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Categoria: Psicoterapia a puntate

Le storie che curano

di Giuseppe Femia

Le storie che curano

Ha davvero senso raccontare storie di psicoterapia, l’esperienza del medico che cura e del paziente che viene curato?

La giornata tipo di uno psicoterapeuta si caratterizza per alti e bassi di adrenalina, curiosità, rabbia espressa, coiti riferiti, perversioni frequenti.

Passa per nevrosi di vario tipo, disturbi di ansia, stati depressivi a personalità borderline. Si muove dalla sessualità a banali problemi di cuore drammatizzati, oscilla fra psicosi straordinarie a fastidi ordinari della vita quotidiana.

E lo psicoterapeuta? Una mente che cerca di muoversi con attenzione e sensibilità fra stati emotivi, pensieri, credenze, relazioni, esperienze passate e investimenti futuri. Una mente che muove e vive altre menti, altre vite.

Certo la giornata di un dentista non deve essere più leggera e meno adrenalinica di quella di uno psicoterapeuta, fra pulpiti, cure canalari, ponti e perni, dolore e anestesie, e nemmeno sarà priva di fobie e ansie. Ma quella dello psicoterapeuta passa per la vita degli altri, intreccia storie, emozioni , ricordi, sogni, riflessioni, e cura con la parola e la relazione. Questa professione ha perciò caratteristiche intrinseche che la rendono peculiare, avvincente, complessa e affascinante.

Raccontare le storie e i casi incontrati in psicoterapia potrebbe quindi risultare interessante anche per chi non pratica questo mestiere e per chi non l’ha mai incontrata né da un lato né dall’altro della scrivania: a differenza di quello che avviene in uno studio dentistico, che potrebbe potenzialmente anche regalare spunti interessanti dai mille risvolti, le storie di psicoterapie possono riguardare davvero tutti, e offrirsi come spunto riflessivo o come osservatorio privilegiato per ogni individuo che pensa, soffre, gioisce. La narrazione infatti stimola processi di riflessione, inibisce lo stigma verso la sofferenza psicologica, avvicina, integra e scuote abbattendo resistenze e obiezioni. Inoltre, la storia di un paziente è essa stessa terapeutica, perché ricostruire la storia del proprio disagio con nuovi significati e integrarla in relazione alla propria identità, dando senso alla propria sofferenza, diventa un processo quasi di cura. E può aiutare chi la ascolta a individuare somiglianze e simboli che fanno risuonare qualcosa. Ecco dunque una storia clinica, verosimile, o per meglio dire vera, modificata negli aspetti che possano tradire la privacy: una narrazione come risultato di una reale esperienza di psicoterapia.

Cosimo: occhi azzurri e pensieri neri
(clicca qui per scaricare la storia in formato pdf)

Illustrazioni di @disegniperlasalutementale
https://www.instagram.com/disegniperlasalutementale?igsh=MTl1YXN2MmUyeHE0aQ==

Quando una storia può aiutare a cambiare

di Francesca Romani e Giordana Ercolani

Ogni individuo nel corso della propria storia di vita può attraversare situazioni in grado di contribuire alla costruzione di credenze e regole su sé stesso e su gli altri. Questo processo inizia fin da bambini. Infatti è proprio nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza che le esperienze quotidiane con i genitori, prima, e successivamente con i compagni ed altri adulti significativi (es. familiari, insegnanti, allenatori etc.) sono in grado di suggerire una versione del mondo che con il tempo potrebbe irrigidirsi e diventare la sola “lente” con cui leggere gli eventi, le persone e sé stessi. Dunque quando questa “lente” si è costruita sulla base di esperienze accompagnate, ad esempio, da sensazioni di intensa frustrazione, critica, inadeguatezza, rifiuto o esclusione con conseguenti emozioni di rabbia, senso di colpa, ansia o tristezza, la sofferenza emotiva segue, solitamente, una traiettoria negativa che può condurre a profili psicopatologici più o meno precoci.

Nella psicoterapia Cognitivo-comportamentale (CBT) è consuetudine affrontare con il paziente proprio questo sistema di regole e credenze che caratterizza tipicamente il suo funzionamento psicologico, dedicando maggiore attenzione a quelle responsabili della sofferenza.

L’obiettivo è quello di ridurne la rigidità, favorire una defocalizzazione dall’ipotesi peggiore e affiancarvi punti di vista alternativi (Buonanno, Gragnani, 2021) con un successivo incremento della flessibilità psicologica responsabile di più alti livelli di benessere. Anche negli interventi con bambini e ragazzi si procede allo stesso modo; sebbene la giovane età può far credere che tale sistema non sia poi così disfunzionale, è esperienza comune per i terapeuti dell’età evolutiva imbattersi in idee già estremamente rigide e pervasive, inserite in quadri di sofferenza emotiva già ben strutturati.

In CBT tale processo di ampliamento del punto di vista e disponibilità a considerare una versione differente delle cose riguardanti se stessi e gli altri, prende il nome di ristrutturazione cognitiva.

Tante sono le tecniche e gli strumenti in grado di favorirla e tra questi si trovano anche le favole per bambini. Riprendendo l’esempio della “lente” usato poco fa, potremmo dire che una storia ha il potere di ridurne l’utilizzo e alimentare l’assunzione di una nuova prospettiva da cui guardarsi intorno per poi trarre conclusioni. Di fatto, nel caso delle favole, grazie al processo di identificazione con le situazioni e i personaggi, è possibile prima di tutto normalizzare la propria sofferenza; sapere infatti che anche altri soffrono come soffriamo noi ci fa sentire meno soli. Altresì la lettura di una storia, anche se di fantasia, può offrire la possibilità di rintracciare nelle vicende altrui, temi di sofferenza simili ai propri e avere così la possibilità di prendere in esame delle alternative che prima di allora non si erano considerate.

Pertanto, da un’esigenza clinica di questo tipo nasce la storia de “Il cappello Matteo” che siamo qui a condividere affinché possa essere di aiuto non solo al bambino per cui è stata scritta ma anche a tutti quelli che come lui, dopo una delusione, si sono ritrovati a pensare di non essere abbastanza di valore per ottenere l’affetto e la vicinanza degli altri, decidendo così di isolarsi e rinunciarvi per sempre.

 

Il cappello Matteo: clicca qui per scaricare la storia completa in formato pdf

Illustrazione di @disegniperlasalutementale

 

Riferimenti bibliografici
Buonanno C., Gragnani A. (2021). Le tecniche di ristrutturazione cognitiva. In: Perdighe C., Gragnani A. (a cura di) (2021). Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Io non credo nella psicoterapia

di Elena Bilotta

Io non credo nella psicoterapia“. Un esordio del genere non promette molto di buono, ma da terapeuta che lavora con i disturbi personalità sono abbastanza abituata a sentirmelo dire e non mi indispone, anzi mi incuriosisce. Non deve essere facile per la persona che ho di fronte sentire di avere bisogno di qualcosa in cui non crede. La sua sofferenza deve essere profonda e radicata, come la sua solitudine, e deve averne provate tante, forse tutte. “Le ho provate tutte“. Ecco, come sospettavo.

La persona seduta davanti a me è un uomo di mezza età, sovrappeso, non particolarmente curato nell’aspetto. Mi racconta che i suoi familiari non sanno che è venuto in terapia, perché nessuno capirebbe. In famiglia se si parla di terapia si pensa solo a Sergio Castellitto (per via della serie italiana “In treatment”) e in generale tutti dicono che i soldi spesi per un terapeuta sono buttati. Per loro è molto più efficace il lettino dell’estetista che quello dell’analista. “Beh qui non abbiamo un lettino, quindi forse abbiamo un problema in meno“, scherzo io, sorridendo. Ma lui mi guarda un po’ schifato dal mio umorismo spicciolo. Ha ragione, avrei potuto proprio risparmiarmela, soprattutto perché ancora non so nulla di lui e del suo funzionamento, e l’umorismo, almeno nei primi incontri, va sempre dosato e calibrato, perché potrebbe essere sempre interpretato come sarcasmo escludente e umiliante, anziché come ironia benevola e inclusiva, che era poi la mia intenzione.

L’inizio non è dei migliori, e io comincio a sentirmi un po’ a disagio, esaminata e testata, scrutata come se dall’altra parte lui volesse capire quale sarebbe la qualità che io dovrei avere e che lui non ha. La pesantezza del clima che avverto mi suggerisce che potrebbe trattarsi di un disturbo di personalità. Difficile sentirsi così quando si ha davanti un paziente “solo” ansioso od ossessivo. Certo, potrei sbagliarmi e quindi continuo ad ascoltare senza giudizio o diagnosi in testa.

A malincuore mi racconta il suo problema: “Non dormo da due anni“. “Mi sveglio 5, 6, 7 volte a notte e la mia mente viene avvolta da una nube di pensieri che non riesco a gestire, allora sento un peso al petto e penso che mi stia venendo un attacco di cuore, così mi alzo, vado sul balcone, fumo una sigaretta e magari bevo un grappino e poi torno a letto”.

La mia prima domanda è quella più semplice e intuitiva, forse da lui letta come banale, ma non devo colpirlo con effetti speciali, come mi spingerebbe a fare la sensazione del suo sguardo addosso: “è successo qualcosa due anni fa, in concomitanza con questo cambiamento nella qualità del suo sonno?“. “Beh, è venuta a vivere a casa mia la mia compagna. Ma mica è per questo, che c’entra!” Mi guarda sempre più schifato e non capisco se a questo punto l’espressione di disgusto che ha quasi costantemente in viso non sia invece spavento. Paura che qualcun altro capisca qualcosa che lui non ha capito, che qualcun altro prenda il controllo, facendolo così perdere a lui. Eh no, sicuramente per la persona che ho davanti il controllo è importante, e non devo in nessun modo fargli pensare che io voglia toglierglielo.

No certo, non intendevo questo, ho solo fatto questa domanda per capire se associa questo cambiamento interno a un cambiamento esterno“. “No, non lo associo a niente“. “Ok“.

Le capita di rimuginare anche di giorno o solo durante la notte?“. “Anche di giorno purtroppo, per quello sono qui. Provo a distrarmi ma non funziona niente, a allora mi capita che divento molto nervoso, rispondo male a tutti, pure sul lavoro e pure con la mia fidanzata“. “Cos’è che la fa arrabbiare di solito?” continuo con le domande ovvie. “Tutto e tutti, mi urtano i nervi. E poi mi danno fastidio tutte quelle coppie felici coi bambini, tutti innamorati e contenti e io mi dico perché io no?”. Come spesso capita nei pazienti complessi, le informazioni arrivano un po’ a raffica e confuse su diversi piani, e lo sforzo da fare è quello di provare a mettere in ordine i contenuti e provare a metterli in un ordine gerarchico che abbia un senso e che venga condiviso dalla persona che si ha di fronte. Non credo che la persona che ho davanti però condividerebbe qualcosa con me.

Mi scusi, non ho ben capito, quindi ciò cos’è che esattamente la infastidisce?“. “Eh lo so che tanto lei andava a parare lì: sì, allora io vorrei un figlio ma la mia compagna non vuole. All’inizio neanche io volevo, ma adesso ho cambiato idea, forse perché sto diventando vecchio, inizio ad avere i capelli grigi e paura della morte“. Il tono cambia, non mi guarda in faccia. Capisco che si sta aprendo più di quanto avesse preventivato, ma questo non è un bel segnale per un paziente così; una volta uscito dalla seduta potrebbe pentirsene e starci molto male. Bisogna andarci piano perché condividere troppo, per alcuni pazienti, è insostenibile. “Immagino che questo le provochi tanto dolore“, dico, nella totale semplicità letta forse come banalità. “Sì, infatti. E ora che lo so che ci faccio?“. Ecco, appunto, ho detto una frase sbagliata per chi ho davanti. La persona che mi trovo di fronte tollera difficilmente qualsiasi tipo di comprensione o simil-compassione; le vive come umilianti. Già il fatto di essersi “ridotto” a parlare con uno specialista è per lui sconfortante e fonte di rabbia e frustrazione, come spesso accade in alcuni funzionamenti narcisisti. Sarà dura, penso, e forse sarà solamente una esperienza di profonda impotenza.

Ho però già da questi pochi scambi delle indicazioni che sono estremamente importanti per gestire il colloquio e il mio modo di pormi col paziente. Devo restare sullo sfondo e non devo avvicinarmi troppo. Non devo fare espressioni del volto che comunichino pena o tenerezza nei confronti del suo dolore, ma devo mantenermi il più possibile neutrale e con una espressione del viso che non lasci trapelare alcuna emozione specifica. Non devo fare troppe domande e non devo irrigidirmi quando ho la sensazione che io debba, con le poche informazioni che ho, dare una soluzione immediata al suo problema. Non devo cadere nella trappola dell’urgenza, dentro la quale lui è caduto già da tanto tempo.

Forse questo potrà essere un buon inizio.

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Illustrazione di @disegniperlasalutementale

Psicoterapia tra diffidenza e fiducia

di Giuseppe Femia

Raccontare le storie di psicoterapia assolve a diversi compiti, stimola comprensione ed empatia, normalizza, promuove condivisione e comprensione. La narrazione stimola processi di riflessione, inibisce lo stigma verso la sofferenza psicologica, avvicina, integra e scuote abbattendo resistenze e obiezioni.

Le storie, quasi come le metafore, raggiungono la consapevolezza saltando in modo quasi giocoso le resistenze che spesso attiviamo di fronte al riconoscimento del nostro disagio, del dolore, dei nostri limiti.

Inoltre, la storia di un paziente è essa stessa terapeutica, ovvero ricostruire la storia del proprio disagio con nuovi significati e integrarla in relazione alla propria identità, dando senso alla propria sofferenza, diventa un processo di simil cura. La storia diventa il valore aggiunto ad ogni disagio psicologico che altrimenti sarebbe identico per ciascuno, non rispettoso della specialità e del carattere soggettivo di ogni sintomo o malessere che sia.  Dunque, la storia aiuta il terapeuta a curare, il paziente ad essere curato. E può aiutare chi ascolta a individuare somiglianze e simboli che facciano risuonare qualcosa, e che collaborino alla riflessione  mediante processi di decentramento fino a stimolare processi di integrazione. La narrazione aiuta a familiarizzare con parti e caratteristiche di sé che neghiamo o distanziamo con critica, promuovendo accettazione e integrazione.

Ecco dunque una storia clinica, verosimile, o per meglio dire vera, modificata negli aspetti che possano tradire la privacy, dunque: una narrazione come risultato di una reale esperienza di psicoterapia.

La corazza di Leonardo: storia di una mente paranoide

Passività; Ansia; Rancore; Attacco;Negazione; Ostilità; Inadeguatezza; Antagonismo: PARANOIA

Leonardo capelli ricci e occhi vigili, quasi in allarme il suo sguardo. Postura rigida, formale, un po’ compiacente nella comunicazione, eppure subito attacca, e propone test relazionali. La sua diffidenza si sente dal primo minuto: il complotto arriva prima di lui. Poi arriva la rabbia, il rancore misto a dolore e ansia.

Diffidenza, vigilanza, persecuzione sono sovrani nel mondo di Leonardo: quando decide di affidarsi a qualcuno la mente di L. deve sempre comunque fare controlli per verificare se davvero può fidarsi o se deve ancora una volta mettere in moto distanza, distacco e attacco. Oscilla fra compiacenza e diffidenza. Trascuratezza e tristezza sono caratteristiche della sua storia di vita.

Il suo stato mentale sembra essere caratterizzato da un conflitto fra uno stato desiderato – essere compreso, amato, potersi fidare degli altri – e uno stato temuto – essere tradito e deriso – che finisce per prevalere e lo porta a difendersi. La sofferenza innesca controllo, che a sua volta lo induce a non fidarsi degli altri con credenze, regole e aspettative che vanno a confermare le credenze patogene che vedono l’altro sempre come minaccioso, inaffidabile, poco amorevole o addirittura abusante.

La sua storia di vita si mostra infatti segnata da schemi di sfiducia e abuso. Leonardo non giocava, spesso stava in silenzio, chiuso in stanza, a letto; si fidava solo dei suoi giochi, sapeva che loro non lo avrebbero tradito o attaccato.

Quindi da dove nasce la sfiducia verso gli altri? Come inizia a pensare che il mondo sia minaccioso, Leonardo? Da dove si generano queste convinzioni che vedono l’altro come persecutore?

Mediante un ponte, invisibile agli occhi ma silente per la mente, durante la psicoterapia abbiamo tracciato gli eventi significativi da cui generano i suoi timori e le sue credenze di base; ovvero quelle che giocano un ruolo cruciale nella sua sofferenza emotiva e relazionale, nella sua psicopatologia in cui spicca la paranoia, il risentimento e la difesa dal mondo-persecutore.

…continua

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Illustrazione di @disegniperlasalutementale