II Rome Workshop on Experimental Psychopathology 2015

di Roberta Trincas e Maurizio Brasini

Da poco si è concluso (20-21 Marzo 2015) il secondo Rome Workshop on Experimental Psychopathology organizzato dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC di Roma, e sponsorizzato dalla Società Italiana Terapia Comportamentale e Cognitiva SITCC. Il workshop è stato dedicato alla presentazione e discussione di studi empirici rilevanti per la psicopatologia sperimentale. I partecipanti di questa edizione sono stati ricercatori, dottori di ricerca e professori provenienti da diversi Istituti universitari e centri di ricerca nazionali (Trento, Napoli, Roma) e internazionali (Regno Unito, Belgio, Irlanda, Spagna, Serbia, Israele, Olanda, Germania, USA). Il workshop è stato aperto da Francesco Mancini (SPC, Roma), membro della Commissione Scientifica e Organizzativa del workshop insieme a Carlo Buonanno (SPC, Roma) Alessandro Couyoumdjian (Sapienza Università di Roma), Andrea Gragnani (SPC, Roma), Cristina Ottaviani (Fondazione Santa Lucia, Roma), Nicola Petrocchi (Sapienza Università di Roma), Katia Tenore (SPC, Roma), Roberta Trincas (SPC, Roma). In questa edizione le due giornate sono state strutturate in quattro sessioni orali riguardanti temi specifici: la psicopatologia, le neuroscienze, i bias e i processi cognitivi, i metodi di trattamento della psicopatologia; e una sessione poster.

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Il primo intervento è stato quello di Graham Davey (Sussex University, UK), A Manual for Experimental Psychopathology: Developing Valid Psychological Models of Psychopathology using Healthy Individuals, che ha elaborato un’analisi critica dei metodi di ricerca utilizzati nell’ambito della psicopatologia sperimentale. Molto interessante la sua argomentazione, semplice e inattaccabile, che i modelli psicopatologici debbano individuare meccanismi universali di funzionamento dei processi cognitivi di base, per cui non ha alcun senso limitare la ricerca a popolazioni cliniche. A seguire, gli interventi si sono concentrati sulle caratteristiche di differenti psicopatologie, l’importanza della disperazione come fattore che favorisce la vulnerabilità cognitiva alla depressione (Igor Marchetti; Università di Ghent, Belgio), la percezione del controllo nella depressione (Rachel Msetfi; Università di Limerick, Irlanda), gli schemi cognitivi in pazienti con deliri paranoidei (Ljiljana Mihic, Università di Novi Sad, Serbia), il modello Seeking Proxies for Internal States (SPIS) come possibile spiegazione del dubbio e dei rituali nel DOC (Reuven Dar, Università di Tel Aviv, Israele), la prestazione del narcisista in condizioni di minaccia (Barbara Nevicka, Università di Amsterdam, Olanda).

La sessione di neuroscienze ha visto tre interventi inerenti il possibile ruolo delle cortecce posteriore e prefrontale nello sviluppo del DPTS (Gudrum Sartory, Università di Wuppertal, Germania), il ruolo del glucosio e dell’ippocampo nella generalizzazione dell’ansia (Laura Luyten, Università di Leuven, Belgio), e il ruolo della corteccia prefrontale nello sviluppo del bias attentivo verso la minaccia (Laura Sagliano, Università di Napoli, Italia). I contributi della sessione sui bias e sui processi cognitivi sono stati diversi, dagli effetti della pre-esposizione ad un contesto simile a quello di condizionamento sulla generalizzazione della paura (Dieuwke Sevenster, Università di Leuven, Belgio), all’influenza dello stato motivazionale sull’elaborazione attentiva di cue inerenti il cibo (Jessica Werthmann, King’s College di Londra, UK), agli effetti delle strategie di regolazione emotiva nell’esecuzione di compiti di decision making (Cinzia Giorgetta, CNR – ISTC Trento, Italia).

La sessione sulla psicoterapia ha compreso interventi riguardanti l’efficacia di differenti tecniche di trattamento: la Schema Therapy per la depressione cronica (Fritz Renner, Università di Maastricht, Olanda), un programma di training sul controllo cognitivo per i sintomi depressivi (Ernst Koster, Università di Ghent, Belgio), un protocollo cognitivo-comportamentale di prevenzione per i figli di genitori affetti da depressione, PRODO (Kornelija Starman, Università di Monaco, Germania). Inoltre, diversamente rispetto allo scorso anno, è stata introdotta una sessione per gli studenti (tirocinanti, specializzandi, dottorandi) in cui ogni lavoro ha ricevuto un commento da uno dei senior (Graham Davey dell’Università di Sussex, UK; Marcel Van den Hout dell’Università di Utrecht, Olanda; Alessandro Couyoumdjian dell’Università La Sapienza di Roma, Ernst Koster dell’università di Ghent, Belgio; Reuven Dar dell’Università di Tel Aviv, Israele; Richard McNally dell’Università di Harvard, USA). Quest’ultima è stata una buona opportunità per gli studenti che hanno ricevuto un feedback da esperti nel settore, e il dibattito è stato acceso e costruttivo. In questa sessione gli interventi sono stati ricchi e interessanti, e hanno toccato diversi argomenti: l’influenza dell’umore triste sull’autostima implicita (Lonneke van Tuijl, Università di Groningen, Olanda) e sull’elaborazione sensoriale (Katharina Koch, Sapienza Università di Roma, Italia), gli effetti del pensiero astratto di tipo “why” sulla memoria di lavoro (Jens Van Lier, Università di Leuven, Belgio), l’effetto della ruminazione sulle funzioni esecutive (Jelena Sokic, Università di Novi Sad, Serbia), l’elaborazione inconsapevole dell’espressione della rabbia nell’ansia sociale (Nikola Samac, Università di Novi Sad, Serbia), la ruminazione nell’età evolutiva e la sua relazione con lo stile genitoriale, i parametri psicofisiologici e le caratteristiche di tratto (Blu Cioffi, Sapienza Università di Roma, Italia).

Quest’anno i Keynote Speakers sono stati: Richard McNally (Università di Harvard, USA), Marcel Van den Hout (Università di Utrecht, Olanda); Richard Bentall (Università di Liverpool, UK), e Nira Liberman (Università di Tel Aviv, Israele). McNally (titolo della lecture: Experimental and network analyses of PTSD and complicated grief) e Van den Hout (titolo della lecture: Network theory and the experimental psychopathology of OCD) hanno entrambi dedicato il loro intervento ad un nuovo approccio alla psicopatologia basato sulla “network analysis”. In questo approccio la visione tradizionale secondo la quale i sintomi costituiscono le manifestazioni visibili di disturbi sottostanti che ne sono la causa è considerata fuorviante in psicopatologia. Piuttosto, secondo questa prospettiva dovremmo considerare che i disturbi sono collezioni di sintomi concatenati tra loro, e che pertanto anche la psicoterapia non deve far altro che individuare le manifestazioni sintomatiche, quali ad esempio l’ansia o la tristezza, capire come funzionano e agire in modo da ridurre queste manifestazioni, a partire dalle più rilevanti. Una volta concentrata l’attenzione sui sintomi, si possono costruire delle reti di interconnessione tra sintomi che tendono a presentarsi insieme, e in tal modo individuare quali sintomi sono “centrali” in una determinata sindrome. Secondo questo modello “a rete”, più un sintomo è centrale, più la sua remissione potrà agire “a cascata” sulla remissione degli altri sintomi e quindi sulla risoluzione del disturbo stesso.

L’intervento di Bentall (From social risk factors to psychotic symptoms) ha dimostrato con dati e argomenti assai convincenti la natura assiomatica dell’idea che i disturbi psicotici siano determinati geneticamente, per arrivare a concludere, sempre sulla base di solide prove empiriche derivate da numerosi studi epidemiologici, che i principali fattori predittivi di psicosi sono di natura sociale. Non sorprende che tra questi fattori cosiddetti “sociali”, spicchino per rilevanza i maltrattamenti e in particolare quelli subiti in età infantile. La visione in generale è che i disturbi più gravi siano primariamente connessi ad una diffusa mancanza di una adeguata rete di supporto sociale.

L’intervento conclusivo è stato quello della Liberman (Transcending psychological distance: a Construal Level Theory perspective), che ha presentato un modello che dimostra quanto la prospettiva, ovvero la distanza psicologica che assumiamo, possa influenzare i nostri processi cognitivi e, in particolare, quelli decisionali. In generale, la posizione sostenuta dalla Liberman è che prendere le distanze favorisca processi cognitivi più astratti e, quindi, in ultima analisi più efficaci. Tuttavia, questo effetto, diceva la relatrice rispondendo a una domanda, potrebbe non valere in tutti i casi. Ad esempio, i pazienti affetti da DOC sembrano eccedere in senso opposto, divenendo eccessivamente accurati nelle loro valutazioni. Nello stesso senso, si notava che le terapie di terza generazione mindful-based sembrano invitare ad assumere una prospettiva più prossimale, orientata al presente. La Liberman stessa suggeriva la possibilità che la patologia possa risiedere nella scarsa capacità di modulare la prospettiva, da vicino a lontano, a seconda delle circostanze.

Per concludere, in generale la partecipazione al workshop è stata prevalentemente internazionale e le ricerche presentate sono state di livello elevato dal punto di vista scientifico. Sono stati, inoltre, numerosi i riferimenti alle difficoltà di ottenere fondi e visibilità per questo settore di ricerca. E’ un peccato che la tradizione di ricerca sui processi di base, che tanto è tornata utile alla psicologia clinica sia in termini di metodo sia in termini di conoscenze acquisite, stia attualmente cedendo il passo; e in particolare è un peccato che ceda il passo per una fascinazione a volte un pò acritica nei confronti delle neuroscienze e della genetica. Per questi motivi, l’intento di questo workshop è proprio quello di portare avanti e accrescere una rete internazionale focalizzata prevalentemente sui meccanismi di base della psicopatologia.

PS. Si ricorda che a breve verrà pubblicato il libro degli abstract del RWEP 2015 e i video delle main relation.

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