Coscienza e Dissociazione

di Federica Iezzi

Simposio in memoria di Giovanni Liotti: “Coscienza e dissociazione”

Con uguale calore e con la stessa vicinanza che avevano distinto la platea circa un anno fa, in occasione del ricordo della sua ultima presenza pubblica alla celebrazione per i “40 anni della Psicoterapia Cognitiva”, il 18 Gennaio 2019, a Roma, la sala del Teatro Italia applaude Giovanni Liotti. Si raccoglie in sua memoria, ricordando il poderoso lascito di intellettuale, di clinico e teorico capace di sviluppare, in una raffinata analisi di matrice evoluzionista, un modello del mentale che solca traiettorie unificanti nelle conoscenze multidisciplinari che animano il fervido dibattito della psicopatologia dal XX secolo ad oggi.

Apre i lavori, in veste di Chairman, il Prof. Francesco Mancini, Neuropsichiatra Infantile e Psicoterapeuta, Direttore delle scuole APC e SPC, al quale si unisce il Dott. Maurizio Brasini, didatta della SPC di Roma e Ancona, che ricorda Gianni come un “costruttore di ponti” epistemologici, come docente, collega e amico che con la sua poderosa opera lascia ciò che può essere meglio definita dal termine inglese “legacy”: non solo un’eredità ma soprattutto un dono sul quale si fonda un legame da onorare.

La prima relazione, a cura del Prof. Nino Dazzi, Professore Ordinario di Psicologia dinamica all’Università La Sapienza di Roma, riconduce i lavori liottiani sulla psicopatogenesi dei disturbi dissociativi all’opera pioneristica su trauma e dissociazione di Pierre Janet a partire da “L’automatismo psicologico. Saggio di psicologia sperimentale nelle forme inferiori della attività umana” (1913). Nel testo la spiegazione di alcune forme patologiche viene ricondotta ad un modello dell’attività psichica caratterizzato dalla presenza, al di sotto della vita cosciente, di una vita subcosciente costituita dalle emozioni elementari e dagli istinti. Per Janet i disturbi dissociativi derivano dal fallimento della “sintesi mentale” e dalla conseguente “disaggregazione” per cui gruppi di idee (le «idee fisse subconsce», o «frammenti scissi della personalità»), si pongono al di fuori del controllo della coscienza traducendosi in atti automatici o subcoscienti. Il trattamento propone un modello suddiviso in fasi allo scopo di curare la dissociazione ravvisabile nei pazienti e portarli all’integrazione della loro personalità.

Il secondo intervento, a cura del Prof. Antonio Semerari, Psichiatra e Psicoterapeuta, Didatta APC e SPC, ripercorre il sodalizio tra Guidano e Liotti nel collocare la Teoria dell’Attaccamento all’interno della nuova cornice cognitivista. Gli autori sostenevano che il principio di coerenza regola i processi mentali, garantendo continuità al senso di sé, e che l’Attaccamento ha il ruolo fondamentale di fornire strutture di significato attraverso le quali mantenere una coerenza nell’identità. Tuttavia, mentre per Guidano tali strutture di significato venivano continuamente perturbate da esperienze non immediatamente integrabili, per Liotti è l’Attaccamento stesso a poter dare origine all’incoerenza, sotto forma di disorganizzazione nelle rappresentazioni e nel comportamento. Tale disorganizzazione procede nel venir meno delle funzioni integratrici della coscienza, dove per coscienza Liotti intende una coscienza interpersonale la cui soggettività è imprescindibile dall’Altro. Tali postulati conducono alla definizione dell’assetto dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI; Liotti e Monticelli, 2008) i quali influenzano momento per momento la relazione. Attraverso l’analisi degli SMI è possibile formulare gli obbiettivi terapeutici, la costruzione e il mantenimento dell’alleanza terapeutica, nonché delle sue fratture e riparazioni.

Nell’intervento successivo, la Dott.ssa Lucia Tombolini, Psichiatra e Psicoterapeuta, mette in evidenza la relazione esistente tra l’utilizzo di metafore, i sintomi clinici riportati dal paziente e la conoscenza di sé, all’interno della cornice di pensiero di Giovanni Liotti e alla luce delle docenze da lui tenute nei primi anni ‘80 nel corso di formazione in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, raccontate con aneddoti non privi di malinconia. “La conoscenza di sé, che appare nell’esperienza soggettiva, come una sorta di dialogo interiore, è la più evidente opera della coscienza umana”, scriveva Liotti nel 1982. Questo postulato mette in luce il primo fondamentale aspetto della coscienza, ovvero “l’effetto su di sé”, una funzione riflessiva che comporta l’esistenza di una continuità tra la conoscenza di sé espressa nella memoria autobiografica e le memorie implicite, sensoriali, percettive o emotive della persona. In terapia, le metafore servirebbero dunque a rilevare lo sfondo implicito del ricordo della persona, attraverso un veicolo di somiglianza con i contenuti della memoria dichiarativa e autobiografica, talora dissolta, come accadeva per l’Uomo dei Chiodi. Il paziente, attraverso l’uso delle metafore, tenta di descrivere sé stesso su un piano semantico attraverso conoscenze implicite che non riesce a tradurre in un codice verbale completo.

Nella complessità del continuo fluire delle emozioni e dell’umore nelle situazioni interpersonali, le metafore divengono veicolo di significato: esse si comprendono insieme, in un’esplorazione congiunta che gradualmente rileva il senso intimo dell’esperienza soggettiva.

In conclusione, il Prof. Benedetto Farina, Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore Ordinario in Psicologia Clinica presso l’Università Europea di Roma, nel suo intervento “Il futuro delle idee di Giovanni Liotti: dalla dissociazione della coscienza alla dis-integrazione mentale, implicazioni teoriche e cliniche”, ripercorre gli sviluppi degli studi sul Trauma e Dissociazione (1992). Nel dettaglio, la Disorganizzazione nell’Attaccamento (AD) è il precursore della dissociazione nell’adulto, predispone sia alla dissociazione che a successivi traumi e agisce tramite il conflitto tra i sistemi motivazionali innati e l’esposizione a significati impliciti, frammentati e contraddittori. Nella prima opera liottiana la dissociazione è, per definizione, dissociazione della coscienza, della memoria e della identità, coincide con la compartimentazione ed è il risultato della dissonanza cognitiva prodotta dal conflitto motivazionale. La dissociazione opera dunque in maniera da tenere le informazioni segregate o dissociate dalla processualità della coscienza. Nella seconda fase della sua opera, la dissociazione rappresenta il venir meno delle capacità integrative superiori, non colpisce solo la coscienza, la memoria e l’identità ma tutte le funzioni integrative, tra cui le funzioni esecutive e la metacognizione.

Infine, il Prof. Farina illustra i contributi delle neuroscienze e degli studi sulle Adverse childhood experiences, in cui viene messa in luce l’influenza del contesto interpersonale traumatico nel generare credenze patogene e nel procedere verso la dis-integrazione dei livelli evoluzionisticamente e funzionalmente più elevati della mente. La riflessione conduce alla distinzione tra dis-integrazione mentale e dissociazione, ove per la prima s’intende il venir meno della normale integrazione delle funzioni mentali superiori, o delle funzioni esecutive, mentre per la seconda la riorganizzazione patologica conseguente al meccanismo disintegrativo con la presenza di più centri di coscienza, di “più di un sé”, segregati e non integrati, che condurrebbe allo sviluppo di personalità multiple (Liotti e Farina, 2011).

Il Simposio dedicato alla memoria di Giovanni Liotti si stringe, a chiusura, attorno all’immagine di “Gianni” come illuminista, riferimento chiaro tra le numerose diramazioni della psicopatologia fino ai giorni nostri, e nella riflessione, quasi un monito: “la coscienza non è ciò che rende chiara tutta la vita mentale ma qualora la fiaccola venga a mancare il rischio è di cadere nell’oblio della ragione”.

SITCC 2018 – Psicopatologia della noia: dalla ricerca alla pratica clinica

di Stefania Iazzetta

Venerdì 21 settembre, nell’ambito del XIX congresso nazionale SITCC, svoltosi nella sede del polo universitario Giorgio Zanotto di Verona, si è tenuto il simposio “Psicopatologia della noia: dalla ricerca alla pratica clinica”. Chairman il Dott. Andrea Gragnani, discussant il Dott. Marco Saettoni.

In psicologia e psicoterapia cognitiva si parla molto delle emozioni e del loro ruolo nei diversi disturbi. Tristezza, ansia, senso di colpa e rabbia, come altri stati emotivi, hanno spesso un ruolo di rilievo nella riflessione del clinico e nel suo intervento. La noia, invece, rimane poco indagata e spesso trascurata nel lavoro psicoterapico, nonostante questa rivesta un ruolo di estremo rilievo nella sofferenza della persona e nell’attuazione di condotte disfunzionali nel tentativo di uscirne. Il simposio nasce da una serie di riflessioni effettuate sul ruolo della noia all’interno di alcuni quadri psicopatologici e di come poter intervenire su di essa.

Il primo lavoro, presentato dalla Dott.ssa Michela Lupo, “Inclinazione alla noia e uso di cocaina…esiste una correlazione?”, indaga il rapporto esistente tra una maggiore inclinazione alla noia in soggetti utilizzatori occasionali di cocaina e come questi presentino una maggiore tendenza ad attribuire all’esterno le cause attivanti lo stato emotivo della noia rispetto ad un gruppo di controllo. Inoltre, è stato evidenziato come negli stessi soggetti ci fossero punteggi significativamente più elevati in dimensioni temperamentali e caratteriali che spesso sono correlate alla messa in atto di comportamenti a rischio, valutati tramite il test del Temper & Char Inventory (TCI_R) come la NS, HA SD e C. Se da un lato questi risultati hanno confermato le correlazioni già dimostrate in letteratura (Iazzetta et al., 2013) tra l’assetto di personalità di chi abusa di sostanze e l’inclinazione alla noia, dall’altro ha anche evidenziato come proprio un gruppo intermedio, senza diagnosi di uso da sostanze ma con un uso occasionale, si possono riscontrare fattori di vulnerabilità fortemente patologici a livello di tratti temperamentali e caratteriali che renderebbero questi soggetti maggiormente sensibili agli effetti della noia, sottolineando come un trattamento specifico di questa emozione, in questi soggetti, potrebbe prevenire l’attuazione di alcuni comportamenti patologici.

Rita Cardelli portava invece i dati di una ricerca pilota effettuata dal Centro Pandora sulla correlazione esistente fra l’inclinazione alla noia e i disturbi dell’umore in un campione di 54 pazienti con spettro bipolare (DB I, DB II e ciclotimici) in fase di remissione sintomatologica. Partendo da un precedente lavoro (Lari et all. 2013) l’indagine evidenzia come i soggetti con DB tendano ad individuare nella monotonia dell’ambiente esterno le cause della noia e a gestirla ricorrendo a fattori esterni, spesso disfunzionali, come le sostanze. Non è stata rilevata, inoltre, una relazione tra la durata di malattia e la tendenza ad esperire tale emozione, confermando l’ipotesi avanzata dal gruppo di lavoro che si tratti di un’emozione di tratto specifica dei soggetti con DB. Infine, questo rappresenta il primo studio che indaga la noia nei diversi sottotipi di disturbo bipolare ed evidenzia come i soggetti con DB I siano maggiormente inclini alla noia e la attribuiscano maggiormente ad aspetti esterni rispetto ai soggetti con ciclotimia.

Paola Mancuso ha presentato una ricerca dal titolo “Noia e detachment: un’indagine preliminare” che esplorava la possibilità che esista una radice dissociativa nell’esperienza della noia. L’indagine, condotta su un campione di 373 soggetti reclutati on line, evidenzia come vi sia, infatti, un legame tra questo stato emotivo e la sofferenza psichica del soggetto. Nello specifico i risultati mostrano come questa emozione sia in parte riconducibile ad alcuni fenomeni quali il detachment, l’alienazione e l’assorbimento, che sia una parte rilevante dell’esperienza di chi è soggetto ad oscillazione dell’umore e che presenta una correlazione con il disagio psichico che del paziente.

Infine, Lisa Lari, ha concluso il simposio proponendo un intervento dal titolo “La Noia nel Disturbo Bipolare: un’ipotesi d’intervento psicoterapeutico”. La spiccata intolleranza alla noia dei pazienti con DB può portare alla messa in atto di comportamenti disfunzionali che influenzano l’andamento dell’umore. Partendo da tale evidenza empirica, si è cercato, da una parte, di delineare quando e come indagare tale emozione e, dall’altra, di individuare le manovre psicoterapiche utili alla gestione di tale emozione, quali ad esempio: l’incremento della consapevolezza, la messa in atto di condotte alternative e maggiormente funzionali per la gestione della noia, l’inserimento di skills di tolleranza della sofferenza (volte all’accettazione) e di regolazione emotiva (per favorire il cambiamento).

L’arte rivoluzionaria del perdono

di Elena Bilotta

Appunti dal Corso “Teoria e clinica del perdono interpersonale” tenuto da Barbara Barcaccia presso l’APC di Roma

Da un punto di vista etico, esistono numerose offese considerate imperdonabili. Da un punto di vista psicologico, invece, il perdono è un atto sempre possibile. Questa la prima dicotomia che può fungere da ostacolo al processo del perdono. Ma l’aspetto morale non è l’unico impedimento. È facile, infatti, associare il perdono alla religione, identificandolo come atto di misericordia possibile solo a chi abbia una fede che lo aiuti e sostenga. In realtà, come ha scritto Hanna Arendt, anche se dobbiamo la scoperta del ruolo del perdono a Gesù di Nazareth, “non è una ragione per prenderla meno sul serio in un senso strettamente profano”.
La ricerca psicosociale sul perdono interpersonale ne testimonia, infatti, i suoi numerosi benefici osservati indipendentemente dal credo religioso. Tra i principali, vi è un maggiore benessere psicofisico nella vittima, indipendentemente dalla gravità dell’offesa ricevuta. Chi perdona è meno soggetto a sperimentare odio, ostilità, tristezza e ansia ed è meno assorbito in processi di ruminazione rabbiosa. Ha minori livelli di stress, senso di solitudine e depressione, ed è in generale più soddisfatto di sé e della propria qualità di vita.
Perdonare è tuttavia un processo difficile e doloroso, che non viene attuato semplicemente per una impossibilità di vendicarsi o per il timore di una ritorsione da parte del colpevole. Il perdono non è sinonimo di impotenza, ma è una scelta.
Per poter scegliere attivamente di perdonare chi ci ha fatto del male può essere utile fare chiarezza sul significato del perdono e sulle sue principali implicazioni:
Perdonare non è cancellare il torto. Se così fosse, avrebbe un potere magico. Il perdono può, però, ridurre notevolmente le conseguenze del torto, legate alla sofferenza psicologica.
Perdonare non vuol dire dimenticare. Un atto di oblio volontario è impossibile, specialmente quando le offese subìte sono state gravi. Per poter perdonare un torto bisogna ricordare di averlo subìto, ma lo si fa attraverso un processo diverso dalla ruminazione.
Perdonare non è sinonimo di riconciliazione. Pur essendo potenzialmente un passo verso la riconciliazione, non la implica necessariamente. Anzi, spesso la riconciliazione va evitata, specialmente se il colpevole è una persona potenzialmente pericolosa. Il perdono può essere un processo unilaterale, non è cioè necessario dichiarare al colpevole l’intenzione di perdonare, e si può perdonare anche chi non c’è più.
Perdonare non è giustificare. Non vuol dire sminuire l’entità dell’offesa subita, né deresponsabilizzare il colpevole, né negare o scusare il colpevole per ciò che è accaduto.
Perdonare non è un atto di sottomissione o debolezza. Al contrario, è un processo lungo e tumultuoso che necessita di forte motivazione al cambiamento e tolleranza alle frustrazioni.
Perdonare, insomma, è un processo molto più attivo e laico di quanto si potrebbe pensare. Non presuppone solo l’interruzione e l’abbandono di ruminazioni rabbiose e desiderio di vendetta, ma implica anche una crescita, perché contiene una dimensione costruttiva. Il perdono aiuta a modificare nel tempo le emozioni, i pensieri e le attitudini nei confronti di una persona che ci ha fatto del male. E questo va sempre a vantaggio della vittima, e mai del colpevole.

 

Per approfondimenti:

Barbara Barcaccia (2017). Il perdono interpersonale: analisi del costrutto. Efficacia, rischi e benefici per il benessere psicologico della terapia del perdono. Rassegna di Psicologia, XXXIV, 3, 55-66.

Barbara Barcaccia e Francesco Mancini (2013). Teoria e clinica del perdono. Raffaello Cortina Editore.

Aggressività in età evolutiva

di Stefania Prevete

 Report del convegno del 22 giugno 2018 a Napoli

 Il 22 giugno scorso, si è svolto a Napoli il Convegno “Aggressività e Psicopatologia in età evolutiva”, organizzato dall’équipe per l’età evolutiva APC/SPC di Roma e dalla sede di Napoli della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC, con l’obiettivo di presentare il Coping Power Program, un intervento specifico per la gestione e il controllo dell’aggressività in età evolutiva.

A dare inizio ai lavori è il dott. Carlo Buonanno, didatta della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva sede di Napoli e Membro dell’équipe per l’età evolutiva APC/SPC di Roma. Il modello di riferimento è il “Contextual social-cognitive model” di Lochman e Wells, un modello ecologico dell’aggressività in età infantile che prevede l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali e attività utili al potenziamento di varie abilità di regolazione della rabbia. Il Coping Power Program viene utilizzato per il trattamento del Disturbo Oppositivo-Provocatorio e del Disturbo della Condotta, con lo scopo generale di aiutare e sostenere i bambini con problemi legati all’impulsività, al difficile rispetto delle regole e a comportamenti aggressivi e prevede una componente dedicata ai bambini e una dedicata ai genitori.

A seguito dell’introduzione di Buonanno, il prof. John Lochman ha presentato i risultati degli studi di efficacia del programma e le modalità per ottimizzarne i risultati. Il professore ha descritto, in particolare, l’influenza dei fattori di rischio sulla riuscita dell’intervento e sullo sviluppo dei comportamenti aggressivi dei bambini con riferimento alle variabili biologiche temperamentali e a quelle legate al contesto familiare, dei pari e sociali. Lochman ha poi illustrato le modalità di messa a punto del programma nella versione di base (34 sedute) e in quella breve (24/25 sedute), che risultano ugualmente efficaci, e ha esaminato la differenza tra l’applicazione del programma in un contesto gdi gruppo o individuale, dimostrandone l’efficacia e sottolineando la maggiore utilità di quello individuale per i bambini che presentano una problematica di disregolazione emotiva superiore. In conclusione, ha accennato alle nuove frontiere del programma: l’estensione a un range d’età differente rispetto a quello solito degli 8/14 anni, l’introduzione di sessioni su internet e l’inserimento di un modulo per la Mindfulness. Insomma: una piattaforma in continuo aggiornamento ed evoluzione.

In chiusura la tavola rotonda, con un dibattito ricco di spunti interessanti sull’influenza dello stile educativo permissivo o restrittivo dei genitori e della coerenza educativa sugli esiti del trattamento, sul possibile effetto dei social e altri media come fattori di rischio e sulla possibilità di introdurre un intervento sul bournout degli insegnanti.

Durante il dibattito, il dott. Muratori, dirigente psicologo dell’ICCS Fondazione Stella Maris di Pisa e docente della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva (SBPC), ha sottolineato l’importante influenza sugli esiti del trattamento degli stili di attaccamento, sia dei terapeuti nella gestione di un gruppo Coping Power sia della coppia genitoriale ed ha evidenziato l’importanza dei moduli del Coping Power per il trattamento dei fattori di rischio più importanti.

Il convegno, oltre che un’occasione formativa di grande rilevanza clinica per le ricadute applicative in vari contesti, è stato un momento introduttivo anche al corso di aggiornamento professionale tenuto dal dott. Muratori e dal dott. Buonanno, rivolto a psicologi, medici, specializzandi in psicoterapia, psicoterapeuti, psichiatri e neuropsichiatri infantili, che si è poi tenuto nel weekend presso la sede di Napoli della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC.

Report dal Convegno “Aggressività e psicopatologia in età evolutiva”

di Stefania Prevete

Il 22 Giugno si è svolto a Napoli il Convegno “Aggressività e Psicopatologia in età evolutiva”, organizzato dall’Equipe per l’età evolutiva APC/SPC di Roma e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC sede di Napoli, con l’obiettivo di presentare il Coping Power Program, un intervento specifico per la gestione ed il controllo dell’aggressività in età evolutiva.

A dare inizio ai lavori è il Dott. Carlo Buonanno, Didatta della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva sede di Napoli e Membro dell’Equipe per l’Età Evolutiva APC/SPC di Roma, che ha introdottoi lavori. Il modello di riferimento è il “Contextual social-cognitive model” di Lochman e Wells (2002), un modello ecologico dell’aggressività in età infantile, che prevede l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali ed attività utili al potenziamento di varie abilità di regolazione della rabbia. Il Coping Power Program viene utilizzato per il trattamento del Disturbo Oppositivo-Provocatorio e del Disturbo della Condotta, con lo scopo generale di aiutare e sostenere i bambini con problemi legati all’impulsività, al difficile rispetto delle regole e a comportamenti aggressivi e prevede una componente dedicata ai bambini e una dedicata ai genitori.

Subito dopo il Prof. J.Lochman ha presentato i risultati degli studi di efficacia del programma e le modalità per ottimizzarne i risultati. Il Prof. ha descritto, in particolare, l’influenza dei fattori di rischio sulla riuscita dell’intervento e sullo sviluppo dei comportamenti aggressivi dei bambini con riferimento alle variabili biologiche temperamentali e a quelle legate al contesto familiare, dei pari e sociali. Il Prof. ha illustrato le modalità di messa a punto del Programma nella versione di base (34 sedute) e in quella breve (24/25 sedute), che risulta ugualmente efficace, e ha esaminato la differenza tra l’applicazione del programma in un contesto gruppale o individuale, dimostrandone l’efficacia e sottolineando la maggiore utilità di quello individuale per i bambini che presentano una problematica di disregolazione emotiva superiore. In conclusione ha accennato alle nuove frontiere del programma: l’estensione a un range d’età differente rispetto a quello solito degli 8/14 anni, l’introduzione di sessioni su internet e di un modulo per la Mindfulness. Insomma una “Piattaforma” in continuo aggiornamento ed evoluzione.

In chiusura la Tavola Rotonda con un dibattito ricco di spunti interessanti sull’influenza dello stile educativo permissivo o restrittivo dei genitori e della coerenza educativa sugli esiti del trattamento, sul possibile effetto dei social e altri media come fattori di rischio e sulla possibilità di introdurre un intervento sul bournout degli insegnanti.

Durante il dibattito, l’intervento del Dott. Muratori, Dirigente Psicologo ICCS Fondazione Stella Maris di Pisa e Docente della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva (SBPC), ha sottolineato l’importante influenza sugli esiti del trattamento degli stili di attaccamento, sia dei terapeuti nella gestione di un gruppo Coping Power che della coppia genitoriale ed ha evidenziato l’importanza dei moduli del Coping Power per il trattamento dei fattori di rischio più importanti.

Il convegno oltre che un’occasione formativa di grande rilevanza clinica per le ricadute applicative in vari contesti è stato un momento introduttivo anche al corso di aggiornamento professionale tenuto dal Dott. Muratori e dal Dott. Buonanno, rivolto a Psicologi, Medici, Specializzandi in Psicoterapia, Psicoterapeuti, Psichiatri e Neuropsichiatri infantili che si è poi tenuto nel weekend presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC sede di Napoli e che si rinnoverà nel prossimo anno.

Seminario “Superhero Therapy”

di Elena Bratta

Come incorporare elementi della nostra cultura popolare all’interno dell’Acceptance and Commitment Therapy

Il 22 maggio 2018 si è tenuto presso l’Aula Asclepios del Policlinico di Bari il seminario “Superhero Therapy”, organizzato dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva AIPC di Bari e patrocinato dalla Società Italiana di Terapia Comportamentale Cognitiva (SITCC) – sezione Puglia e dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Giovanni XXIII di Bari.

Janina Scarlet, specializzata nel trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico, dei Disturbi d’Ansia e Depressivi, lavora presso il Center for Stress and Anxiety Management a San Diego, in California, ed è l’autrice del libro “Superhero Therapy”, un manuale di auto-aiuto che utilizza tecniche di comprovata efficacia scientifica. Il modello di trattamento proposto è collocato all’interno della cornice ACT, la terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT), con una particolare attenzione agli interventi basati sulla Compassione.

Ad aprire i lavori è stata Maria Grazia Foschino, Direttore della scuola di specializzazione AIPC di Bari, che ha presentato la cornice generale entro cui questa giornata è stata voluta e organizzata, soffermandosi in particolare sulle potenzialità degli approcci innovativi, scientificamente fondati, pensati per le fasce più giovani della popolazione.

La parola è passata quindi a Barbara Barcaccia, didatta delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale APC e SPC, formatrice ACT e istruttrice di protocolli basati sulla mindfulness (MBSR, MBCT), che ha introdotto il modello ACT presentando il cosiddetto Hexaflex: l’esagono della flessibilità. Ha messo in luce punti di contatto e continuità con la cosiddetta “seconda generazione” della terapia cognitivo-comportamentale. Si è in particolare soffermata sui processi più innovativi dell’ACT, come Defusione Cognitiva e Accettazione Esperienziale, facendo anche cenno al lavoro che si fa nell’ACT sui Valori del paziente. Si è successivamente soffermata sul Contatto con il Momento Presente, un altro dei processi ACT, che è molto fondato sull’abilità mindful di facilitare l’osservazione delle proprie esperienze interne e che ci allena a passare attraverso il nostro dolore, piuttosto che a farci trascinare da questo. Ha infine posto l’attenzione sull’importanza di intraprendere azioni impegnate in direzione dei nostri valori. La presentazione della cornice teorica dell’ACT ha permesso di osservare inoltre la continuità tra le diverse generazioni di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Il successivo intervento di Janina Scarlet è stato tradotto in consecutiva da Elena Bratta, psicoterapeuta specializzata presso l’APC di Lecce. Janina ha iniziato il suo workshop soffermandosi sulla propria storia di vita e su cosa l’abbia portata a sviluppare l’idea di incorporare elementi della cultura pop all’interno di psicoterapie evidence-based come l’ACT. Originaria dell’Ucraina, è sopravvissuta all’esplosione di Chernobyl trasferendosi successivamente con la sua famiglia negli Stati Uniti, dove ha conosciuto la saga degli X-Men che l’ha aiutata ad affrontare le conseguenze fisiche del disastro e le difficoltà emerse nel doversi inserire in un contesto culturale nuovo. Quello che ha notato è che molti dei personaggi della cultura pop presentano nella loro vita situazioni traumatiche quali incidenti, lutti, guerre ma che queste esperienze non hanno impedito loro di diventare dei Supereroi (Crescita Post-Traumatica).

L’obiettivo principale del metodo Superhero Therapy è quello di facilitare i pazienti a esprimere, in un contesto psicoterapeutico, quello che essi provano permettendo loro di utilizzare i libri, i film, le serie tv, o i fumetti con i quali si immedesimano maggiormente. Si è spesso osservato che i pazienti adolescenti non hanno un adeguato vocabolario emotivo in grado di spiegare quello che stanno provando, ma che tramite la condivisone con il terapeuta delle loro passioni non solo si rafforza l’alleanza terapeutica, ma si fornisce loro una chiave per descrivere i propri vissuti emotivi. Il terapeuta non deve necessariamente essere un esperto di supereroi o fumetti, il paziente diventa l’esperto.

Nel corso del suo intervento, Janina Scarlet ha portato una serie di esempi a sostegno di questa tesi, utilizzando le storie dei più comuni Supereroi quali Superman o Spiderman affiancate a casi clinici dei Veterani di guerra o dei sopravvissuti di violenze sessuali, fino a citare la ricerca “The greatest magic of Harry Potter: Reducing prejudice” condotta da Loris Vezzali presso l’Università di Modena che dimostra come la lettura della saga di Harry Potter aiuti i più giovani ad accrescere l’empatia e a condividere le proprie emozioni.

La relatrice ha anche condotto delle esercitazioni di gruppo basate sul metodo ACT di Steven C. Hayes per dimostrare l’importanza di perseguire i propri Valori individuali e di come sia fondamentale impegnarsi nella direzione di questi. Infine si è soffermata sull’importanza da dare al momento del gioco, sottolineando come l’utilizzo dei videogiochi, in un contesto controllato, possa incentivare comportamenti prosociali, facilitare la comprensione dei processi emotivi nel PTSD e migliorare le relazioni interpersonali. A tal proposito si è proposta la visione del video della game designer Jane McGonigal che dimostra come “il gioco può creare un mondo migliore” (J. McGonigal).

Il suo manuale di auto-aiuto si chiama “Superhero Therapy”, nel quale sono descritte le storie di sei supereroi di finzione, magistralmente raffigurati dall’illustratore Wellinton Alves, ognuno dei quali affronta diverse problematiche psicologiche: disturbo di panico, disturbo da stress post-traumatico, disturbo d’ansia sociale, disturbi del comportamento alimentare ecc. Ogni capitolo spiega la sintomatologia provata dai singolo personaggi in una sorta di psicoeducazione al disturbo e propone degli esercizi dell’Acceptance and Committment Therapy, così come della Self-Compassion Therapy, da eseguire capitolo dopo capitolo in modo da affrontare un vero e proprio viaggio alla ricerca dell’eroe che abbiamo in noi stessi.

La conclusione è stata affidata a un esercizio di compassione verso se stessi dove tutti i presenti in sala si sono dovuti mettere in gioco per dimostrare l’importanza della gentilezza verso di sé del non-giudizio e di un senso di comunità condivisa.

È un martedì pomeriggio, un giorno lavorativo, ma la sala è piena e il pubblico è assai eterogeneo: studenti, professionisti, docenti. Molti hanno espresso apprezzamento ed interesse nei confronti delle tematiche presentate durante il seminario e numerosi sono stati gli spunti di riflessione che hanno portato il pubblico a rivolgere domande ai docenti presenti in sala e a condividere le proprie esperienze. Le copie presenti e fresche di stampa della versione italiana del manuale “Superhero Therapy” edito da Giovanni Fioriti Editore sono andate esaurite.

Elena Bratta, psicologa psicoterapeuta specializzata presso l’APC di Lecce. Ha tradotto il libro di Janina Scarlet (2018) Superhero Therapy. Un viaggio da eroe attraverso l’Acceptance and Commitment Therapy. Giovanni Fioriti Editore.

Nessun deficit nel Disturbo Ossessivo

di Stefania Fadda

La neuropsicologia del Disturbo Ossessivo Compulsivo

Ricorrere a deficit cognitivi nella spiegazione del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) appare facilmente compatibile con l’idea che tale disturbo sia la manifestazione di una patologia del Sistema Nervoso Centrale e sembra suggerito da alcuni aspetti della sintomatologia ossessiva stessa.

In occasione del Sesto meeting EABCT dello Special Interest Group (SIG) sul Disturbo Ossessivo Compulsivo, svoltosi ad Assisi dal 17 al 20 maggio 2018, Amitai Abramovitch ha riferito come negli ultimi decenni questo argomento sia stato oggetto di dibattiti e ricerche nel tentativo di rispondere alla domanda se il DOC possa essere spiegato in termini di deficit cognitivi.

In particolare, nel suo position paper, il ricercatore americano ha proposto una rassegna dello stato dell’arte della neuropsicologia del DOC, includendo i risultati degli studi condotti su ogni specifico dominio cognitivo, con riferimento ad adulti e bambini. Vediamoli qui di seguito, partendo dal dominio della memoria.

L’ipotesi della presenza di un deficit di memoria nei pazienti con DOC non ha ricevuto solido supporto. Sono, invece, disponibili vari studi che evidenziano come i controlli ripetuti producano una riduzione della fiducia nella memoria. Infatti, la ripetizione dei controlli aumenta la familiarità con gli stimoli che, a sua volta, promuove un’elaborazione di tipo concettuale. In questo modo si determina l’inibizione dell’elaborazione percettiva, la quale fa sì che il ricordo sia meno vivido e dettagliato. La riduzione della vividezza e del dettaglio, infine, promuove una sfiducia nella memoria.

In riferimento all’attenzione il meccanismo coinvolto è il medesimo riscontrato per la memoria. Infatti, con l’aumento dei controlli, l’elaborazione percettiva viene inibita in favore di quella concettuale, la quale porta l’individuo a fidarsi meno delle proprie capacità attentive. Inoltre, durante i primi controlli, quando l’elaborazione è ancora di tipo percettivo, è probabile che l’individuo scopra nuovi dettagli dello stimolo da ricordare e che proprio tale arricchimento percettivo contribuisca a una riduzione della fiducia nella propria attenzione.

Inoltre i pazienti con DOC riportano incertezze rispetto alla percezione (“Vedo che il ferro da stiro è staccato, ma non mi fido di ciò che vedo”) e cercano di fronteggiarle mediante comportamenti perseverativi quali la fissazione prolungata dello sguardo. Tuttavia, la fissazione incrementa la sensazione di incertezza in una spirale di mantenimento e dà luogo a sensazioni di tipo dissociativo.

Un altro dominio preso in considerazione è stato il monitoraggio della realtà. La difficoltà, riferita dai pazienti ossessivi, nel discernere se un’azione, ad esempio chiudere la porta di casa, sia stata realmente compiuta o solo immaginata risiede non in un deficit di monitoraggio, ma in una sfiducia nell’origine del proprio ricordo. Sfiducia che nasce da una sequenza simile a quella che porta alla sfiducia nella propria memoria.

La ripetizione e la perseverazione, viste nei domini fin qui descritti, inducono sfiducia anche in altre funzioni mentali, quali la comprensione di testi e il ragionamento. Rispetto alla prima funzione, sappiamo che l’effetto che consegue alla ripetizione di una parola (“latte, latte, latte, latte”) consiste in una sorta di alienazione soggettiva, come se la parola divenisse strana o irreale, sebbene il suo significato rimanga integro. Rispetto alla seconda funzione, i pazienti ossessivi spesso riferiscono che quando si trovano di fronte a una situazione apparentemente innocua e della quale si sentono responsabili, il timore che possa verificarsi un esito negativo li spinge a impegnarsi in lunghi ragionamenti, ipotizzando i possibili scenari che condurrebbero all’esito temuto. Tuttavia, questo tipo di ragionamento è perseverativo e sortisce l’effetto di aumentare l’incertezza circa l’esito temuto.

Infine, il dominio del controllo inibitorio: il carattere intrusivo e ripetitivo dei pensieri ossessivi e la difficoltà a controllarli hanno suggerito l’ipotesi che i pazienti con DOC abbiano un deficit nell’abilità a dismetterli o inibirli, o che nei pazienti ossessivi sia deficitaria la capacità di interrompere i rituali compulsivi. In letteratura, le prestazioni dei pazienti ossessivi differiscono a seconda del paradigma utilizzato per misurare l’inibizione della risposta. Infatti, il compito Go/No-Go e il Continuous Performance Test (CPT) sono utilizzati per investigare la capacità di inibire un’azione, mentre lo Stop-Signal Task (SST) fornisce una misura della capacità di interrompere il flusso di un’azione in corso. La maggioranza degli studi che ha utilizzato il compito Go/No-Go o il CPT ha riportato un numero simile di errori di commissione nei pazienti DOC rispetto ai soggetti non DOC. Inoltre, con lo SST è stato riscontrato come la familiarità comprometta l’inibizione della risposta verso stimoli familiari. Ci si chiede, quindi, se dare retta ai pensieri intrusivi che preoccupano il paziente, o non interrompere le compulsioni, non rappresenti un modo per perseguire gli obiettivi più importanti per il paziente stesso.

In conclusione, rispetto alla domanda iniziale, se il DOC possa essere spiegato in termini di deficit cognitivi, Abramovitch risponde che le ricerche non supportano questa tesi. Al contrario, le stesse dimostrano che i presunti “deficit” dipendano dal peculiare funzionamento dei pazienti ossessivi. Pertanto, al fine di rendere conto della fenomenica ossessiva e delle sue variazioni nei diversi domini e condizioni di responsabilità si rivela necessario ricorrere a scopi e credenze del paziente.

Per approfondimenti:

Amitai Abramovitch The neuropsychology of OCD across the life span: A critical perspective. Sixth Meeting of the EABCT SIG on OCD, Assisi 17-20 Maggio 2018.

Fadda, S., Gragnani,A., Couyoumdjian A., Mancini, F. Deficit cognitivi e Disturbo Ossessivo Compulsivo (2016). In Mancini, F. (a cura di) La Mente Ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo, Raffaello Cortina.

Come la Schema Therapy ti cambia la vita

di Barbara Basile

Report del convegno internazionale del 2018 ad Amsterdam

L’ultimo weekend di maggio si è tenuto ad Amsterdam il convegno internazionale di Schema Therapy (ST) in cui oltre un migliaio di schema terapeuti provenienti da tutto il mondo si sono ritrovati per condividere nuove tecniche terapeutiche e i risultati delle recenti ricerche nell’ambito. L’apertura dei lavori ha visto il presidente David Edwards e il vice-presidente nonché organizzatore del convegno Remco Van der Wijngaart dare il benvenuto ai partecipanti sottolineando la significatività dell’evento, che puntualmente ricorre ogni due anni. L’intervento del presidente ha ripercorso il contributo dei più illustri clinici e ricercatori che con i loro concetti e modelli hanno provveduto a dare corpo alla ST. Partendo da Winnicott e le sue esperienze emotive correttive, passando per Moreno e Perls che hanno creato e diffuso la tecnica delle sedie, arrivando a Bandura e alla sua auto-efficacia e infine richiamando il prezioso contributo di Gianni Liotti che si è occupato, tra gli altri, di attaccamento e trauma complesso e che è malauguratamente venuto a mancare da poco.

Successivamente in una keynote, Arntz ha ripercorso gli studi di efficacia sull’applicazione della tecnica esperienziale di Imagery with Rescripting (ImRS), citando i dati preliminari di diversi studi, tra i quali: un lavoro coordinato da Yakin che coinvolge 320 pazienti e prevede controlli di follow-up a sei anni, uno studio guidato da Tan che indaga le reazioni dei pazienti all’applicazione delle tecniche immaginative e altre ricerche di Roediger, Raabe e Videler rivolte rispettivamente allo studio dell’efficacia nel contesto della terapia di coppia, al Disturbo Post-traumatico da Stress e in età geriatrica. Tra i diversi simposi in parallelo, una sessione coordinata anch’essa da Arntz, ha interessato gli ultimi contributi relativi all’applicazione della ST al trattamento della depressione. Si tratta di un disturbo mentale, seppure tra i più diffusi al mondo, di cui la ST si è occupata poco, e lo ha fatto unicamente a partire dal primo contributo di Renner nel 2012. Quest’ultimo ha presentato i dati preliminari dell’ultimo lavoro del suo team, in cui in 25 pazienti con depressione cronica (sintomi presenti da oltre 2 anni, BDI-II>20) è stata esplorata l’efficacia della ST, tenendo in considerazione anche altre variabili come le credenze depressive nucleari e aspetti relativi alla relazione terapeutica. Rhonda Goldman ha ripercorso, avvalendosi di brevi video, i sei interventi nucleari del modello della Emotion Focused Therapy (EFT): 1) la consapevolezza e l’abilità di verbalizzare le emozioni, 2) la loro espressione, 3) la capacità di regolazione emotiva, 4) le capacità riflessive sulle stesse, 5) i processi di trasformazione intra-personali e 6) i processi trasformativi emotivi inter-personali.

Il secondo giorno, Farrell e Shaw hanno ripercorso i principali concetti che il terapeuta in formazione dovrebbe conoscere nel suo percorso educativo, la self-practice (pratica personale) e la self-reflection (capacità auto-riflessive), non mancando di applicare esercizi esplicativi. Nella sua key lecture, Young ha presentato la nuova formulazione del caso clinico in chiave ST, disponibile sul sito della Società internazionale e che prevede la raccolta di nuove informazioni che riguardano gli aspetti culturali, etnici o religiosi del paziente e la relazione terapeutica, tenendo in considerazione le reazioni del terapeuta al paziente, il livello di collaborazione di quest’ultimo e le informazioni rispetto al reparenting. In un workshop, Genderen e Van der Wijngaart hanno affrontato, e arricchito con molteplici role play e esercitazioni pratiche, i diversi risvolti con cui l’emozione di rabbia può manifestarsi nel paziente. Le possibili modalità rabbiose prendono forma nel mode del bambino arrabbiato e furioso, nel genitore punitivo e nei coping mode di attacco/bullismo, del protettore arrabbiato, del predatore e del grandioso/auto-esaltatore. Senza dimenticare che la rabbia può venire espressa in modo adeguato e funzionale anche dalla parte dell’adulto sano del paziente. Gli strumenti che il terapeuta possiede per distinguere e identificare le diverse manifestazioni arrabbiate sono l’ascolto attento delle parole del paziente, il modo in cui parla e le reazioni emotive che il clinico può osservare dentro di sé. Ovviamente, rabbie “diverse” necessitano di interventi terapeutici differenti mirati.

Il gruppo APC-SPC romano ha partecipato con diversi contributi, orali e sotto forma di poster, presentando i risultati di studi che hanno visto coinvolte patologie di tipo depressivo e ossessivo-compulsivo (DOC), con la condivisione dei dati preliminari di uno studio volto a valutare l’efficacia dell’utilizzo di tre uniche sessioni di ImRS nel trattamento del DOC. Purtroppo il numero di connazionali che ha preso parte a questo meeting internazionale è stato davvero esiguo: si spera che la prossima edizione, in Gran Bretagna o in Danimarca, si possa assistere a un massiccio intervento di italiani!

 

“Il trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia”

di Chiara Lamuraglia e Stefania Ferrante

Negli scorsi giorni (20-22 aprile 2018) si è tenuto a Bari il Workshop sul “Trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia”, organizzato dall’Associazione Italiana di Psicoterapia Cognitiva (AIPC di Bari), in collaborazione con la Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC di Roma) e patrocinato dalla Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC Puglia).

Il corso, condotto dalla dott.ssa Federica Farina, è stato un affascinante viaggio fra mente e corpo: l’insonnia, infatti, è, fra i disturbi del sonno, uno tra quelli in cui maggiormente aspetti organici e psicologici si intrecciano profondamente in un processo molto articolato fra pensieri, emozioni, comportamenti e fisiologia corporea.

Dopo aver presentato gli aspetti legati alla fisiologia del sonno, all’epidemiologia dell’insonnia ed ai criteri di classificazione diagnostica nonché agli strumenti di valutazione clinica, la docente, ha condotto il gruppo verso l’approfondimento dei meccanismi di funzionamento del disturbo e dei modelli esplicativi dal punto di vista psicopatologico; si è, quindi, passati alla spiegazione del protocollo cognitivo-comportamentale per il trattamento, validato nell’efficacia, anche attraverso esercitazioni e presentazione di casi clinici.

La terapia cognitivo-comportamentale dell’insonnia (CBT-I Cognitive Behavioral Therapy for Insomnia), approccio terapeutico d’elezione a livello internazionale e che a lungo termine risulta essere più efficace del trattamento farmacologico, è un intervento multicomponenziale, che include un intervento psicoeducativo, volto ad incrementare le conoscenze sul sonno e sui meccanismi dell’insonnia, tecniche comportamentali, finalizzate a sviluppare buone abitudini di sonno ed evitare comportamenti che impediscono di dormire, e tecniche cognitive, per l’individuazione e la modifica dei pensieri disfunzionali e la riformulazione di aspettative irrealistiche riguardo il sonno.

La ricchezza dei contenuti e dei materiali presentati ha permesso ai partecipanti di avere strumenti concreti per la pratica clinica nel trattamento del disturbo; ma, cosa forse ancora più importante, ha sollecitato il desiderio e la curiosità per l’approfondimento di altre tematiche e di più ampi aspetti legati al sonno permettendo ai partecipanti di allargare il proprio sguardo su questo importante e centrale aspetto della vita.

L’esperienza, grazie alla competenza della docente ed alla ricca partecipazione del gruppo che ha attivato un interessante confronto e scambio di esperienze professionali, è stata pienamente soddisfacente. L’auspicio, come SITCC PUGLIA, è quello di poter avviare futuri momenti di formazione ed approfondimento sui temi legati ai disturbi del sonno mantenendo e rafforzando la già proficua collaborazione con la scuola di specializzazione AIPC di Bari. In tal senso la nostra attenzione a sostenere formazioni specialistiche, come nel caso dell’insonnia, persegue l’obiettivo di potenziare gli strumenti a disposizione dei professionisti e offrire sempre più al territorio risposte alle domande di cura dei pazienti.