficace?

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è una psicopatologia piuttosto diffusa e invalidante. Può manifestarsi in diverse forme, ad esempio con compulsioni di lavaggio o di controllo, ed esordire già in giovane età. È quindi di fondamentale importanza sviluppare e mettere alla prova protocolli di intervento sempre più incisivi e sostenibili dalle persone che soffrono di DOC.

Proprio con questo intento, Andrea Gragnani e collaboratori hanno recentemente pubblicato un articolo che esamina, attraverso uno studio condotto su pazienti che presentavano sintomi ossessivi, l’efficacia di un intervento sviluppato e perfezionato dal Prof. Francesco Mancini e il suo gruppo clinico e di ricerca negli ultimi venti anni.

Questo modello di intervento, oltre ad essere basato su una specifica concettualizzazione teorica del DOC, si pone il problema di favorire la capacità di tollerare la minaccia ossessiva e, quindi, di aderire meglio alla tecnica dell’esposizione con prevenzione della risposta (ERP). L’ ERP, infatti, è una tecnica psicoterapica molto efficace per il trattamento del DOC, che troppo frequentemente viene rifiutata o abbandonata dai pazienti perché percepita come ansiogena.

In risposta a questo problema, l’intervento esaminato nell’articolo propone una serie di tecniche cognitive che facilitano il processo di accettazione della minaccia, riducendo sia la convinzione di potere o dovere ridurre il rischio temuto, sia la tendenza a ricorrere a ragionamenti eccessivamente sbilanciati sul versante della prudenza. La capacità di accettare il rischio aiuterà poi il paziente a tollerare l’esposizione rinunciando alle condotte di protezione. Dei 40 pazienti che hanno sperimentato il protocollo proposto, una elevata percentuale (80%) ha riportato un beneficio significativo e in pochissimi hanno abbandonato il trattamento proposto.

Questi risultati confermano la necessità di articolare un trattamento complesso che favorisca prima l’accettazione “cognitiva” della minaccia e permetta poi di sperimentarla praticamente attraverso l’ERP.

Studi di efficacia come quello pubblicato da Gragnani e colleghi sono particolarmente preziosi per la pratica clinica quotidiana, perché permettono di valutare gli aspetti cruciali per la riuscita del trattamento, aprendo così la strada al suo perfezionamento.

Per approfondimenti

Gragnani, A., Zaccari, V., Femia, G., Pellegrini, V., Tenore, K., Fadda, S., Luppino, O.I., Basile, B., Cosentino, T., Perdighe, C., Romano, G., Saliani, A.M., Mancini, F. (2022). Cognitive-Behavioral Treatment of Obsessive-Compulsive Disorder: The Results of a Naturalistic Outcomes Study. Journal of Clinical Medicine, ;11(10):2762.

Articolo integrale: https://doi.org/10.3390/jcm11102762

Senso di colpa, emozione a due facce

di Estelle Leombruni

Colpa altruistica e colpa deontologica: una tesi dualistica

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, il neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini e la psicoterapeuta Amelia Gangemi affrontano il tema della colpa, offrendo al lettore le informazioni necessarie per un’approfondita comprensione di questa complessa emozione e delle sue implicazioni sulla sofferenza psichica.

La tesi portata avanti è quella dell’esistenza di due forme distinte di colpa: la “colpa altruistica”, che viene sperimentata quando si assume di aver compromesso uno scopo altruistico, e la “colpa deontologica”, derivante dall’assunzione di aver violato una propria norma morale.

Queste due forme di colpa generalmente coesistono nella vita quotidiana, tuttavia è possibile anche sperimentarle separatamente: sentirsi in colpa per non essersi comportati in maniera altruistica senza però violare una propria regola morale oppure trasgredire una norma morale senza che sia presente una vittima, ovvero in assenza di una persona danneggiata.

Sono numerose le evidenze empiriche che supportano tale distinzione: da un punto di vista comportamentale, per esempio, le ricerche mettono in luce come, inducendo uno dei due tipi di colpa, si ottengono azioni di risposta differenti (azione che tutela uno scopo altruistico o azione per uno scopo morale). Dal punto di vista dei circuiti neurali coinvolti in questi processi, gli studi condotti tramite la risonanza magnetica funzionale mettono in risalto come si attivino network cerebrali diversi a seconda del tipo di colpa sperimentato. La distinzione è evidente anche per quanto riguarda il rapporto che questi due sensi di colpa hanno con altre emozioni: per esempio, la colpa deontologica sembrerebbe che abbia una stretta connessione con il disgusto mentre la forma altruistica con il vissuto di pena.

Questa duplice visione del sentimento di colpa consente una maggiore comprensione di altri fenomeni (come del cosiddetto omission bias ovvero la tendenza sistematica a favorire un atto di omissione rispetto a uno di commissione) e ha importanti implicazioni circa la psicologia clinica, in particolare, nella comprensione del disturbo ossessivo- compulsivo, in cui la colpa deontologica svolge un ruolo cruciale, e di alcune forme di reazione depressiva, per cui sembra essere rilevante la colpa altruistica.

Una comprensione più approfondita dei disturbi consente di sviluppare interventi psicoterapici che mirino specificatamente al tipo di colpa che potrebbe essere alla base delle problematiche presentate, garantendo in questo modo una maggiore possibilità di successo terapeutico, ossia di raggiungimento e mantenimento degli obiettivi prefissati.

L’approfondimento proposto dai due autori consente, quindi, non solo di comprendere meglio le determinanti psicologiche e le implicazioni cliniche dei due sensi di colpa, ma anche di sviluppare interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni psicoterapiche e sulle future possibili ricerche.

Per approfondimenti:

https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.651937/full

ERP o non ERP, questo è il dilemma

di Benedetto Astiaso Garcia

L’utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani

L’esposizione con prevenzione della risposta (ERP) consiste nell’esporre il paziente al pensiero, all’immagine o all’evento temuto per un tempo superiore a quello che normalmente riesce a tollerare (esposizione) e nell’aumentare la resistenza all’impulso di mettere in atto i comportamenti cui abitualmente ricorre per contenere, prevenire o neutralizzare la minaccia temuta (prevenzione della risposta).

Benché sia risaputo che l’ERP sia un intervento evidence-supported indicato dalle linee guida internazionali come trattamento d’elezione per il Disturbo Ossessivo Compulsivo, per quali ragioni alcune ricerche ne evidenziano uno scarso impiego nella pratica clinica? 

Uno studio pilota sviluppato nel 2022 da Cosentino, Raimo, et al. si prefigge lo scopo di rispondere a tale quesito, indagando l’utilizzo dell’ERP tra gli psicologi cognitivisti italiani e valutandone la frequenza, le credenze associate alla messa in atto di tale pratica e il ruolo giocato dalle caratteristiche personali del terapeuta, quali la sensibilità al senso di colpa: come proposto da Sars e Van Minnen nel 2015 per l’anxiety sensitivity, viene ipotizzato dagli autori che anche la disposizione a prevenire ed evitare di sentirsi in colpa potrebbe indurre un mancato impiego della tecnica. 

Hanno preso parte a tale indagine 105 partecipanti, in prevalenza donne (74%) e di età compresa tra i 30 e i 40 anni (60%). I partecipanti, per la maggior parte esercitanti la libera professione (80%), per il 43% svolgono attività di psicoterapia da meno di cinque anni. 

Dai risultati, in linea con la letteratura internazionale, emerge come le credenze sull’efficacia dell’ERP e un atteggiamento favorevole al suo impiego correlino positivamente con la frequenza dell’utilizzo. Certamente d’interesse la correlazione negativa tra la sensibilità alla colpa e il ricorso all’ERP nel trattamento del DOC: come ipotizzano gli autori, probabilmente, il terapeuta, proprio come il paziente, al fine di evitare i propri stati di colpa tende a ricorrere a evitamenti e comportamenti protettivi, ad esempio per non sperimentare la responsabilità di avere un ruolo attivo nell’infliggere sofferenza al paziente e le eventuali conseguenze. 

Per quanto complessivamente il 65% dei terapeuti utilizzava l’ERP nel trattamento del DOC e circa il 40% nel trattamento degli altri disturbi d’ansia, i terapeuti con attività clinica inferiore ai cinque anni utilizzano in maniera nettamente minore tale tecnica: l’autoefficacia percepita dal terapeuta nella gestione delle situazioni complesse correla positivamente nell’utilizzo dell’esposizione. Come poter dunque favorire una maggiore disponibilità negli psicoterapeuti ad affidarsi a tale tecnica?

Rispondere a tale domanda solleva una questione quanto mai urgente e attuale: l’importanza di un adeguato e strutturato addestramento. Essere capaci di gestire situazioni complesse passa necessariamente attraverso la formazione in psicoterapia, condizione determinante per la crescita personale e lo sviluppo di competenze, atte a modificare credenze negative circa tale pratica e offrire uno specifico padroneggiamento della tecnica. È necessaria, dunque, una formazione valida che, accanto a una profonda conoscenza teorica, offra utili strumenti pratici per porre il professionista nella miglior condizione di esercitare l’esposizione con prevenzione della risposta, garantendo di conseguenza ai pazienti un trattamento di grandissima efficacia comprovata.

Gli psicologi per primi, molto spesso, sono spaventati dall’utilizzo di strumenti e tecniche che in realtà conoscono poco, timorosi di scottarsi attraverso la sofferenza del paziente. Una buona formazione in psicoterapia diviene l’unica modalità per danzare sui carboni ardenti. Precludersi all’utilizzo di una tecnica di acclarata efficacia, molto spesso a causa di una mancata formazione, significa compromettere la buona riuscita della terapia.  Come affermava George Orwell, “il primo compito delle persone intelligenti è la riaffermazione dell’ovvio”. Oggi più che mai, anche grazie alla ricerca Utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani, siamo chiamati a difendere l’ovvio: una buona formazione degli specialisti. Cui prodest? Certamente ai pazienti. 

Per approfondimenti: 

Raimo, S., Battimiello, V., Biondi, D., Ciccarelli, M., Colardo, T., Riemma, D., Schiano Di Zenise, L., Gragnani, A., Scuotto, A., Cosentino, T., (2022). L’utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani, Psicoterapia Cognitiva Comportamentale, 28 (3), 245- 260.

Cosentino, T., De Sanctis, B., Luppino, O., (2021). Le procedure comportamentali: esposizione con prevenzione della risposta. In: Perdighe, C., Gragnani, A., Psicoterapia Cognitiva, Raffaello Cortina Editore.

 

Foto di DS stories:
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Nuovo approccio al senso di colpa

di Redazione

La ricerca degli esperti della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) pubblicata sulla rivista dell’International Society for the Study of Individual Differences

Moralità e senso di colpa possono essere visti come due facce della stessa medaglia: la colpa è il risultato emotivo di un conflitto tra il nostro comportamento e la moralità che abbiamo interiorizzato in relazione al contesto e alle esperienze di vita. È quanto emerge da una ricerca condotta nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) diretta dal neuropsichiatra Francesco Mancini. La ricerca è stata coordinata dalla dottoressa Alessandra Mancini e i risultati sono stati pubblicati nell’ultimo numero di Personality and Individual Differences, la rivista accademica ufficiale dell’International Society for the Study of Individual Differences (ISSID), edita da Elsevier.

Secondo il “Modello intuizionista sociale del giudizio morale” dello psicologo statunitense Jonathan Haidt, la moralità è concettualizzata come multidimensionale e costituita da cinque fondamenti morali: danno/cura, che riguarda la sensibilità alla sofferenza e alla crudeltà; imparzialità/reciprocità, che si concentra sulla necessità di giustizia; associazione/lealtà, che implica cooperare e fidarsi del proprio gruppo; autorità/rispetto, che ha a che fare con la valorizzazione dell’obbedienza e del dovere; purezza/santità, che include il disgusto per la contaminazione e riguarda coloro che non riescono a superare i loro impulsi di base.

Le varie culture rispettano questi principi in modo diverso. A un livello più individuale, valori e ideali hanno un ruolo centrale e definiscono l’identità di una persona, motivandola a comportarsi coerentemente con essi. Poiché è accertato che le emozioni negative segnalino la percezione di una discrepanza tra la realtà e le convinzioni e gli obiettivi individuali, le emozioni morali potrebbero funzionare come allarme di una divergenza tra la moralità interiorizzata degli individui e la rappresentazione morale nella società.

In particolare, la colpa è stata definita come “sensazione disforica associata al riconoscimento che si ha violato uno standard morale o sociale personalmente rilevante”. Tuttavia, ci possono essere differenze individuali rispetto a ciò che è “personalmente rilevante”.

Nella convinzione che riconoscere diversi tipi di sensi di colpa rappresenterebbe un passo importante nella ricerca, nello studio Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, gli autori hanno creato uno strumento valido e affidabile – la Moral Orientation Guilt Scale (MOGS) – in grado di misurare in modo indipendente diversi tipi di sensi di colpa, testandolo su un ampio campione subclinico al quale sono stati sottoposti test classici e innovative tecniche di analisi.

L’obiettivo era di evidenziare diversi tipi di sensi di colpa riflessi nei valori morali interiorizzati dagli individui. Questo approccio di convalida incrociata ha indicato quattro fattori di colpa: “violazione delle norme morali”, “sporco morale”, “empatia” e “danno”. Se i primi due fattori sono risultati correlati positivamente con la sensibilità al disgusto, supportando il legame tra disgusto e colpa deontologica, il fattore “danno” è risultato correlato negativamente con i punteggi di sensibilità al disgusto, in linea con l’idea che l’altruismo e il disgusto si siano evoluti come parte di sistemi motivazionali contrastanti.

Dagli esiti dell’indagine è emersa dunque la distinzione tra sentimenti di colpa che attengono alla moralità deontologica e sentimenti di colpa che riguardano la moralità altruistica.

Per scaricare l’articolo

Mancini A., Granziol U., Migliorati D., Gragnani A., Femia G., Cosentino T., Saliani A.M., Tenore K., Luppino O.I., Perdighe C., Mancini F., (2022), Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, Personality and Individual Differences, 189

 

 

Foto di EKATERINA BOLOVTSOVA da Pexels

Adolescenti con disturbo borderline

di Federica Iezzi

Rassegna sui confini diagnostici categoriali

È noto ai clinici dell’età evolutiva come vi debba essere una particolare cura nel porre diagnosi di psicopatologia in bambini e in adolescenti. Si tratta, infatti, di individui in epoca di sviluppo e dunque soggetti a plausibili oscillazioni – in termini di crescita biologica e di maturazione psichica – nonché esposti a forti pressioni ambientali, continui adattamenti e riorganizzazioni, nel contesto di un sé emergente e in evoluzione. Lungo la traiettoria dello sviluppo, vi sono mutazioni evidenti nella sfera cognitiva, affettiva, del controllo degli impulsi e relazionale. Tale condizione intimorisce i clinici nel porre una diagnosi categoriale che possa finire per etichettare il minore, a maggior ragione quando questa implica gravità e inflessibilità: è il caso di una psicopatologia stabile e pervasiva di personalità, come il Disturbo di Personalità Border (DPB). In particolare, alcune ricerche mostrano come la diagnosi di DPB possa generare tra gli psicologi e gli psichiatri un senso di persistente riluttanza e addirittura una certa ostilità.

Descritto nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5), il DPB in età adolescenziale consiste in un pattern pervasivo di sviluppo della personalità, che perdura da più di un anno e che si manifesta attraverso instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, negli affetti e da marcata impulsività. Per porre la diagnosi, devono essere presenti almeno cinque dei seguenti criteri: sforzi per evitare l’abbandono, relazioni interpersonali instabili, disturbi dell’identità, impulsività, comportamenti suicidari e auto-mutilanti, instabilità affettiva, sentimenti cronici di vuoto, rabbia intensa e inappropriata e ideazione paranoide legata allo stress.

Nel contributo dello psichiatra Jean Marc Guilé, il Disturbo di Personalità Border può essere diagnosticato in modo affidabile negli adolescenti a partire dall’età di undici anni.

Allo stato dell’arte, come osservato in uno studio multicentrico condotto in Italia nel 2011 e promosso dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA) su un campione di 162 ragazzi con un’età media di 15,5 anni a cui è stata posta diagnosi di disturbo di personalità, sembrerebbe che la categoria diagnostica maggiormente rappresentata tra i disturbi di personalità sia prettamente quella border, che da sola rappresenta il 45% del campione esaminato. Tale categoria sembra avere una relazione significativa con la presenza in anamnesi di una sintomatologia di tipo esternalizzante: aggressività, disturbi della condotta, isolamento sociale, agiti autolesivi e tentativi di suicidio.

Per quanto riguarda la sintomatologia esternalizzante, come riportato dal neuropsichiatra infantile Michele Poletti, circa il 40% dei soggetti adulti con DBP riporta sintomi compatibili con una diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI) in infanzia e i precoci deficit dell’attenzione in bambini che hanno vissuto un’esperienza traumatica sono considerati precursori del futuro sviluppo del DBP.

Per quanto riguarda i comportamenti di autolesionismo in età evolutiva, è da considerare che in ambito ospedaliero vengono osservati con maggiore frequenza rispetto al passato: in particolare, nel decennio tra il 1990 e il 2000, sono aumentati dal 3.2% al 4.7.

I criteri relativi alla diagnosi di DBP in adolescenza sono stati tradizionalmente mutuati dai criteri utilizzati per la diagnosi dell’adulto. Tuttavia, nonostante il costrutto sia ben consolidato nella popolazione adulta, il fatto che ne esista un corrispettivo per la popolazione adolescente è stato negli ultimi decenni una questione controversa e oggetto di ampio dibattito.

L’affidabilità rispetto alla trasposizione integrale dei criteri diagnostici per DBP dall’ambito della psicopatologia dell’adulto a quella dell’adolescente è stata indagata attraverso una revisione sistematica del 2004, condotta dagli psichiatri Helen Bondurant, Brian Greenfield e Sze Man Tse. Dai risultati emersi, è possibile affermare che non vi sono differenze significative nell’incidenza di DBP, in particolare quando il numero degli adolescenti ospedalizzati (53%) viene confrontato con quello degli adulti (47%). Tuttavia, quando l’efficienza diagnostica dei criteri per DBP viene esaminata in questi due gruppi, il “potere predittivo positivo” dei criteri, cioè la capacità di ciascun criterio di predire la presenza del disturbo, era maggiormente uniforme nel gruppo adulti rispetto al gruppo adolescenti. Al contrario, il “potere predittivo negativo” dei criteri, cioè l’assenza degli stessi, che equivale a dire che la diagnosi è meno probabile, era comparabile tra i due gruppi. Quindi, mentre è possibile applicare i criteri dell’adulto alla diagnosi di BPD adolescenziale, alcuni criteri diagnostici sono più predittivi di altri quando si considera l’epoca dello sviluppo.

Entrambi i gruppi di pazienti con DBP (adolescenti e adulti) mostravano una sovrapposizione con altri disturbi di personalità, e tale condizione era significativamente maggiore rispetto ai gruppi di personalità non-borderline. Inoltre, il gruppo di adolescenti con BPD aveva una distribuzione relativamente ampia di comorbilità rispetto al gruppo di adulti.

Per concludere, un corpo significativo di ricerche suggerisce che segni e sintomi di DBP compaiono molto prima dell’età adulta, spesso nei bambini più piccoli, e che gli adolescenti possono mostrare l’intera gamma di sintomi che si qualificano per una diagnosi di BPD. Tuttavia, ulteriori ricerche sono di fondamentale importanza per raffinare il grado di sensibilità dei criteri utilizzati ai fini di un corretto assessment, per ridurre le ambiguità sottese alle possibili comorbilità e per definire una modalità d’ intervento istituzionalmente condivisa contraddistinta da adeguatezza e tempestività.

Per approfondimenti

Becker DF, Grilo CM, Edell WS, McGlashan. Comorbidity of borderline personality disorder with other personality disorders in hospitalized adolescents and adults. TH Am J Psychiatry. 2000 Dec; 157(12):2011-6.

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Colpa altruistica e colpa deontologica

di Estelle Leombruni

Una tesi dualistica della colpa

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, il neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini e la psicologa e psicoterapeuta Amelia Gangemi affrontano il tema della colpa, dando vita a un corposo lavoro che offre al lettore le informazioni necessarie per un’approfondita comprensione di questa complessa emozione e delle sue implicazioni sulla sofferenza psichica.

La tesi portata avanti è quella dell’esistenza di due forme distinte di colpa: la colpa altruistica, che viene sperimentata quando si assume di aver compromesso uno scopo altruistico, e la colpa deontologica, derivante dall’assunzione di aver violato una propria norma morale.

Queste due forme di colpa generalmente coesistono nella vita quotidiana. Tuttavia è possibile anche sperimentarle separatamente: sentirsi in colpa per non essersi comportati in maniera altruistica senza però violare una propria regola morale oppure trasgredire una norma morale senza che sia presente una vittima, ovvero in assenza di una persona danneggiata.

Sono numerose le evidenze empiriche che supportano tale distinzione: da un punto di vista comportamentale, per esempio, le ricerche mettono in luce come, inducendo uno dei due tipi di colpa, si ottengono azioni di risposta differenti (azione che tutela uno scopo altruistico o azione per uno scopo morale). Dal punto di vista dei circuiti neurali coinvolti in questi processi, gli studi condotti tramite la risonanza magnetica funzionale mettono in risalto come si attivino network cerebrali diversi a seconda del tipo di colpa sperimentato. La distinzione è evidente anche per quanto riguarda il rapporto che questi due sensi di colpa hanno con altre emozioni, per esempio la colpa deontologica sembrerebbe che abbia una stretta connessione con il disgusto, mentre la forma altruistica con il vissuto di pena.

Questa duplice visione del sentimento di colpa consente una maggiore comprensione di altri fenomeni (come per esempio del cosiddetto “omission bias”, ovvero la tendenza sistematica a favorire un atto di omissione rispetto a uno di commissione) e ha importanti implicazioni circa la psicologia clinica, come per esempio nella comprensione del disturbo ossessivo- compulsivo, in cui svolge un ruolo cruciale la colpa deontologica, e di alcune forme di reazione depressiva per cui sembra essere rilevante la colpa altruistica.

Una comprensione più approfondita dei disturbi consente di sviluppare interventi psicoterapici che mirino specificatamente al tipo di colpa che potrebbe essere alla base delle problematiche presentate, garantendo in questo modo una maggiore possibilità di successo terapeutico, ossia di raggiungimento e mantenimento degli obiettivi prefissati. L’approfondimento proposto dai due autori, consente quindi non solo di comprendere meglio le determinanti psicologiche e le implicazioni cliniche dei due sensi di colpa, ma offre anche la possibilità di sviluppare interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni psicoterapiche e sulle future possibili ricerche.

Per approfondimenti


https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.651937/full

Covid e ossessioni

di Giuseppe Femia

L’impatto della pandemia sulla salute mentale

Un importante lavoro di ricerca, utile per coloro che si occupano di psicopatologia e dell’impatto del COVID-19 sulla salute mentale, con particolare riferimento al Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), è stato di recente pubblicato nella rivista Journal Frontiers in Psychiatry. Narrative Review of COVID-19 Impact on Obsessive-Compulsive Disorder in Child, Adolescent and Adult Clinical Populations: questo il titolo dello studio realizzato da Vittoria Zaccari, Maria Chiara D’Arienzo, Tecla Caiazzo, Antonella Magno, Graziella Amico e Francesco Mancini della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC – SPC) di Roma, con l’intento di revisionare tutti i contributi pubblicati dopo gennaio 2020 che hanno affrontato l’impatto della pandemia COVID-19 sul DOC.

Diversi studi dimostrano come l’emergenza sanitaria abbia generato un grado di malessere e disagio psicologico nella popolazione generale, nella popolazione clinica adulta e in bambini e adolescenti, decretando un peggioramento di diversi quadri clinici e un incremento delle difficolta psicologiche. In questo panorama, non può essere tralasciato l’impatto della pandemia sul DOC, condizione clinica caratterizzata, in alcuni casi, da una sintomatologia fortemente sensibile al timore e alla probabilità di contaminazione, dalla percezione di una maggiore responsabilità di contagiarsi o contagiare gli altri e da comportamenti protettivi volti ad allontanare o neutralizzare un possibile rischio di contaminazione o colpa per irresponsabilità, tutti aspetti fortemente veicolati in questo periodo di emergenza da COVID-19.

La letteratura più recente non manca di mettere in evidenza come alcuni sintomi ossessivo-compulsivi si siano aggravati a causa della situazione attuale, sia nella popolazione clinica adulta che in età evolutiva, ma in tale molteplice panorama mancava un lavoro di revisione della letteratura che mettesse in luce la relazione tra DOC e COVID-19: in tal senso, il lavoro  ha avuto come scopo quello di evidenziare ed analizzare i dati volti a rilevare il peggioramento clinico o il miglioramento della sintomatologia ossessivo-compulsiva in campioni clinici con DOC di adulti e in età evolutiva.

Sono stati passati in rassegna tutti i contributi empirici pubblicati da Gennaio 2020 a Gennaio 2021 inerenti l’impatto della pandemia COVID-19 sul DOC in bambini, adolescenti e adulti, anche in termini di limitazioni.

La ricerca in letteratura è stata condotta utilizzando i principali database scientifici. Sono stati esaminati un totale di 102 articoli, che hanno portato all’identificazione di 64 articoli full-text da esaminare ulteriormente. Dall’analisi della letteratura, sono stati selezionati gli articoli che rispettavano tutti i criteri di eleggibilità, per un totale di 14 studi.

La review ha rivelato che il COVID-19 ha avuto un impatto sul DOC sia negli adulti che nei giovani e sembra aver causato un esacerbazione dei sintomi, in particolare del sottotipo DOC contaminazione/lavaggio. Otto studi su campioni adulti hanno mostrato un aumento della gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi; due studi hanno sottolineato un impatto minimo del COVID-19 sui pazienti con DOC e uno studio ha mostrato un lieve miglioramento dei sintomi. Due studi su tre su bambini e adolescenti hanno mostrato una esacerbazione della sintomatologia ossessivo-compulsiva e un peggioramento anche in presenza di un trattamento in corso.

Globalmente la rassegna documenta un sostanziale impatto negativo della pandemia su pazienti con DOC, sia adulti che in età evolutiva.

Tuttavia, tale analisi della letteratura è stata rilevante per riflettere sulle diverse limitazione degli studi considerati: il numero di soggetti reclutati era piuttosto esiguo; i campioni coprivano un’ampia fascia di età; pochi studi hanno esaminato i sottotipi di DOC; nella maggior parte degli studi la tipologia del trattamento non era chiara; un gran numero di studi non ha utilizzato lo stesso periodo di monitoraggio o misure quantitative standardizzate.

Lo studio dell’Associazione Scuola di Psicoterapia Cognitiva ha indagato l’impatto del COVID-19 sul DOC e fornisce alla comunità scientifica informazioni importanti, evidenzia le limitazioni degli studi pubblicati e mette in evidenza l’importanza dell’influenza delle variabili contestuali odierne.

Per approfondimenti

https://doi.org/10.3389/fpsyt.2021.673161

 

Foto di Yaroslav Danylchenko da Pexels

Disturbo borderline di personalità e disturbo bipolare: alcuni fattori clinici per discriminarli

a cura di Giuseppe Romano

La sintomatologia del disturbo borderline di personalità (DBP) e del disturbo bipolare (DB) spesso sembra sovrapporsi. In alcuni casi, può essere quindi complicato condurre una diagnosi differenziale che si basi esclusivamente sui criteri diagnostici descritti nei sistemi di classificazione internazionali (Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders fifth edition, DSM-5, American Psychiatric Association, 2013; International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems 11th ed, ICD-11, World Health Organization, 2019). Nella pratica clinica, i professionisti possono incontrare delle difficoltà nello stabilire se si è di fronte ad un individuo con DBP, DB o con entrambe le diagnosi. Un’errata diagnosi può influenzare il trattamento e incidere negativamente sulla qualità di vita del paziente.

A partire da queste premesse, gli autori (Wright L., Lari L., Iazzetta S., Saettoni M. e Gragnani A.) si propongono di rintracciare, entro la letteratura inerente il DBP e il DB, alcuni fattori clinici che si distinguano per l’elevata capacità di discriminare le due entità cliniche. Questi fattori in effetti, utilizzati insieme a interviste strutturate o semi-strutturate, potrebbero aiutare a migliorare il corretto inquadramento diagnostico. Per far questo, gli autori conducono una revisione degli studi scientifici che analizzano i costrutti relativi al concetto di sé, all’identità e all’autostima in quanto fattori con alta capacità di differenziare i due disturbi.

Considerato che esistono numerose definizioni differenti tra loro dei costrutti sopra nominati, di notevole utilità per il lettore risulta essere la stesura di un glossario in cui si cerca di chiarire le descrizioni, proposte da vari autori, di “self-concept, identity, narrative identity, self-esteem e self-stigma”. Il glossario proposto non è un’analisi esaustiva di questi complessi concetti ma la sua fruibilità risiede nel fatto che stabilisce un punto di partenza comune con il lettore e informa lo stesso dell’importanza che una corretta definizione dei costrutti ha per la strutturazione di studi futuri.

A partire da queste delucidazioni, gli autori hanno analizzato e confrontato i lavori presenti in letteratura per il DBP e per il DB. In sintesi, emerge che l’identità nel DBP ha una connotazione qualitativa prevalentemente negativa e che le fluttuazioni nel concetto di sé e nell’autostima sono spesso legate a fattori scatenanti interpersonali. Nel DB invece, i pazienti mostrano delle alterazioni in termini identitari ma l’identità narrativa sembrerebbe essere in minor misura compromessa rispetto al DBP.  Sempre nel DB, i cambiamenti nel concetto di sé e nell’autostima sembrano essere maggiormente legati ad alcuni fattori interni come le oscillazioni timiche e la componente motivazionale.

Per ridurre la complessità dei contenuti trattati in questa review, gli autori hanno voluto sistematizzare in quattro tabelle i principali dati emersi e le misure usate negli studi (rispettivamente tabelle 2 e 3 e tabelle 4 e 5).

Un ulteriore apprezzabile sforzo è quello relativo alla riorganizzazione dei risultati secondo la prospettiva cognitivista. A partire da questa cornice teorica e clinica di riferimento, gli autori hanno cercato di spiegare come questi domini potrebbero contribuire alla genesi ed al mantenimento della sofferenza psicologica nei pazienti con DBP e con DB.

Infine, considerata l’importanza di una comprensione profonda del funzionamento intrapsichico ed interpersonale di questi pazienti, gli autori sottolineano la necessità di strutturare ulteriori studi comparativi che aiutino il clinico a differenziare precocemente e precisamente la sintomatologia dei due disturbi in modo da impostare correttamente il trattamento.

Riferimenti bibliografici

Wright L, Lari L, Iazzetta S, Saettoni M, Gragnani A. Differential diagnosis of borderline personality disorder and bipolar disorder: Self-concept, identity and self-esteem. Clin Psychol Psychother. 2021;1–36. https://doi.org/10.1002/cpp.2591

per consultare l’articolo