La relazione terapeutica nel trauma complesso

a cura di Federica Visco Comandini

Il concetto di intimità nel trauma complesso è fortemente dibattuto in quanto la vicinanza con l’altro è al contempo desiderata e temuta, condizionando il funzionamento interpersonale di coloro che ne soffrono.

L’attivazione del sistema dell’attaccamento può provocare stati emotivi intensi e intollerabili, portando alla messa in atto di strategie di potere e controllo per non sentirsi in balìa di una realtà vissuta come terrifica.

Come tutto questo può esprimersi nella relazione terapeutica che è, per definizione, una relazione di accudimento?

È quello che hanno provato a descrivere Carolina Papa, Erica Pugliese, Claudia Perdighe, Ramona Fimiani e Francesco Mancini nell’articolo “I Am Longing and Afraid to Depend on You”: A Case Report on Breakdowns of Therapeutic Alliance and Interpersonal Cycles in Complex Trauma.

Attraverso un’esemplificazione clinica vengono descritti i cicli interpersonali tra paziente e terapeuta in un caso di forte paura dell’intimità in cui la paziente combatte per riuscire a non sentirsi emotivamente dipendente dalla terapeuta.

Il lavoro suggerisce come la regolazione delle proprie attivazioni all’interno della relazione terapeutica rappresenti un prerequisito fondamentale per i terapeuti che lavorano col trauma complesso e sottolinea la rilevanza della qualità della relazione terapeutica con questo tipo di pazienti.

L’articolo è disponibile in open access al seguente link:  https://www.mdpi.com/2076-3425/14/12/1207

 

Autocritica: un viaggio nel dialogo interiore che alimenta il malessere psicologico

di Luciana Ciringione

Negli ultimi anni la ricerca clinica si sta concentrando sempre di più sullo studio dell’autocritica, non solo per la sua capacità di influenzare profondamente lo stato di salute mentale degli individui, ma anche per il suo impatto sullo sviluppo e sul trattamento di diverse condizioni psicopatologiche.

Si definisce “autocritica” una modalità di auto-valutazione e auto-analisi che, quando raggiunge livelli patologici, si manifesta attraverso un dialogo interno ostile e auto-punitivo (Gilbert et al., 2004). Nell’articolo «You’re Ugly and Bad!»: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms (Papa et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Current Psychology, gli autori e le autrici hanno evidenziato l’importanza del considerare le caratteristiche specifiche dell’autocritica per meglio comprendere e trattare le diverse psicopatologie.

In particolare, viene sottolineato l’aspetto transdiagnostico dell’autocritica, il quale influisce negativamente sulla salute mentale degli individui associandosi a varie forme di psicopatologia come, ad esempio, disturbo d’ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi alimentari. I risultati dello studio mostrano come l’autocritica assuma specifiche caratteristiche in relazione al funzionamento psicologico individuale e, in particolare, al profilo interno dei diversi disturbi (Papa et al., 2024). Ad esempio, in individui che riportano sintomatologia di ansia sociale, l’autocritica tende a manifestarsi sotto forma di confronto costante con gli altri, percepiti come superiori e/o critici: questo meccanismo genera sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che alimentano la paura del giudizio altrui (Thompson & Zuroff, 2004). Nei disturbi alimentari, invece, l’autocritica è spesso legata al perfezionismo, con standard irrealistici riguardanti il proprio corpo. Infine, nel disturbo ossessivo-compulsivo, l’autocritica si manifesta con un atteggiamento punitivo verso sé stessi per non aver rispettato standard morali estremamente elevati (Mancini et al., 2021).

Si identificano, in particolare, due forme principali di autocritica: l’inadequate-self, legato a un senso di fallimento e frustrazione in risposta ai fallimenti, e l’hated-self, caratterizzato da sentimenti di disgusto e odio verso sé stessi (Gilbert et al., 2004). L’inadequate-self è più comune nei disturbi come l’ansia sociale, dove l’individuo si sente costantemente inferiore rispetto agli altri considerati più “adeguati”. L’hated-self, d’altra parte, è più strettamente associato ai disturbi alimentari e al disturbo ossessivo-compulsivo, dove il soggetto può arrivare a sviluppare un profondo disprezzo per sé stesso all’idea di non riuscire a raggiungere gli irrealistici standard di tipo sociale o morale. Infatti, nella relazione fra queste due forme di autocritica e lo sviluppo di sintomatologia, particolare rilevanza sembra assumere l’autocritica comparativa che si focalizza sul confronto svantaggioso con gli altri (Thompson & Zuroff, 2004).

Lo studio di Papa e collaboratori (2024) sottolinea, inoltre, come l’autocritica si intrecci spesso con l’alessitimia, ovvero la difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni (Sifneos, 1973). Gli individui con elevati livelli di autocritica, infatti, tendono a evitare di entrare in contatto con i propri stati emotivi, ostacolando l’elaborazione delle emozioni negative e rafforzando i sentimenti di inadeguatezza (Gilbert et al., 2011). Inoltre, la presenza di alessitimia predispone all’utilizzo di strategie di regolazione emotiva disadattive, come l’autocritica, creando un circolo vizioso di difficoltà emotive e pensieri auto-punitivi che mantengono la sintomatologia (Pascual-Leone et al., 2016).

Alla luce di queste evidenze, risulta fondamentale distinguere le diverse forme di autocritica nei pazienti per sviluppare interventi terapeutici mirati. I trattamenti che integrano la consapevolezza delle emozioni, come la schema therapy attraverso il chairwork, stanno dimostrando di essere particolarmente efficaci nel ridurre l’autocritica e migliorare il benessere emotivo (Young et al., 2003).

Si può, quindi, considerare l’autocritica come un fenomeno eterogeneo e multidimensionale che incide significativamente sulla salute mentale degli individui. Comprenderla in modo approfondito consente non solo di delineare strategie di intervento più efficaci, ma anche di promuovere una maggiore consapevolezza emotiva nei pazienti, migliorando così i risultati degli interventi clinici.

Bibliografia

Gilbert, P., Clarke, M., Hempel, S., Miles, J. N., & Irons, C. (2004). Crit­icizing and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. British Journal of Clinical Psychol­ogy, 43(1), 31–50.

Gilbert, P., McEwan, K., Matos, M., & Rivis, A. (2011). Fears of com­passion: Development of three self-report measures. Psychology and Psychotherapy: Theory Research and Practice, 84(3), 239– 255.

Mancini, F., Luppino, O. I., & Tenore, K. (2021). Disturbo ossessivo-compulsivo. In Perdighe, C., & Gragnani, A. (Cur.) Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali (pp 511–558). Raffaello Cortina Editore.

Papa, C., D’Olimpio, F., Zaccari, V., Di Consiglio, M., Mancini, F., & Couyoumdjian, A. (2024). “You’re Ugly and Bad!“: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms. Current Psychology, 1-16.

Pascual-Leone, A., Gillespie, N. M., Orr, E. S., & Harrington, S. J. (2016). Measuring subtypes of emotion regulation: From broad behavioural skills to idiosyncratic meaning‐making. Clini­cal Psychology & Psychotherapy, 23(3), 203–216.

Sifneos, P. E. (1973). The prevalence of ‘alexithymic’characteristics in psychosomatic patients. Psychotherapy and Psychosomatics, 22(2–6), 255–262.

Thompson, R., & Zuroff, D. C. (2004). The levels of self-criticism scale: Comparative self-criticism and internalized self-criticism. Personality and Individual Differences, 36(2), 419–430.

Young, J. E., Klosko, J. S., & Weishaar, M. E. (2003). Schema therapy: A practitioner’s guide. Guilford Press.

Il trauma nella violenza di coppia

a cura di Ludovica Briotti

Negli ultimi decenni gli effetti psicologici del trauma hanno destato sempre maggiore interesse nella ricerca in ambito clinico. Infatti, è noto come i pattern derivanti da esperienze traumatiche vissute nel corso della vita costituiscano un significativo fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi d’ansia e depressivi, nonché di difficoltà nelle relazioni interpersonali (Rademaker et al., 2008).

Diversi studi hanno posto attenzione alle conseguenze del trauma “con la T maiuscola”, ossia la sintomatologia derivante dall’aver vissuto eventi di minaccia alla propria incolumità, arrivando alla diagnosi di PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder), attualmente riconosciuto nel DSM-5 come un disturbo caratterizzato da mancata elaborazione della memoria traumatica, pensieri intrusivi, flashback e incubi (APA, 2013).

Nel tempo, clinici e ricercatori si sono resi conto che vi era una fetta della popolazione che presentava una sintomatologia di natura traumatica in assenza di eventi minacciosi per l’integrità fisica. A partire da qui, la ricerca ha iniziato a considerare la natura interpersonale del trauma, arrivando alla diagnosi di cPTSD (Complex Post-Traumatic Stress Disorder), caratterizzato da una costellazione di sintomi quali disregolazione emotiva, idea negativa di sé e difficoltà relazionali che derivano da traumi prolungati o ripetitivi, come abusi infantili o violenza domestica (WHO, 2022).

Alla luce di queste nuove evidenze, si è notato che alcuni di questi sintomi rientravano anche nella diagnosi di BPD (Borderline Personality Disorder), caratterizzato da una pervasiva instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, marcata impulsività e reattività dell’umore (APA, 2013). Di conseguenza, vari autori si sono concentrati  sulla sovrapposizione dei sintomi caratterizzanti questi profili psicopatologici di matrice traumatica con l’obiettivo di differenziarli nelle loro peculiarità  allo scopo di implementare interventi sempre più individualizzati ed efficaci.

Nonostante la ricerca sia andata avanti negli ultimi anni dimostrando la sempre maggiore necessità di una diagnosi differenziale fra PTSD, cPTSD e BPD, nessuna ricerca finora aveva indagato la fenomenologia di tali disturbi nell’ambito della violenza di coppia. L’intimate partner violence (IPV) è definita come qualunque comportamento controllante, coercitivo, minaccioso, di violenza o abuso tra partner. L’abuso può essere di tipo psicologico, fisico, sessuale, finanziario ed emotivo (WHO, 2021). Sebbene  il trauma sia da tempo riconosciuto come fattore di rischio centrale per l’IPV, gli autori dell’articolo “Understanding Trauma in IPV: Distinguishing Complex PTSD, PTSD and BPD in victims and offenders” (Pugliese et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Brain Sciences, hanno per la prima volta considerato la diagnosi differenziale tra il Disturbo Post-Traumatico da Stress Complesso (cPTSD), il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) e il Disturbo Borderline di Personalità (BPD), nel contesto della violenza di coppia (IPV).

In particolare, l’obiettivo dello studio è stato quello di analizzare come le specifiche caratteristiche di PTSD, cPTSD e BPD si declinano rispettivamente nelle vittime e nei perpetratori di IPV. I risultati hanno evidenziato che i tre quadri psicopatologici sono presenti, seppur con profili clinici distinti, sia nelle vittime che negli abusanti. Infatti, è emerso come le caratteristiche  dell’IPV siano influenzate da specifici funzionamenti psicologici che emergono in risposta al trauma. In particolare, il PTSD risulta essere un quadro psicopatologico conseguente la violenza subìta piuttosto che rappresentare un fattore predisponente di base, nonostante assuma un ruolo di mantenimento centrale per la rivittimizzazione. Infatti, tale disturbo si manifesta nelle vittime di IPV attraverso caratteristiche quali l’hyperarousal e l’emotional numbing che, aumentando la percezione di minaccia, ostacolano la vittima dalla possibilità di uscire dalla relazione abusante, mantenendo il ciclo della violenza nel tempo.

Riguardo invece al cPTSD, è emerso come la componente DSO (Disturbances in Self-Organization) – caratterizzata da disregolazione emotiva, concetto negativo di sé e difficoltà relazionali – è più frequentemente presente nei perpetratori, mentre le caratteristiche di distacco emotivo ed evitamento appaiono maggiormente correlate al funzionamento psicologico delle vittime di violenza. Infine, il BPD, anche se più presente negli offenders per le sue caratteristiche di aggressività e impulsività, è stato riscontrato anche nelle vittime con la paura del rifiuto e l’instabilità dell’identità che ne costituiscono i maggiori fattori di rischio.

Il diverso legame tra PTSD, cPTSD e BPD con l’IPV emerso da questa recente pubblicazione mette in luce la rilevanza di comprendere sempre meglio i meccanismi emotivi, cognitivi e comportamentali che intervengono nella relazione tra esperienze traumatiche e violenza interpersonale. Considerando che alcune condizioni psicologiche derivanti da esperienze traumatiche precoci, quali la Dipendenza Affettiva Patologica, sono già state riconosciute come fattori di rischio per la violenza nelle relazioni intime (Pugliese et al., 2023a, 2023b), il gruppo di ricerca sul trauma dell’Associazione di Psicoterapia Cognitiva di Roma sta attualmente conducendo nuove ricerche su campioni di maltrattanti e vittime di violenza allo scopo di esplorare le traiettorie di sviluppo che conducono all’IPV. Inoltre, è in corso di stesura un’ulteriore pubblicazione volta a chiarificare la sovrapposizione dei sintomi di PTSD, cPTSD e BPD in relazione alle esperienze di maltrattamento infantile. Lo sviluppo nell’ambito della ricerca sul trauma è, ad oggi, fondamentale per comprendere quali condizioni psicologiche sono associate a un maggior rischio di subire e/o perpetrare violenza, uno dei fenomeni di maggior portata psicologica e sociale attualmente presenti in tutto il mondo.

Riferimenti bibliografici

American Psychiatric Association, DSM-5 Task Force. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: DSM-5™, 5th ed.; American Psychiatric Publishing, Inc.: Arlington, VA, USA, 2013.

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A. M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., … & Mancini, F. (2023b). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14(2), 305-333. DOI: 10.4236/psych.2023.142018

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023a). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15(2), 1624. https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Visco-Comandini, F., Papa, C., Ciringione, L., Cornacchia, L., Gino, F., … & Mancini, F. (2024). Understanding Trauma in IPV: Distinguishing Complex PTSD, PTSD, and BPD in Victims and Offenders. Brain Sciences, 14(9), 856. https://doi.org/10.3390/brainsci14090856

Rademaker, A. R., Vermetten, E., Geuze, E., Muilwijk, A., & Kleber, R. J. (2008). Self‐reported early trauma as a predictor of adult personality: a study in a military sample. Journal of clinical psychology, 64(7), 863-875. https://doi.org/10.1002/jclp.20495

World Health Organization. (2016). World Health Statistics 2016 [OP]: Monitoring Health for the Sustainable Development Goals (SDGs). World Health Organization.

 

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L’imagery Rescripting di gruppo online

Riduce le credenze disfunzionali legate al sé e il problema secondario ma non incrementa la Self-Compassion positiva

a cura di Alessandra Mancini

L’articolo pubblicato recentemente sulla rivista Current Psychology, edita da Springer mira ad espandere i dati empirici sulla tecnica esperienziale cardine della Schema Therapy, ovvero il rescripting (o Imagery Rescripting; IR). La ricerca ha mostrato come l’IR sia in grado di ridurre l’intensità delle emozioni negative; le difficoltà di regolazione emotiva e le credenze patogene in diversi disturbi mentali. Tuttavia, data la natura complessa di questa tecnica, i meccanismi di cambiamento coinvolti nella sua efficacia sono attualmente oggetto di indagine. L’ipotesi testata nell’articolo in oggetto è che l’IR riduca, oltre che l’intensità delle credenze patogene legate al sé, anche la risposta emotiva negativa alle emozioni primarie (cioè il problema meta-emotivo) e le difficoltà di regolazione emotiva (tra cui la benevolenza verso se stessi) (Mancini e Mancini, 2018).

Con il diffondersi dei trattamenti online e delle app che promuovono la salute mentale, si è riscontrata la necessità di fare luce sull’efficacia di questa tecnica anche quando erogata in un contesto telematico. Nello studio in oggetto, i ricercatori hanno chiesto ad un totale di 45 partecipanti subclinici di valutare quale tra alcune frasi associate a Disturbi di Personalità (DP) e a Schemi patogeni evocasse in ciascuno di loro maggior sofferenza. A partire dalla credenza identificata a ciascun partecipante è stato chiesto di evocare un ricordo di infanzia su cui è poi stato eseguito il rescripting. Da notare che, nella fase di rescripting, a ciascun partecipante veniva chiesto di far entrare il proprio Sé adulto nell’immagine e di produrre un intervento in modo da soddisfare i bisogni emotivi del proprio Sé bambino. Il rescripting è stato ripetuto per tre volte a distanza di una settimana. Al termine della somministrazione ai partecipanti è stato chiesto di valutare nuovamente le credenze patogene, le meta-emozioni, l’autocompassione e le proprie capacità di regolazione emotiva lungo l’arco di tre sessioni di follow-up.

I risultati hanno mostrato una riduzione significativa nelle credenze disfunzionali tipiche di alcuni DP, in particolare quelle associate ai DP dipendente, ossessivo-compulsivo, antisociale e istrionico. Inoltre, è stata riscontrata una riduzione significativa delle misure del problema secondario, in particolare delle credenze disfunzionali sulle emozioni e della valenza negativa associata alle emozioni negative. Infine, è stata osservata una riduzione significativa delle difficoltà di regolazione emotiva. Tuttavia, mentre la Self Compassion negativa è risultata significativamente ridotta dopo le tre sessioni di IR, la Self Compassion positiva è rimasta invariata.

LE TECNICHE DI IMMAGINAZIONE IN PSICOTERAPIA
LE TECNICHE DI IMMAGINAZIONE IN PSICOTERAPIA

Questi risultati suggeriscono alcune considerazioni di interesse clinico. In primo luogo, rafforzano dati precedenti che mostrano che l’IR può modificare le credenze patogene legate ai disturbi di personalità e riduca le emozioni negative associate al ricordo (p.es. la vergogna, Tenore et al., 2022). In secondo luogo, mostrano come essa sia in grado di ridurre il problema meta-emotivo o secondario. Il risultato non è banale dato che il problema meta-emotivo è considerato un fattore di mantenimento importante a livello trans-diagnostico. Infine, suggeriscono che l’IR erogata online sia in grado di ridurre le difficoltà di regolazione emotiva e le scale negative della Self Compassion (i.e. giudizio di sé, isolamento e iperidentificazione). In una review del 2017 Murris e Petrocchi suggeriscono che gli indicatori negativi della Self Compassion siano più fortemente associati alla psicopatologia rispetto a quelli positivi (che rappresentano piuttosto un indice di protezione verso la psicopatologia). Per cui, sembra che questo intervento riduca l’autocritica e l’auto-invalidazione emotiva ma che non aumenti un atteggiamento più benevolo verso se stessi. Una possibile interpretazione di questo dato è che il contesto di gruppo non consentiva al terapeuta di “entrare” nel ricordo e modellare un atteggiamento benevolo verso la parte bambina del paziente e verso le sue emozioni. Questo limite ha forse ostacolato la promozione di una attitudine più benevolente verso se stessi.

Riferimenti bibliografici

Tenore, K.; Granziol, U.; Luppino, O.; Mancini, F. & Mancini, A. (2024). Group imagery imagery rescripting via telehealth decreases dysfunctional personality beliefs and the meta-emotional problem but does not increase positive self-compassion. Current Psychology. 1-12. 10.1007/s12144-024-05815-x.

Tenore, K.; Mancini, A.; Luppino, O. I.; Mancini, F. Group Imagery Rescripting on Childhood Memories Delivered via Telehealth: A Preliminary Study. Front. Psychiatry 2022, 13. https://doi.org/10.3389/fpsyt.2022.862289.

Mancini A, Mancini F. Rescripting Memory, Redefining the Self: A Meta-Emotional Perspective on the Hypothesized Mechanism(s) of Imagery Rescripting. Front Psychol. 2018 Apr 20;9:581. doi: 10.3389/fpsyg.2018.00581. PMID: 29731735; PMCID: PMC5919940.

Assessment e Cognitivismo

di Anna Chiara Franquillo (SPC sede di Grosseto)

Il ruolo degli scopi e degli antiscopi nella concettualizzazione del paziente.

Più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio: assessment e trattamento dei disturbi di personalità è il nome del simposio che, al XXI Congresso Nazionale SITCC di Bari, ha ospitato un lavoro molto interessante, oltre che innovativo, sul ruolo degli scopi e degli antiscopi all’interno della prospettiva cognitivista. Perché è centrale comprendere la concezione scopo/antiscopo all’interno della psicopatologia? Giuseppe Femia, insieme ad un nutrito gruppo di ricerca composto dai colleghi Isabella Federico, Andrea Gragnani, Francesca D’Olimpio, Guyonne Rogier, Roberto Lorenzini e Francesco Mancini, ha risposto ad un interrogativo così importante e cruciale attraverso un complesso studio, che si è posto l’obiettivo di sottolineare quanto l’iperinvestimento sugli scopi e gli antiscopi, oltre che la rigidità, la pervasività e persistenza degli stessi, possano costituire un nucleo centrale di sofferenza soprattutto in relazione a manifestazioni psicopatologiche come i disturbi di personalità.
Ma… andando per gradi… che definizione potremmo dare alla concezione di goal e antigoal?
Potremmo parlare di entrambi differenziandoli in stato desiderato e stato temuto, come qualcosa, cioè, da raggiungere e da evitare ad ogni costo, all’interno di una rappresentazione individuale in cui questi si strutturano nel tempo e costruiscono il modo in cui la persona si muove nel mondo. Sulla base di ciò, l’obiettivo dello studio era proprio quello di osservare se fosse maggiore l’iperinvestimento degli scopi/antiscopi in un campione clinico rispetto al gruppo di controllo e a quello di psicoterapeuti in formazione, e se l’iperinvestimento si associasse a maggiore disagio e sofferenza. È stato costruito, pertanto, uno strumento ad hoc chiamato Strumento Scopi- Antiscopi (S-AS) in grado proprio di cogliere sia attraverso domande qualitative, che quantitative, oltre che con l’utilizzo di una checklist di emozioni, l’architettura scopistica dell’individuo. Questo strumento vanta la sua costruzione sulla base di una grande pratica clinica, oltre che su un confronto attivo con i colleghi in grado di fornire stimoli e spunti di riflessioni secondo la prospettiva cognitivista. Quello che emerge è che il gruppo clinico, rispetto al gruppo di controllo e quello degli psicoterapeuti in formazione, ottiene punteggi più alti rispetto alla scala del prestigio interpersonale, a quella dell’instabilità psicologica e quella dell’esclusione sociale, del perfezionismo, dell’autosacrificio dell’identità e, infine, della fiducia. Queste considerazioni statistiche supportano la concezione iniziale teorica che fonda le basi dello studio e fornisce delle prime osservazioni sull’importanza di tale strumento all’interno dell’assessment cognitivista. L’utilizzo di tale strumento si rivela fondamentale poiché, se l’assessment è ben fatto e riesce a cogliere le specifiche dell’individuo attraverso la formulazione degli scopi e antiscopi che lo muovono nel rapporto con sé e con il mondo esterno, allora anche la strutturazione del trattamento può diventare mirata e ben focalizzata sulla persona, sui suoi personali significati e rappresentazioni. Un buon trattamento non può esistere se prima non si è fatto un buon assessment. Per questo, ampliare la prospettiva cognitivista di uno strumento come il S-AS può diventare un plus valore sia per i pazienti che per i terapeuti stessi, i quali si troveranno ad accedere in maniera più agevolata al paziente e ai suoi contenuti più profondi, costruendo di conseguenza interventi sia mirati che accurati.

Foto di Ishaan Aggarwal: https://www.pexels.com/it-it/foto/cartina-geografica-bussola-tiro-verticale-mappa-8231152/

Più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio

di Augusta Luana, Bartolo Emmanuela, De Santis Giuseppe, Lavilla Federica (centro clinico Ecopoiesis Reggio Calabria)

Assessment e disturbi di personalità

Il XXI Congresso Nazionale SITCC è stato il teatro, nella sede mediterranea di Bari, di un simposio sull’assessment, con chair il Dott. Andrea Gragnani e la Dott.ssa Donatella Fiore nel ruolo di discussant, ricco di interventi che hanno sintetizzato al meglio gli obiettivi di ricerca e di impegno sociale propri della psicoterapia cognitiva: più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio: assessment e trattamento dei disturbi di personalità.

Già il titolo introduce l’importanza di considerare la valutazione iniziale con il paziente come una guida imprescindibile per il clinico, finalizzata a una migliore gestione dell’intervento terapeutico e orientata a scegliere il miglior trattamento possibile. Per procedura di assessment intendiamo infatti l’operazione di valutazione che ha inizio al momento del primo contatto con il soggetto, e che prosegue durante tutta la durata della terapia (Bara, 2006).

Nella prima relazione, dal titolo “Assessment terapeutico” e drop-out nei pazienti complessi, il Dott. Gaetano Mangiola (Centro Clinico Ecopoiesis, Reggio Calabria) ha indagato l’efficacia di anteporre al trattamento dei pazienti con disturbi di personalità una fase iniziale di assessment standardizzato, in linea con il Therapeutic Model of Assessment TMA (Finn, 1998).

La procedura di assessment dell’Associazione Ecopoiesis prevede un primo colloquio clinico semi-strutturato per analizzare il motivo della visita; due incontri dedicati all’intervista SCID-5-PD, alla somministrazione di una batteria di test (MMPI-2, PID-5, LPFS, SCL-90, TAS-20, ASQ e IIP-47) e all’approfondimento di un questionario anamnestico; un ultimo incontro di restituzione al paziente del suo funzionamento in ottica cognitiva e di una proposta terapeutica.

Ciò che in genere si osserva è che, al termine dell’incontro di restituzione, nel paziente avviene un processo di insight rispetto al proprio funzionamento, con un aumento della fiducia e della motivazione al trattamento che migliorano l’alleanza terapeutica (Sartori, 2010) e favoriscono di conseguenza un outcome migliore.

Partendo da questa ipotesi, il lavoro si è proposto di confrontare i dati relativi al drop-out del campione di 484 soggetti con disturbi di personalità a disposizione del Centro Clinico con quelli presenti in letteratura, ipotizzando che il modo in cui la procedura di assessment è strutturata riduca la percentuale di drop-out dei pazienti complessi.

Effettivamente, i risultati della ricerca hanno mostrato come l’assessment sembri avere un effetto positivo in termini di riduzione del drop-out dei pazienti con disturbi di personalità, in particolare del cluster B, soprattutto con diagnosi di tipo narcisistico e borderline. Inoltre, i pazienti che effettuano una procedura standardizzata di assessment comprensiva di un incontro di restituzione hanno un outcome migliore rispetto ai dati presenti in letteratura, e presentano anche un tasso di drop-out significativamente più basso rispetto ai pazienti che non effettuano una procedura standard di valutazione.

A seguire il Dott. Giuseppe Femia, con l’iper-investimento su scopi e la psicopatologia: quale relazione?, ha presentato lo strumento Scopi-Antiscopi (S-AS, Femia et al., 2021), ancora in fase di validazione, che sembrerebbe essere in grado di indagare scopi e antiscopi dei pazienti.
Dal punto di vista clinico, l’utilizzo dello strumento potrebbe cogliere l’architettura scopistica, agevolando così il lavoro di assessment e offrendo un supporto per lo sviluppo dell’alleanza terapeutica, oltre che per una progettazione mirata dell’intervento.

Cornice teorica alla base dello studio è che la mente degli esseri umani non si limita a credere e sapere, ma crea anche rappresentazioni di ciò che vuole – gli scenari desiderati o scopi – e ciò che non vuole – gli scenari temuti o antiscopi (Saliani et al., 2020). Dunque, la psicopatologia e, più specificamente, i disturbi di personalità, oltre che da caratteristiche di rigidità degli investimenti, pervasività e persistenza che portano allo svilupparsi di un piano esistenziale povero che genera sofferenza e resistenza al cambiamento, sembrano essere propriamente caratterizzati anche da un iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi.

Lo studio condotto ha quindi voluto esplorare la struttura fattoriale dello strumento S-AS e la relazione che intercorre tra i diversi fattori del S-AS e i domini della personalità. A tal fine ad un campione di 572 soggetti, suddivisi in tre gruppi: popolazione generale, gruppo clinico e psicoterapeuti in formazione, resi omogenei per età e per genere, è stato somministrato lo strumento S-AS, questionario composto da un elenco di 20 scopi e 20 antiscopi. Inoltre, ipotizzando che il gruppo clinico avesse risultati più elevati rispetto agli altri due gruppi, si è voluto valutare se ci fossero differenze tra i tre gruppi in termini di iperinvestimento (su scopi e antiscopi) e se un maggior iperinvestimento fosse associato ad un aumento dei punteggi in termini di sofferenza e disagio percepiti. Per tale obiettivo, ad un sotto-campione di 327 soggetti è stato chiesto di compilare ulteriormente il PID-5 e la SCL-90-R.

Le analisi fattoriali hanno mostrato una struttura del S-AS a 8 fattori: Prestigio interpersonale, Instabilità psicologica, Esclusione sociale, Perfezionismo, Difettosità, Autosacrificio, Identità e Fiducia. Tali fattori saranno quindi oggetto di approfondimento nelle ricerche future.

I dati ottenuti si sono rivelati efficaci nel supportare il clinico in maniera rapida e al contempo accurata nel processo di assessment e di successiva pianificazione del trattamento, «mappando» quelli che sono i temi di vita e, nello specifico, gli scopi e gli antiscopi iperinvestiti nei pazienti.  Le analisi correlazionali, invece, tra i punteggi del S-AS e dei domini del PID-5 e tra i punteggi del S-AS e della SCL-90-R sembrerebbero confermare le ipotesi iniziali. I risultati ottenuti, ad eccezione del quinto fattore, suggerirebbero, dunque, una relazione tra tratti e domini di personalità maladattivi e iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi. Inoltre, sembrerebbe che all’aumentare dell’iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi aumenterebbe anche la sofferenza sintomatologica e l’indice di distress generale (Global Severity Index), confermando, di fatto, la relazione tra iperinvestimento e psicopatologia.

Nella terza relazione, dal titolo MMPI-2 e PID-5 a confronto: scale cliniche e funzionamento della personalità mediante un caso clinico, il Dott. Emanuele Del Castello si è proposto l’obiettivo di dimostrare la capacità dell’MMPI-2 di delineare il profilo di funzionamento della personalità tramite l’utilizzo di una lettura sia di tipo clinico-categoriale che di tipo dimensionale.

Esaminando l’MMPI-2 è possibile riscontrare due livelli: il livello statistico attuariale (Scale Cliniche e alcune Scale Supplementari) e il livello di contenuto (Scale di Contenuto, Sottoscale Cliniche e Item Critici). Entrambi i livelli permettono di costruire una rappresentazione complessa e articolata del funzionamento della personalità, essenziale ai fini diagnostici e clinici. Per favorire l’integrazione tra questi due livelli è possibile applicare una tecnica di aggregazione dei dati che viene definita Psicodiagnosi Strutturale (Del Castello, 2015): una metodologia che permette al clinico di far convergere i dati provenienti dai vari strumenti di indagine, clinici e testologici, nelle varie aree del funzionamento mentale del paziente, contribuendo, in tal modo, a costruire un quadro ordinato e pertinente degli aspetti problematici e anche dei punti di forza del paziente in oggetto.

Mediante l’analisi di caso clinico, è stato possibile osservare come, mettendo a confronto i domini emersi nel PID-5 e le Scale PSY-5 dell’MMPI-2, ci sia un pieno grado di accordo e una piena corrispondenza tra le dimensioni del DSM-5 presenti nel PID-5 (Antagonism, Psychoticism, Disinhibition, Negative affectivity e Detachment) con il modello PSY-5 dell’MMPI-2 (Aggressiveness, Psychoticism, Disconstraint, Negative emotionality neuroticism, Introversion/low positive emotion). In tal modo è stato possibile dimostrare come l’MMPI-2 sia perfettamente in grado di valutare clinicamente il funzionamento della personalità secondo i criteri dimensionali previsti dal DSM-5-TR (APA, 2023) e dal modello alternativo sui Disturbi della Personalità (Sezione II del DSM-5-TR).

Nell’ultimo contributo del simposio, dal titolo Il ruolo della noia come emozione cruciale nel funzionamento di alcune dimensioni personologiche, la Dott.ssa Anna Chiara Franquillo ha approfondito la relazione tra la noia e alcuni tratti di personalità, indagando le ricadute di tale associazione sul distress psicologico.

Sulla base dei dati presenti in letteratura sembra infatti che la noia, descritta come uno stato affettivo specifico caratterizzato da diverse componenti tra cui basso arousal, mancanza di attenzione, valenza negativa, una percezione amplificata del tempo e una sensazione di mancanza di scopo esistenziale, correli positivamente con il tratto di personalità del nevroticismo, caratterizzato da ansia, preoccupazione, instabilità emotiva e generale insicurezza (Mercer-Lynn, 2013; Tam et al., 2021) e sia presente in soggetti affetti da Disturbo Borderline di Personalità (DBP) (Masland et al., 2020) e da Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) (Wink and Donahue, 1997).

Sulla base di tali premesse, il lavoro di ricerca si è proposto di approfondire la relazione tra la noia di stato e la psicopatologia generale, ipotizzando che la relazione con la sintomatologia depressiva fosse più forte che con altre condizioni psicopatologiche, e di comprendere la relazione tra la noia e i tratti di personalità, ipotizzando una forte relazione tra questi due costrutti.

Lo studio è stato condotto su un campione di 588 italiani adulti appartenenti ad una popolazione generale, cui sono stati somministrati, tramite una survey online, due strumenti di valutazione: il MSBS per la noia e il PID-5 per la valutazione dei tratti di personalità, in accordo con il modello dimensionale proposto dal DSM-5.

I risultati hanno mostrato un’interessante associazione tra la noia e il distress psicologico, in particolar modo con la depressione, e tra la noia e alcune tendenze personologiche, considerate tratti, come l’affettività negativa e il distacco. In merito a quest’ultimo aspetto, sembra sia proprio la depressione a giocare un ruolo cruciale nel mettere in relazione la noia con tratti di personalità come il nevroticismo e il distacco.

Sulla base di tali osservazioni, seppur riscontrabili all’interno di un campione non clinico, è possibile affermare che la noia sembrerebbe essere un vissuto centrale e trasversale ad alcuni tratti strutturanti la personalità, oltre che a diverse condizioni sintomatologiche che causano sofferenza. Lo studio della noia offre, dunque, interessanti spunti di riflessione clinica sia in termini di assessment che di intervento cognitivo-comportamentale. Esso contribuisce, infatti, ad una più ampia comprensione degli stati mentali problematici e alla costruzione di nuovi modelli di trattamento specifici indirizzati verso la gestione di questa emozione.

Senza alcun dubbio, potrebbe rivelarsi interessante orientare gli sviluppi futuri di tale lavoro verso un’osservazione del costrutto su un campione specificatamente clinico, integrando ulteriori analisi ed eventuali strumenti di valutazione al fine di approfondire la relazione tra le variabili e il loro effetto.

Il simposio preso in esame ha avuto, in conclusione, il merito di confrontare e far comunicare contributi e punti di vista differenti, dimostrando ancora una volta l’importanza di integrare le varie chiavi di lettura volte ad osservare i processi implicati nella valutazione della psicopatologia della personalità, per una sempre più profonda conoscenza e valutazione del funzionamento mentale.

Foto di Amine M’siouri : https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-che-cammina-sul-deserto-2245436/

Misofonia: forte avversione nei confronti della fonte da cui provengono specifici rumori

di Giuseppe Romano

La misofonia è una forma di sofferenza psicologica, riconosciuta solo in tempi molto recenti, che negli ultimi anni ha interessato anche l’ambito clinico.

Molte persone, infatti, riportano una forte avversione nei confronti di suoni quotidiani, specifici, spesso ripetuti, che frequentemente sono generati da esseri umani, ma che possono essere anche prodotti da animali o provenire dall’ambiente.

La sofferenza psicologica sperimentata non riguarda solo un’emozione. In alcuni casi, probabilmente i più frequenti, viene riportata rabbia, in altri ansia talvolta anche disgusto.

Nel mese di dicembre del 2022, sul numero 19 della rivista “Cognitivismo Clinico”, è stata pubblicata una rassegna dei principali studi sul fenomeno della misofonia.

I diversi contributi illustrano lo stato dell’arte  sul tema, dalla definizione del concetto, spesso confuso o sovrapposto ad altre forme di “insofferenza” nei confronti dei suoni o di dolore sperimentato in presenza di un suono, ai metodi e agli strumenti di assessment e di valutazione, fino agli interventi psicoterapeutici esistenti.

E’ possibile scaricare gratuitamente il numero della rivista collegandosi a questo link https://apc.it/cognitivismo-clinico/cognitivismo-clinico/ o cliccando sull’icona in basso.

 

Verso una definizione comune di dipendenza affettiva patologica: una nuova scala di misurazione basata su un modello cognitivo

di Paola Lioce

Secondo il modello cognitivo della dipendenza affettiva patologica (DAP) sviluppato da Erica Pugliese e collaboratori, la DAP può essere considerata un fenomeno relazionale in cui almeno uno dei due membri della coppia ha un bisogno indispensabile dell’altra persona – tipicamente un partner violento o manipolatore – e protegge la relazione a tutti i costi. La rottura causa una sofferenza emotiva intollerabile, così la persona rimane intrappolata nella relazione. Dal momento che il partner del dipendente affettivo patologico causa una continua frustrazione di scopi importanti di relazione come l’autostima, l’autonomia e la sicurezza, queste persone vivono un conflitto spesso non consapevole tra il mantenimento del legame di attaccamento e lo scopo di proteggere sé stessi e l’autostima. Spesso queste persone mantengono la relazione nella speranza di un cambiamento del partner che, non solo non si verifica mai, ma che congela a lungo il rapporto con gravi conseguenze in termini di disturbi fisici e/o psicologici. In questi casi non è inedito arrivare a una degenerazione della relazione in vera e propria violenza intima da parte del partner di tipo fisico o psicologico.

Ma qual è il profilo tipico del dipendente affettivo patologico? Per quale ragione non riesce ad uscire dalla relazione pur essendo consapevole delle conseguenze negative che essa porta? Secondo il modello cognitivo della DAP spesso l’adulto con dipendenza affettiva è stato un bambino che ha subito traumi di deprivazione emotiva e abuso. Potrebbe essere nata una identificazione con il genitore che portava avanti la missione di amore e sacrificio verso il partner problematico oppure potrebbe essere stato un figlio dedito a salvare il genitore abusato e trascurato dal partner. Mantenere la relazione nonostante il disagio vissuto ha le sue origini nel desiderio spesso inconsapevole di rimediare ai traumi vissuti durante l’infanzia.
Lo scopo principale della persona dipendente affettiva non è ricevere cura dei suoi bisogni (come succede nel disturbo dipendente di personalità). Il “dipendente affettivo” considera “noiosa” la relazione con il partner amorevole, si sente oppresso dai partner premurosi e continua a scegliere partner sfuggenti o distanti. Lo scenario peggiore per il dipendente affettivo è la rottura del rapporto con il partner e di conseguenza fa di tutto per mantenere la relazione tossica ed essere amato come sogna. L’antiscopo comune a tutti i soggetti con dipendenza affettiva patologica è dunque la rottura del legame con il partner.

Negli ultimi decenni si è registrato negli studi di psicoterapia un aumento del tasso dei pazienti vittime di relazioni intime disfunzionali e violente. Nonostante i dati siano allarmanti, il concetto di dipendenza affettiva patologica non trova ancora posto nella nosologia psichiatrica.

Sulla base del modello cognitivo di DAP sopra citato è stata recentemente sviluppata una scala di misurazione della dipendenza affettiva patologica chiamata PADS (Pathological Affective Dependence Scale). La scala è stata testata su un campione clinico di 25 persone di età compresa tra 29 e 61 anni reclutate in un gruppo di auto mutuo aiuto Millemè – violenza di genere e dipendenze affettive e nel centro di psicoterapia, presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC). Gli item della PADS sono articolati in quattro fattori principali, che possono descrivere il funzionamento mentale del dipendente affettivo tipico: Fattore Altruistico (quando si vuole evitare la sofferenza dell’altro ritenuto bisognoso); Fattore Deontologico (quando ci si ritiene indegni di un altro partner); Fattore Vulnerabilità (quando ci si considera vulnerabili e si mantiene la relazione per evitare di sentirsi soli e in pericolo) e Fattore Conflitto. Il conflitto può essere di tre tipi: Assente (nel momento in cui la persona non si rende conto di stare in una relazione tossica ma gli altri glielo fanno notare), Alternato (quando si alternano momenti di consapevolezza della disfunzionalità della relazione, a momenti di soddisfazione), Akrasico (quando ci si rende conto che sarebbe il caso di interrompere la relazione ma la persona non riesce a rinunciarvi).

Sembrerebbe che la dipendenza affettiva patologica sia la base cognitiva ed emotiva della violenza di genere; dunque, identificare i profili di DAP è utile per intervenire prima che la dipendenza affettiva sfoci in violenza e a lavorare anche con programmi psicoeducativi (ad esempio in contesti come scuole, università, centri antiviolenza, servizi sociali ecc.). Avere a disposizione uno strumento che possa misurare la sintomatologia che presenta la persona con dipendenza affettiva patologica potrà essere un valido aiuto in questa direzione.

Bibliografia

American Psychiatric Association (APA) (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (5th ed.). Author.

Iannucci, Perdighe, Saliani, & Pugliese, E. (2021). Karina. Il Legame Irrinunciabile: Scopi, Anti-Goal e Conflitti Tipici della Dipendenza Affettiva Patologica. Cognitivismo Clinico.

Perdighe, C., Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2022). Gaslighting: una sofisticata forma di manipolazione, difficile da riconoscere. Psicoterapeuti in-formazione.

Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2019). Un Modello Cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche. Psicobiettivo, 1, 43-58.
https://doi.org/10.3280/PSOB2019-001005

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15, 1624.
https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A.M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., Cellitti, E., Barbaro, G.F., Goffredo, M., Lioce, P., Orsini, E., Quintavalle, C., Rienzi, S., Vargiu, A., & Mancini, F. (2023). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14, 305-333.
https://doi.org/10.4236/psych.2023.142018

Kane, T. A., Staiger, P. K., & Ricciardelli, L. A. (2000). Male Domestic Violence: Attitudes, Aggression, and Interpersonal Dependency. Journal of Interpersonal Violence, 15, 16-29. https://doi.org/10.1177/088626000015001002

Foto di Anete Lusina:
https://www.pexels.com/it-it/foto/mano-di-persone-sul-tessuto-bianco-5723261/

Curare il disturbo ossessivo compulsivo

di Mauro Giacomantonio

La Terapia Cognitivo Comportamentale è efficace?

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è una psicopatologia piuttosto diffusa e invalidante. Può manifestarsi in diverse forme, ad esempio con compulsioni di lavaggio o di controllo, ed esordire già in giovane età. È quindi di fondamentale importanza sviluppare e mettere alla prova protocolli di intervento sempre più incisivi e sostenibili dalle persone che soffrono di DOC.

Proprio con questo intento, Andrea Gragnani e collaboratori hanno recentemente pubblicato un articolo che esamina, attraverso uno studio condotto su pazienti che presentavano sintomi ossessivi, l’efficacia di un intervento sviluppato e perfezionato dal Prof. Francesco Mancini e il suo gruppo clinico e di ricerca negli ultimi venti anni.

Questo modello di intervento, oltre ad essere basato su una specifica concettualizzazione teorica del DOC, si pone il problema di favorire la capacità di tollerare la minaccia ossessiva e, quindi, di aderire meglio alla tecnica dell’esposizione con prevenzione della risposta (ERP). L’ ERP, infatti, è una tecnica psicoterapica molto efficace per il trattamento del DOC, che troppo frequentemente viene rifiutata o abbandonata dai pazienti perché percepita come ansiogena.

In risposta a questo problema, l’intervento esaminato nell’articolo propone una serie di tecniche cognitive che facilitano il processo di accettazione della minaccia, riducendo sia la convinzione di potere o dovere ridurre il rischio temuto, sia la tendenza a ricorrere a ragionamenti eccessivamente sbilanciati sul versante della prudenza. La capacità di accettare il rischio aiuterà poi il paziente a tollerare l’esposizione rinunciando alle condotte di protezione. Dei 40 pazienti che hanno sperimentato il protocollo proposto, una elevata percentuale (80%) ha riportato un beneficio significativo e in pochissimi hanno abbandonato il trattamento proposto.

Questi risultati confermano la necessità di articolare un trattamento complesso che favorisca prima l’accettazione “cognitiva” della minaccia e permetta poi di sperimentarla praticamente attraverso l’ERP.

Studi di efficacia come quello pubblicato da Gragnani e colleghi sono particolarmente preziosi per la pratica clinica quotidiana, perché permettono di valutare gli aspetti cruciali per la riuscita del trattamento, aprendo così la strada al suo perfezionamento.

Per approfondimenti

Gragnani, A., Zaccari, V., Femia, G., Pellegrini, V., Tenore, K., Fadda, S., Luppino, O.I., Basile, B., Cosentino, T., Perdighe, C., Romano, G., Saliani, A.M., Mancini, F. (2022). Cognitive-Behavioral Treatment of Obsessive-Compulsive Disorder: The Results of a Naturalistic Outcomes Study. Journal of Clinical Medicine, ;11(10):2762.

Articolo integrale: https://doi.org/10.3390/jcm11102762