di Barbara Barcaccia
Davide Veale, psichiatra e psicoterapeuta presso il Maudsley Hospital e il Priory Hospital North London, past-president della Società Britannica di terapia cognitivo-comportamentale, docente presso il King’s College di Londra, ha scritto un breve articolo, estremamente interessante, sull’importanza della ricerca per fondare la clinica, sulla terapia basata su prove sperimentali di efficacia, e sulle false credenze diffuse a proposito della CBT.
Emerge un’immagine della CBT che si affranca con orgoglio dai classici topoi che circolano, incredibilmente, talvolta anche in ambienti vicini a quelli della psicoterapia cognitivo-comportamentale: che la CBT non vada alla vera radice dei problemi del paziente, che non dia importanza alla relazione terapeutica, che sia iperintellettualistica, che sia una forma di riparazione meccanica da quattro soldi, che sia direttiva e renda il paziente un automa completamente passivo, e così via, fino al generico quanto scientificamente inesatto (qualunquista…?) “tutte le forme di psicoterapia sono ugualmente efficaci”.
David Veale va alla radice del problema. Guardiamo i fatti, e cerchiamo di essere realisti: i tassi di prevalenza lifetime dei disturbi mentali indicano che molti milioni di adulti nel mondo hanno sofferto di un qualche disturbo mentale nel corso della propria vita. Purtroppo però non sempre questi disturbi vengono adeguatamente riconosciuti e trattati. Cosa abbiamo da offrire, oggi, a queste persone? Nel giro di quarant’anni si sono accumulati in realtà una grande quantità di dati che forniscono precise indicazioni su quali scelte terapeutiche effettuare. Si potrebbe essere moderatamente ottimisti. Eppure questi dati faticano a circolare, a essere diffusi e conosciuti dal pubblico .
Tuttavia sono gli specialisti della salute mentale, prima di tutto, a doversi aggiornare sulle terapie più efficaci: non è forse un preciso dovere deontologico del curante quello di offrire il miglior trattamento possibile al paziente? Non è però solo la mancata conoscenza dei nuovi dati e dei nuovi protocolli di trattamento tra i professionisti a rendere la vita dei pazienti più difficile del necessario, ma talvolta anche l’atteggiamento ipercritico e distruttivo, o cinico, come ha osservato Veale (nei confronti dell’approccio evidence-based), che irride il metodo scientifico, ma poi non è in grado di offrire alternative sensate e praticabili.
Possibile che ancora qualcuno ritenga di potersi ragionevolmente affidare all’ipse dixit, per pretendere di dimostrare la veridicità delle proprie asserzioni sull’efficacia di un trattamento? In campo scientifico è del tutto insensato. Tanto quanto lo è il ricorso all’anedottica personale, spesso sempre più romanzata con il passare del tempo… Come ha sagacemente notato David Veale, gli aneddoti e l’esperienza personale del terapeuta possono andare bene per “fare colpo” sui media, ma certamente non possono essere la base per prendere decisioni di public policy. Per queste ultime occorre non accomodarsi ciecamente dentro i luoghi comuni, osservare i dati, e dissentire.
Clicca per scaricare l’articolo di D. Veale