Sentirsi al sicuro

di Sabrina Bisogno

Cosa accade quando si ha la percezione di un pericolo imminente

Durante la manifestazione di apertura dell’ultimo congresso della Società Italiana di Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva, uno dei chair ha affermato: “In condizioni di sicurezza, ci assomigliamo un po’ tutti”.

Lo psicologo e psicanalista Peter Fonagy, professore alla University College di Londra e ospite del congresso, ha ricordato il vissuto di profonda alienazione sperimentato quando, profugo ungherese, si è ritrovato in Inghilterra e, per far fronte al proprio malessere, ha intrapreso un percorso di cura. Ha quindi sottolineato quanto sia potenzialmente danneggiabile lo “strato epidermico” che ci protegge dalla malattia mentale e come sentirsi al sicuro sia un fattore protettivo per la psiche.

Ma cosa vuol dire sentirsi in pericolo?

Possiamo affermare che ciascun essere umano ha un personale impianto di sorveglianza, ossia il sistema nervoso autonomo, che è pronto a rilevare segnali di pericolo grazie alla “neurocezione”: ciò che sente istintivamente il corpo.

Quando viene rilevato un pericolo, l’attivazione del sistema nervoso simpatico permette strategie di difesa, di attacco o fuga. E quando non si è in grado né di lottare né di fuggire, il tratto dorso vagale della branca parasimpatica permette la sopravvivenza attraverso l’immobilizzazione.

Questo è ciò che accade a ciascun essere umano di fronte ad un pericolo reale e oggettivo, come ad esempio la comparsa improvvisa di un animale minaccioso.

Tuttavia è interessante tener presente che questo accade anche di fronte a pericoli meno oggettivi ma ugualmente percepiti come significativi e imminenti, come ad esempio la minaccia di un rifiuto, di un abbandono o di una umiliazione: quando dunque il pericolo non è fuori ma è legato ai contenuti mentali e a come ci si sente in specifiche situazioni.

Quando invece ci si percepisce in una condizione di sicurezza, queste strategie di auto-protezione sono depotenziate, silenti, e a essere attivo è il tratto ventro vagale della branca parasimpatica. Quando ci si sente al sicuro, quindi, il sistema nervoso autonomo non è impegnato nel reclutare energie per difendersi e ci si sente calmi.

In una condizione di pericolo percepito, tutte le energie sono investite nella difesa e non c’è spazio per l’apprendimento sociale. Manca quella sufficiente sensazione di fiducia che permette la sperimentazione, il cambiamento, la costruzione di relazioni, l’intimità.

Ricordare quindi che il cervello umano funziona nello stesso identico modo sia che si tratti di un pericolo oggettivo e facilmente riconoscibile (animale minaccioso) sia che si tratti di un pericolo soggettivo (paura di restare soli, di essere rifiutati, etc.) aiuta a comprendere come mai si sperimenti la sensazione di non essere “lucidi” o in grado di gestire le  proprie reazioni di fronte ad alcuni stimoli specifici.

Nel momento in cui viene percepito il pericolo, anche se non a un livello di piena consapevolezza, il sistema nervoso autonomo disattiva le funzioni superiori non necessarie e attiva quelle primitive volte alla sopravvivenza. Se si avverte ad esempio il rischio di essere abbandonati, si ha quindi la sensazione di poter non sopravvivere e si agisce al fine di salvarsi.

E allora ci si ritrova, spesso senza neppure sentirsi pienamente al comando, ad attaccare o fuggire o bloccarsi.

Questi presupposti teorici hanno un significativo impatto sui modelli operativi di coloro che a più livelli si occupano di salute mentale, perché chiariscono quanto possa essere essenziale implementare lo stato di sicurezza e aiutano a comprendere come mai l’essere umano si mostri resistente al cambiamento. I comportamenti umani, infatti, se pur disfunzionali, rappresentano spesso l’istintivo tentativo di sopravvivenza e quando si è impegnati a sopravvivere emotivamente, non c’è spazio per nessuna riflessione o azione di buon senso.

Una maggiore consapevolezza di sé e dei propri personali segnali di minaccia aiuta a modulare e padroneggiare meglio i comportamenti.

Foto di MART PRODUCTION da Pexels

Il filo di Arianna

di Caterina Parisio

Dipendenza affettiva e paura dell’abbandono

Pare che l’espressione “piantare in asso” si debba a Teseo che, uscito dal labirinto grazie all’aiuto di Arianna, anziché riportarla con sé da Creta ad Atene, la lascia sull’isola di Naxos. In Naxos: in asso, appunto.

Scorrendo le pagine dell’ultimo libro di Chiara Gamberale, “L’isola dell’abbandono”, si può trovare questa digressione al mito greco di Teseo e Arianna, usata per tessere le fila della storia della protagonista: una storia di abbandono e dipendenza, cambiamento e rinascita. Proprio sull’isola di Naxos, Arianna, l’inquieta e misteriosa del romanzo della Gamberale, sente l’urgenza di tornare. È lì che, dieci anni prima, in quella che doveva essere una vacanza, è stata brutalmente abbandonata da Stefano, il suo primo, disperato amore, e sempre lì ha conosciuto Di, un uomo capace di metterla a contatto con parti di sé che non conosceva e con la sfida più estrema per una persona come lei, quella di rinunciare alla fuga. E restare. Ma come fa una straordinaria possibilità a sembrare un pericolo? Come fa un’assenza a rivelarsi più potente di una presenza?

Il tema della dipendenza affettiva e della paura dell’abbandono ha radici molto lontane: Ovidio nel 24 a.C. introduceva così l’argomento: “non posso vivere né con te né senza di te”. Sebbene le origini siano così profonde, ad oggi la dipendenza affettiva, per insufficienza di dati sperimentali, non rientra tra i disturbi mentali diagnosticati nel DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali; essa viene classificata tra le “New Addiction”, nuove dipendenze di tipo comportamentale, tra cui si trovano la dipendenza da internet, il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo.

Il tema della dipendenza affettiva e della paura dell’abbandono ha radici molto lontane: Ovidio nel 24 a.C. introduceva così l’argomento: “non posso vivere né con te né senza di te”. Sebbene le origini siano così profonde, ad oggi la dipendenza affettiva, per insufficienza di dati sperimentali, non rientra tra i disturbi mentali diagnosticati nel DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali; essa viene classificata tra le “New Addiction”, nuove dipendenze di tipo comportamentale, tra cui si trovano la dipendenza da internet, il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo.

Esattamente come avviene nella dipendenza da sostanze, anche nella Dipendenza Affettiva con il passare del tempo tutto inesorabilmente ruota intorno al partner; spesso la persona dipendente si chiude o evita volutamente gli altri nel tentativo di proteggersi dalle critiche o dal temuto abbandono.

Solitamente sia gli interessi sia gli hobby vengono progressivamente abbandonati e il fulcro dell’esistenza diventa il partner; anche il rendimento lavorativo diminuisce perché la persona ha la mente costantemente occupata dai suoi problemi sentimentali e trascorre molto tempo a rimuginare per cercare di risolverli. Nei casi estremi, per esempio anche quando il partner è violento, i pazienti dipendenti tendono a giustificarlo, si isolano, mentono o non chiedono aiuto pur di proteggerlo; spesso non riescono a lasciarlo anche quando è a rischio la loro incolumità fisica. Generalmente, i pazienti con Dipendenza Affettiva sono consapevoli degli effetti devastanti che il partner ha nella loro vita, ma esattamente come i tossicodipendenti, non riescono ad astenersi dalla relazione.

La protagonista del libro della Gamberale, incastrata all’interno di una relazione tossica, sperimenta una delle paure più profonde del dipendente affettivo, la paura di perdere la persona amata, il timore dell’abbandono.

Arianna sceglie, come suo primo grande amore, Stefano, un uomo incapace di essere presente, di amare, dall’umore labile, al quale fa più da madre che da compagna. Arianna e Stefano si incontrano in un reciproco bisogno, che li incastra in una disfunzionale dinamica relazionale: da una parte, Stefano ha bisogno di Arianna per uscire dal labirinto della sua mente, dall’altra Arianna ha bisogno di legarsi a qualcuno che è incapace di essere presente, cosa che, pur facendola soffrire, le è pur sempre familiare e confortevole.

Chi soffre di Dipendenza Affettiva si sente inadeguato e non degno di amore e vive costantemente con il terrore di essere abbandonato dal partner. La paura dell’abbandono induce al tentativo di controllare l’altro con comportamenti compiacenti di estrema sacrificalità, di disponibilità e accudimento, con la speranza di rendere la relazione stabile e duratura.

La tendenza stessa a costruire una relazione di non mutualità, in cui l’altro e i suoi bisogni sono centrali, induce a lasciare spazio a personalità egocentriche e anaffettive, che finiscono per confermare in chi soffre di dipendenza affettiva la paura di non poter essere degni di amore. Il risultato è un aumento della sacrificalità e un continuo colpevolizzarsi per l’andamento insoddisfacente della relazione. L’altro è rincorso esattamente come fanno i giocatori d’azzardo che “rincorrono la perdita” e non riescono a smettere di giocare.

L’abbandono di Stefano a Naxos, che produce una grande sofferenza in Arianna, si tramuta tuttavia in un’occasione di svolta allorché, proprio in quell’isola, incontra di lì a poco Di (il Dioniso del mito), un uomo che invece è disposto ad esserci e ad amarla in modo autentico.

ll mito di Teseo e Arianna, dopo l’abbandono della giovane a Naxos, si sviluppa in molteplici varianti, di cui due versioni appaiono particolarmente interessanti: nella prima, il dio Dioniso dona una corona ad Arianna per consolarla e la rende immortale, trasformandola in una costellazione (la Corona Boreale), che diventa una sorta di simbolo perenne dell’abbandono subito; nella seconda versione, invece, Dioniso, giunto sull’isola e innamoratosi di Arianna, la sposa e la fa diventare una dea e il diadema d’oro ricevuto come dono di nozze, lanciato in cielo, diventa costellazione.

Queste due varianti del mito sembrano rappresentare i due possibili modi di reagire all’abbandono: rimanere congelati nel dolore, facendo in modo che la paura di essere lasciati continui a condizionare le nostre scelte, oppure elaborare quel dolore e imparare a gestire quella paura, aprendoci così a nuove opportunità.

“Perché non sono quando non ci sei”

di Caterina Parisio

Dipendenza: da fenomeno fisiologico a psicopatologia

 Nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1902, Mathilde Tulla Larsen, amante del celeberrimo pittore Edward Munch, in seguito al suo ennesimo rifiuto a sposarla, fece giungere all’artista la notizia che ella era in fin di vita a causa di un’overdose di morfina. Quando Munch giunse a casa di Tulla, la trovò avvolta in un sudario e distesa in una bara, circondata da candele. Vedendolo, ella si sollevò stremata gridando: “Era l’unico modo per farti giungere a me!”.
Curiosa, a tratti comica, la scenetta di Tulla ed Edward, profondamente triste e tragica nella sua verità: quando una relazione si trasforma in qualcosa di tossico.

Esiste un momento preciso durante il quale una relazione approda a una dimensione patogena e patologica? Vari autori sottolineano la necessità di distinguere la dipendenza come fenomeno fisiologico dalla dipendenza intensa come Disturbo di Personalità. John Birtchnell considera la dipendenza negli adulti l’equivalente dell’attaccamento nei bambini e sottolinea come essa possa essere normale in alcune situazioni come le malattie invalidanti o nell’infanzia. L’autore evidenzia, come caratteristica del disturbo, l’incapacità di stabilire una propria identità separata da quelle delle figure di riferimento.
La dipendenza può, del resto, essere considerata come un atteggiamento etologicamente adattivo e appropriato in alcuni contesti, che spinge verso la ricerca di protezione da parte di un altro ritenuto più forte, ma che può determinare, in alcune situazioni cliniche, una grave menomazione del funzionamento personale e sociale.
La dipendenza problematica, legata alla stabilità di relazioni interpersonali disadattive, non configura sempre un Disturbo Dipendente di Personalità, ma è una dimensione comune a vari funzionamenti psicopatologici. La richiesta continua di rassicurazione, l’impossibilità di esprimere disaccordo e il prestarsi a compiti spiacevoli, sono modalità finalizzate al mantenimento della dipendenza dalle figure significative; sottomissione, l’essere facilmente feriti dalla critica e dalla disapprovazione, l’aggrapparsi alle relazioni sono, invece, manovre difensive tipiche del disturbo.

Gli stati mentali caratteristici di pazienti con DDP oscillano tra stati di autoefficacia, in cui il soggetto ha di sé un’immagine positiva, forte e adeguata, e stati di vuoto terrifico disorganizzato, in cui predomina una rappresentazione di sé inadeguato e fragile.

Il sé fragile è caratterizzato da temi di minaccia, solitudine, abbandono e perdita. La sensazione costante è quella di essere incapace a fronteggiare gli eventi da solo; è pervasiva la necessità di essere presenti nella mente dell’altro, di avere una profonda condivisione e sintonia. La fragilità si esprime nel timore costante di abbandono.

Se da un lato, il mantenimento della dipendenza consente la permanenza di una rappresentazione di sé come competente (ma non annulla quella di un sé debole), dall’altro, la rottura della dipendenza genera lo stato mentale temuto di vuoto disorganizzato. È caratterizzato da temi di pensiero di abbandono e perdita e da assenza di desideri attivi.

La dipendenza non è legata a un semplice bisogno di aiuto e rassicurazione contro le paure, ma è ciò su cui si basa la regolazione delle scelte, permette di percepire scopi e desideri, contrasta sensazioni terrificanti di vuoto: è la dipendenza che fa sentire vivo il soggetto! Combattere la dipendenza in questi pazienti è come voler riabilitare la muscolatura di un arto dopo la frattura, riducendo il funzionamento dell’arto sano. Sarà un lungo lavoro di potenziamento dei processi di riconoscimento dei propri scopi e di regolazione dei piani a equilibrare la dipendenza sintomatica versa una forma più funzionale.

Quando Munch, giunto a casa dell’amante, comprese l’inganno, sembra che disgustato decise di allontanarsi, ma ella, disperata, impugnò un revolver per uccidersi.

Ah Tulla, ad averti avuta in terapia chissà, forse avresti regolato meglio le tue scelte!

Per approfondimenti

Giancarlo Dimaggio, Antonio Semerari (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Ed. Laterza

“Ti prego, non lasciarmi!”

di Benedetto Astiaso Garcia

Comprendere e riconoscere il timore dell’abbandono: quali modi di pensare, di sentire, di agire, di percepirsi e di entrare in relazione si celano dietro tale paura?

Il timore dell’abbandono, come illustrato dallo psicoterapeuta Young nel libro “Reinventa la tua vita”, si origina negli anni dell’infanzia e sviluppa modelli comportamentali e relazionali, definiti come “trappole”, destinati a influenzare la percezione di sé e la qualità dei rapporti interpersonali nell’età adulta. Oltre a una connessione con il patrimonio genetico della persona, relazioni con figure genitoriali disfunzionali, trascuranti e imprevedibili affettivamente possono contribuire in maniera significativa alla sviluppo di modelli cognitivi ed emotivi di qualità abbandonica. A partire da un ambiente familiare destabilizzante, iperprotettivo, soffocante, traumatico e poco accudente, il bambino non riesce a rappresentarsi nella propria mente una presenza che si prenda cura stabilmente di lui, non percependosi come autonomo, unico e degno d’amore.
Il sentimento dell’abbandono consiste nella convinzione di perdere le persone amate, obbligando il soggetto a una vita priva di legami affettivi su cui poter contare e fare affidamento. All’interno delle relazioni, inesorabilmente percepite come destinate al fallimento, si cela sempre il timore di essere condannati a rimanere soli, allarmandosi per qualsiasi minaccia di allontanamento o separazione, che sia reale o immaginaria. Tale timore, attivato prevalentemente all’interno delle relazioni intime, induce a interpretare qualsiasi comportamento del partner, anche quello  più innocente, come un’intenzione di abbandono, sviluppando nell’individuo immaginari futuri di disperazione, isolamento, terrificante solitudine e incapacità a provvedere a se stesso. La ferma convinzione che la propria vita dipenda da un’altra persona innesca rapporti interpersonali instabili, turbolenti e travagliati, all’interno dei quali si oscilla tra il desiderio di controllare l’altro, attraverso un attaccamento eccessivo, e la fuga dalle relazioni intime, al fine di prevenire possibili scenari di perdita. Il timore di non ricevere l’affetto di cui si ha bisogno genera cicli emozionali di angoscia, dolore e rabbia, producendo intense manifestazioni di gelosia e possessività, destinate tuttavia ad avverare la più terribile delle profezie temute: rimanere realmente soli. Sabotare le proprie relazioni, infatti, significa rendere reale ciò che maggiormente si vorrebbe fuggire nel proprio immaginario, stancando, aggredendo e mettendo eccessivamente alla prova le intenzioni altrui nei confronti del rapporto interpersonale. All’interno di tale modello, al fine di ricercare un senso di familiarità che rievochi ciò che si è vissuto in passato, vengono favorite relazioni sentimentali precarie, connotate da un attaccamento eccessivo verso il partner, che viene ricattato, punito e accusato continuamente di infedeltà ogni qualvolta il timore di perdita dovesse diventare più forte. Ricercare figure instabili, non disposte a impegnarsi seriamente, emotivamente disturbate e ambivalenti nel comportamento, rappresenta solamente uno dei tipici campanelli d’allarme di tale modello comportamentale.
È possibile superare il timore dell’abbandono modificando i propri “pattern”, ossia le configurazioni emotive e cognitive, autodistruttive e ricorrenti, che impediscono il superamento di tale “trappola”. Oltre al cercare di comprendere ed elaborare dinamiche di abbandono subite in passato, risulta fondamentale monitorare i propri vissuti emotivi di solitudine e perdita, riesaminare i timori ricorrenti all’interno dei rapporti interpersonali, ricercare rapporti positivi e lavorare sul tema della fiducia, della separazione e dell’ambivalenza emotiva vissuta a livello relazionale.

Per approfondimenti:

YOUNG J.E., KLOSKO J.S., “Reinventa la tua vita”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004