“Dottore ho deciso: mi sporco ma virtualmente”

di Olga Ines Luppino

Curare il Disturbo Ossessivo Compulsivo sottoponendo i pazienti al contatto con ambienti tridimensionali generati dal computer

Da oltre 30 anni, epoca delle sue prime applicazioni negli Stati Uniti, la realtà virtuale ha trovato una diffusione progressivamente crescente tanto da divenire, nell’ultimo decennio, strumento di cura al servizio dei professionisti della salute mentale.

A partire dall’efficacia, ampiamente dimostrata in letteratura, di interventi di desensibilizzazione sistematica per il trattamento di pazienti con disturbi d’ansia, una discreta mole di lavori ha recentemente documentato il sempre maggiore ricorso, per questo tipo di interventi, a ambienti tridimensionali generati dal computer, all’interno dei quali il paziente ha modo di muoversi e interagire come se si trovasse in luoghi reali, godendo degli effetti di assorbimento e di immersione dati da dispositivi di visualizzazione, schermi e sensori di posizione. Esposto “virtualmente” agli stimoli temuti, secondo gradi di difficoltà di volta in volta modulati dallo sperimentatore, il paziente si confronta con i propri timori all’interno di un ambiente protetto, ricostruito in modo tale da risultare il più possibile “su misura” per il suo specifico problema.

Alcuni ricercatori canadesi hanno dato vita a uno studio su pazienti con Disturbo ossessivo compulsivo (DOC) della durata complessiva di 12 sessioni. Il protocollo sperimentale ha coinvolto tre donne con DOC da contaminazione di differente gravità.

Al fine di meglio testare l’eventuale cambiamento prodotto dalle sessioni virtuali, i ricercatori hanno scelto di introdurre le stesse solo successivamente a una fase di stabilizzazione della sintomatologia che, per assegnazione casuale, ha avuto rispettivamente la durata di tre, quattro o cinque settimane per le diverse pazienti. la-mente-ossessiva-2422

La procedura sperimentale ha previsto l’utilizzo di due ambienti virtuali, uno “neutro”, consistente in una stanza vuota, utile inizialmente alle pazienti a familiarizzare con la tecnologia in questione, e uno sperimentale “contaminato”, consistente in una toilette pubblica caratterizzata da una voce (es. “Sei nella toilette di un ospedale”) e manipolata dall’esterno perché presentasse livelli di sporco progressivamente crescenti. Ogni sessione ha previsto un lavoro di ristrutturazione cognitiva sui pensieri disfunzionali e l’assegnazione, dalla sessione 8 in poi, di esposizioni in vivo come homework settimanale. L’ultima sessione è stata riservata, infine, a un lavoro di prevenzione delle ricadute.

I risultati hanno mostrato un impatto statisticamente significativo dell’intervento su tutte e tre le pazienti, con un effetto immediato sulla sintomatologia di una sola di loro, i cui timori erano meglio rappresentati dalle caratteristiche dell’ambiente virtuale costruito. Gli esiti sono rimasti stabili a un follow up a quattro mesi per accennare un decremento a un successivo retest a otto mesi.

Diversi certamente i limiti del lavoro, come evidenziato dagli stessi autori: primi tra tutti la ridotta numerosità del campione, selezionato inoltre per genere, nonché il numero delle sessioni, probabilmente insufficiente per il trattamento di una condizione complessa e cronica quale è il DOC. Promettenti pur sempre le evidenze in termini di facilitazioni derivanti dall’applicazione della tecnologia virtuale all’intervento espositivo sulla sintomatologia ossessiva, intervento passibile, per una buona percentuale di pazienti, di essere rifiutato quando proposto in vivo. Interessanti, inoltre, le suggestioni relative alla possibilità di meglio esplorare, con la creazione di ambienti virtuali ad hoc, l’impatto di un intervento come quello descritto su altri sottotipi di DOC.

Insomma, in un tempo in cui anche l’amore è oramai virtuale perché non “ingannarsi”? Basta che curi!

Per approfondimenti:

Laforest M. et al. (2016) Effectiveness of In Virtuo Exposure and Response Prevention Treatment Using Cognitive-Behavioral Therapy for Obsessive-Compulsive Disorder: A Study based on a Single-Case Study Protocol, Frontiers in Psychiatry, June 2016, Volume 7, Article 99.

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