Ordine naturale e sofferenza mentale

di Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini

Stoicismo, buddhismo e credenze sul funzionamento della natura: una via verso l’accettazione radicale

Quale legame esiste tra le credenze che un individuo ha sul funzionamento e la giustizia etica della realtà e la sua condizione di benessere (o sofferenza) mentale? In un articolo appena pubblicato su Cognitivismo Clinico, Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini fanno il punto sull’argomento, evidenziando come tali credenze, che danno origine nella mente umana a precise aspettative sugli stati del mondo – possibili (ordine naturale fattuale), giusti (ordine naturale etico) e utili (ordine naturale utilitaristico) – siano effettivamente in grado di modulare le convinzioni circa il valore e la perseguibilità degli scopi e dunque di agire, in accordo con modello cibernetico del purposive behaviour, su tutti i fattori che influenzano l’accettazione della sofferenza psicologica (entità e credibilità degli scopi, investimento, meccanismi ricorsivi).

Dopo aver chiarito il ruolo dell’ordine naturale nel promuovere il benessere psicologico o, al contrario, nel favorire la sofferenza, gli autori prendono in esame una forma particolarmente radicale di accettazione, l’amor fati della filosofia antica, rivisitandola in chiave cognitivista e mostrando come essa, a differenza di quanto accade nella accettazione comunemente intesa – in cui il processo di accettazione termina con la cessazione degli investimenti sugli scopi irrimediabilmente compromessi (lasciando dunque la possibilità di un “residuo” di sofferenza da “rassegnazione”) – miri a realizzare una condizione di annullamento completo e definitivo della sofferenza mentale.

Secondo gli autori, l’analisi degli insegnamenti di due grandi scuole di pensiero, lo stoicismo di Marco Aurelio e il buddhismo antico, opportunamente “tradotti” in senso cognitivista, attesta che, alla base di entrambi questi sistemi di pensiero, vi è proprio il concetto di ordine naturale fattuale.

La retta comprensione delle leggi che regolano la natura (il Logos stoico, il Dharma buddhista), da conseguirsi attraverso l’impiego di specifici esercizi cognitivi ed esperienziali, consente all’essere umano di ristrutturare le proprie credenze sul valore, etico e utilitaristico, dei fatti esistenziali (il lutto, la malattia, il successo, l’abbandono, ecc.) e di collocarsi in una condizione di assenza di sofferenza che, almeno teoricamente, è generale e permanente: l’individuo non soffre, qualsiasi cosa accada, perché tutto ciò che succede è compatibile con il suo schema di funzionamento della realtà e non può compromettere o minacciare alcuno scopo dotato di valore utilitaristico o normativo.

Una parte importante dell’articolo è dedicata proprio all’analisi degli esercizi “spirituali” proposti da stoicismo e buddhismo; gli autori mettono in luce i meccanismi cognitivi attraverso cui tali pratiche incidono sull’assetto scopistico dell’individuo e sulle cause della sofferenza mentale e, aspetto particolarmente interessante, mostrano come, alla luce del concetto di ordine naturale, esse acquistino un senso alquanto differente da quello comunemente loro attribuito dagli approcci psicoterapeutici contemporanei.

È il caso, ad esempio, degli esercizi di mindfulness, tanto di moda oggi nella pratica psicologica e psicoterapeutica, che, a giudizio degli autori, corrisponderebbero solo in parte alle pratiche di visione profonda (vipassana) del buddhismo antico, alle quali vengono solitamente ricondotte; mentre la mindfulness, secondo gli autori, serve essenzialmente a promuovere la defusione, le meditazioni vipassana del buddhismo originario, presupponendo, diversamente dalla mindfulness, pratiche molto spinte di concentrazione meditativa, assolvevano probabilmente a un compito cognitivo estremamente più significativo, quello di indurre la comprensione diretta, esperienziale dell’ordine naturale fattuale delle cose e, conseguentemente, di promuovere la completa ridefinizione degli scopi e degli investimenti personali.

Per approfondimenti

Carlo E., Brasini M., Giacomantonio M., & Mancini F. (2021). Accettazione, amor fati e ordine naturale: una prospettiva cognitivista. Cognitivismo clinico 18, 1, 67-86.

Photo by olena ivanova on Unsplash

Vita di coppia: litigare con lealtà

di Sonia Di Munno

I valori principali per avere un rapporto soddisfacente sono connessione, prendersi cura e collaborazione. La terapia di coppia con tecniche ACT

“Ci sono due tipi di coppie: quelle che non litigano mai e quelle che non conosci davvero bene”.  Così scrive argutamente Russ Harris, psicoterapeuta cognitivo comportamentale e principale esponente della Acceptance and Commitment Therapy (ACT), sulle relazioni di coppia.
L’ACT è un approccio di terza generazione della psicoterapia cognitivo comportamentale che pone l’accento su due fattori cardine per il benessere psicologico: l’accettazione e l’impegno che conducono alla flessibilità psicologica. La ricerca scientifica sta dimostrando che più alto è il nostro livello di flessibilità psicologica, migliore sarà la nostra qualità di vita. La flessibilità psicologica è definita come “l’abilità di adattarsi a una situazione con apertura e consapevolezza, di focalizzarsi e di intraprendere un’azione efficace guidata dai propri valori”. Essa è composta da due aspetti: essere psicologicamente presenti (mindfulness) e intraprendere azioni efficaci (motivate, orientate, consapevoli, flessibili e adattabili).
Ricerche di John Gottman e Nan Silver su un cospicuo campione di coppie hanno trovato che ciò che rende una relazione salutare non è la quantità di litigi, ma il modo in cui si litiga; per cui quando il litigio è amichevole con un po’ calore e tenerezza, le ferite saranno lievi e guariranno velocemente.
I loro dati mostrano anche che uno dei fattori chiave per una relazione sana è la presenza dei “tentativi di riparazione”, cioè ogni gesto, parola e azione destinati a riparare la relazione. La ricerca di Gottman afferma che persino quando le coppie litigano molto, ma lo fanno lealmente e sono presenti tentativi di riparazione, la loro relazione può essere molto sana e gratificante. Affinché questi tentativi vadano a buon fine, entrambi devono capirne il valore del “dare” e del “ricevere”. Anche chi “riceve” deve essere in grado di apprezzare e non respingere i tentativi del partner. Il conflitto è inevitabile, ma lottare lealmente, riparare, praticare la compassione, chiedere con gentilezza, lo renderanno meno distruttivo.
Verrebbe da pensare: ma come si fa a litigare senza disprezzo e critica ma lealmente e in modo compassionevole? Su questo la terapia ACT, impostando lo stile di vita personale e di coppia su valori personali e obiettivi, attraverso tecniche che ci allontanano dall’essere troppo incentrati sui nostri pensieri (come la defusione e l’espansione) e guardando il momento presente (mindfulness), porta il suo cospicuo contributo. Molto importante è anche sfatare i falsi miti sull’amore proposti dai film e dalle favole, che non fanno altro che allontanarci dalla realtà dei fatti. Ci sono cinque modalità fondamentali che allontanano i partner: la disconnessione, la reattività impulsiva, l’evitamento, rimanere dentro la propria mente e trascurare i propri valori. Di contro, a queste comuni modalità che ci allontanano non solo dal nostro partner, ma anche da quello che idealmente vorremmo essere noi come partner, possiamo applicare altri sistemi più funzionali e soddisfacenti come: mollare la presa, aprirsi, dare valore e impegnarsi attivamente. Fondamentali nella terapia ACT sono i valori personali, dove per valori si intende i desideri più profondi rispetto a ciò che si vuole fare e al significato che si vuole attribuire al tempo passato su questa terra. Vivere una vita seguendo i propri valori ci fa sentire liberi, leggeri e aperti alla vita; questi sono anche comportamenti desiderati che riguardano un processo continuo nell’arco della propria vita, non sono una meta ma una direzione. Nelle relazioni, i valori principali per avere un rapporto soddisfacente sono essenzialmente tre: connessione, prendersi cura e collaborazione. Oltre a questi, ce ne sono tanti altri, ma avere una carenza in queste tre aree porta a lungo andare a un impoverimento della relazione e una sua rottura. Questi tre valori sono alla base dell’amore, del calore e dell’intimità e conducono a una maggiore connessione con il partner e ad un dialogo aperto, curioso e tollerante.
Tutto ciò non è così facile, bisogna imparare a tollerare delusioni, ansia, preoccupazioni, tristezza; emozioni che comunque fanno parte dell’esperienza umana. Fare spazio anche alle emozioni negative e non avere pregiudizi su di esse ci permette di vivere la vita nelle sue sfaccettature e non essere spaventati o arrabbiati quando le proviamo.
La terapia ACT, che si basa principalmente su un intervento esperienziale, propone tanti esercizi, tante situazioni in cui mettersi in gioco e tante riflessioni da applicare in maniera pratica. È un viaggio dentro di sé e verso l’altro. La disponibilità a imparare, crescere, adattarsi, abbracciare la realtà (anche quando è spiacevole), mettersi in discussione, affrontare le differenze, ecc., farà in modo che la flessibilità psicologica aumenti e che si possa vivere appieno la propria vita in tutte le sue umane sfaccettature.

Per approfondimenti

“Se la coppia è in crisi.Impara a superare frustrazioni e risentimenti per ricostruire una relazione consapevole”, 2011; Russ Harris, FrancoAngeli

Gottman J., Silver N. (1999), Intelligenza emotiva per la coppia, Milano, Rizzoli

La morte (non esiste più)

di Laura Pannunzi

Le “normali” reazioni al lutto e le possibili complicazioni nel processo di accettazione della perdita

Francesco Bianconi, leader della band toscana Baustelle, nel 2013 scriveva un brano intitolato “La Morte non esiste più”. Con poche ed efficientissime parole, il cantautore senese, rivisita l’idea della morte e riassume tematiche profonde come il processo di accettazione di una perdita.
La perdita di una persona cara rappresenta uno di quegli eventi con cui gli esseri umani sono chiamati a confrontarsi nel corso della loro vita e attivano reazioni che gli psicologi potrebbero definire “disfunzionali e/o patologiche”, se non fossero risposte “normali a eventi eccezionali” (che creano, cioè, una frattura nella vita di una persona).
Ne consegue che, a fronte di eventi di vita “soggettivamente” gravi, la sofferenza e il disagio non appaiono criteri necessari per definire “disfunzionali o patologiche” le reazioni emotive e comportamentali dell’individuo che le sperimenta.
Se è vero che la morte è tra gli eventi classificabili come “normali”, è altrettanto vero che anche la reazione alla morte di una persona cara è tra gli eventi naturali e normali con cui ogni persona si confronta inevitabilmente: per ogni persona che muore, ce ne sono tante altre che soffrono e si trovano a fare i conti con quella che per loro è una perdita più o meno significativa.
Va precisato che il lutto in sé non è una patologia e non lo è neanche l’intensa sofferenza per la scomparsa di una persona cara. Entrando nel vivo del tema in un’ottica cognitivista, è possibile affermare che:

  1. il lutto non è un processo/fenomeno unico;
  2. la sofferenza emotiva e l’elaborazione non sono processi sempre presenti né necessari alla risoluzione;
  3. gli esiti patologici sono funzione (non della mancanza di reazioni necessarie) ma di vincoli e di “reazioni di contrasto” delle reazioni personali, ovvero di credenze personali e aspettative o richieste interpersonali che “creano o aumentano la critica verso i propri vissuti in relazione alla perdita” e ostacolano il cambiamento.

Non esistono quindi reazioni normali e obbligatorie al fine dell’accettazione, anche se appare evidente come il lutto sia un evento “scompensante”, che può mandare in crisi il normale funzionamento psicologico di una persona, attivando delle risposte emotive anche molto intense, e che richiede un cambiamento.
Il lutto comporta, quindi, la necessità di accettare una perdita. L’accettazione è un processo che a sua volta, per definizione, implica la tendenza al rifiuto, intendendo con rifiuto il desiderio del soggetto di credere che la perdita non si sia verificata.
In questo senso, accettare significa prendere atto di qualcosa che non si può far altro che accogliere, togliendo all’evento tutte le connotazioni di “problema” (cosa che implicherebbe una soluzione). Le complicazioni del processo di accettazione nascono, infatti, soprattutto dal trattare la perdita come una questione ancora aperta, passibile di cambiamento.
Alcuni tra i fattori che possono ostacolare il processo di accettazione della perdita sono:

a) gravità: tanto più la perdita  è percepita come significativa tanto più compromette la realizzazione di obiettivi esistenziali  fondamentali per l’individuo;
b) mancanza di sostegno sociale: non avere una rete di aiuto significa non avere persone che possano fornire supporto e sostituirsi, almeno parzialmente, alla persona perduta;
c) indisponibilità degli altri a parlare della perdita;
d) atteggiamenti di censura della manifestazione della sofferenza;
e) aspettative interpersonali e sociali su quelle che dovrebbero essere le reazioni e i comportamenti normali da adottare;

Appare importante, infine, sfatare alcuni miti che possono essersi creati attorno al fenomeno del lutto e considerare il processo di accettazione sia come l’insieme di reazioni a un evento di perdita sia l’esito, ovvero la risoluzione o l’adattamento, cioè la riduzione della sofferenza originata dalla perdita e la ripresa di un funzionamento confrontabile a quello pre-perdita. Per concludere con le parole dei Baustelle: “La Morte non è niente se l’angoscia se ne va”.
Per approfondire

Perdighe C., Mancini F. (2010), Il lutto: dai miti agli interventi di facilitazione dell’accettazione. Psicobiettivo, 30, 127- 146.

La meditazione di consapevolezza e la pratica di accettazione

di Sabrina Bisogno
revisionato da Barbara Barcaccia

 Mindfulness è la traduzione di sati, termine in lingua pali genericamente tradotto in italiano come consapevolezza. Il testo di Henepola Gunaratana “La pratica della consapevolezza in parole semplici” accompagna il lettore nell’approfondimento di uno stile specifico di meditazione, la meditazione vipassana. Questo termine viene da due radici: passana, che significa “vedere”, e vi, che significa “in maniera speciale/in profondità”. La consapevolezza è paragonabile a ciò che osserviamo con la visione periferica, in contrasto con la messa a fuoco della visione centrale.

Secondo Gunaratana consapevolezza è quell’attimo prima che la nostra mente produca pensieri sugli oggetti in esame, quell’attimo prima che la mente dica: “ecco un cane”. È osservazione non giudicante, è la capacità della mente di osservare senza etichettare in “buono/cattivo”, “giusto/sbagliato”. Il meditante osserva, al pari dello scienziato al microscopio, le esperienze così come sono, per quanto possibile senza pre-concetti.

L’autore mette in luce quanto sia complicato spiegare a parole la consapevolezza e quanto lo si comprenda bene solo con la pratica. Chi medita procede, nel tempo, alla coltivazione della consapevolezza o presenza mentale.

La meditazione vipassana è la capacità di ascoltare attentamente, vedere attentamente, gustare attentamente. Ma che cosa si ascolta, si vede, si gusta nella meditazione?

Gunaratana sottolinea che il campo di studio è la nostra stessa esperienza, i nostri pensieri, sensazioni, percezioni. Chi medita, nel tempo, diviene maggiormente capace di osservare, con calma, impulsi, pensieri ed emozioni nel momento in cui si presentano alla mente e diviene consapevole dell’impatto che hanno su di sé. Osservare le esperienze nel momento stesso del loro apparire è sicuramente difficile, stare alla presenza di un’emozione negativa o di un pensiero che ci turba o di una sensazione spiacevole è faticoso. Eppure non è possibile affrontare veramente qualcosa se siamo impegnati a negarne l’esistenza.

È importante accettare di essere spaventati per poter osservare e gestire la nostra paura, così come per la rabbia, la noia, la tristezza, etc. Accettazione intesa proprio come la disponibilità a rimanere presenti, consapevoli, in compagnia di qualsiasi esperienza si manifesti.

Gunaratana fa un interessante collegamento tra consapevolezza e salute mentale. Salute, ci dice, è la capacità di osservare ciò che sta realmente accadendo dentro di noi. Le sue parole aiutano a riflettere su quanto la sofferenza psichica non sia determinata da ciò che esperiamo, dalle emozioni o dai pensieri in sé ma da ciò che ce ne facciamo, dai nostri tentativi di negare, reagire, controllare. Sviluppare la consapevolezza dunque ci permette di comprendere come gli eventi ci fanno sentire, come reagiamo solitamente a essi, e magari aiutarci a trovare nuove strategie, più efficaci, per gestire le difficoltà.

La consapevolezza è un’attenzione “nuda”, osserva qualsiasi cosa così com’è. Mentre il pensiero cosciente “sovraccarica” la nostra esperienza di concetti e idee, la consapevolezza ci allena a cogliere la verità dell’esistenza imparando a vedere il continuo flusso, il movimento continuo e costante del cambiamento.

Il punto di vista della meditazione è che, solo attraverso l’accettazione della realtà delle cose così come sono, per quanto spaventose o dolorose possano essere, cambiamento, crescita e guarigione possono prodursi …”

 

Per approfondimenti:

Henepola Gunaratana, La Pratica della Consapevolezza in parole semplici, trad. it. di Neva Papachristou, Casa Editrice AstrolabioUbaldini Editore, Roma (1995).

Jon Kabat-Zinn, Vivere Momento per Momento, trad. it. A. Sabbadini, Corbaccio editore, 2016.

Verso un nuovo modello di psicopatologia

di Francesco Mancini e Elio Carlo

La sofferenza emotiva umana dipende dalla compromissione di uno scopo personale rilevante: nessun errore logico e nessuna disfunzione cognitiva alla base della psicopatologia

È ancor oggi forte, in ambito cognitivista, l’idea secondo cui la psicopatologia derivi da una incapacità di ragionare secondo i principi della logica formale, a causa di particolari disposizioni intellettive o di vere e proprie disfunzioni di natura organica.

Recenti studi sperimentali mostrano, però, che questa idea è con ogni probabilità falsa: sembrerebbe, infatti, che non esista affatto un vero e proprio modo patologico di ragionare, che gli errori logico formali siano comuni tanto nei soggetti affetti da disordini mentali quanto nei soggetti normali e che il ragionamento logico, nei soggetti con disordini emotivi, sia addirittura migliore che nella popolazione generale, almeno nei domini patologici di riferimento.

Alla luce di queste risultanze sperimentali, nell’articolo “La mente non accettante”, in pubblicazione sul prossimo numero (giugno 2018) di Cognitivismo Clinico, si troverà una spiegazione alternativa della sofferenza patologica, elaborata dagli autori di questo articolo. Il nuovo modello parte dall’idea secondo cui la sofferenza emotiva umana dipende pressoché sempre dalla compromissione di uno scopo personale rilevante.

Quando uno scopo viene compromesso e si soffre, risolvere la sofferenza significa abbandonare lo scopo in questione, constatando che la credenza di poterlo raggiungere è falsa, o che il valore soggettivo dello scopo è cambiato, in misura tale da non giustificare più l’investimento diretto a raggiungerlo o a contenere l’entità della compromissione; ovvero, ancora, che esistono altri scopi rilevanti che sono ancora raggiungibili, e sui quali conviene quindi investire. Questo processo di disinvestimento, e di contemporaneo, eventuale, investimento su altri scopi, è quello che comunemente si chiama “accettazione”.

Secondo i due autori, la psicopatologia nasce per l’appunto da un problema di “mancata accettazione”, causato, in ultima analisi, dalle caratteristiche che il sistema degli scopi personali del soggetto patologico presenta: pochi scopi di importanza esagerata, strettamente collegati tra loro (di modo che comprometterne uno vuol dire comprometterli tutti), vissuti come impegni etici, e formulati in termini negativi.

In accordo con il modello patogenetico chiamato “Hyper Emotion Theory”, in presenza di queste caratteristiche, la compromissione di uno scopo genera una emozione negativa molto intensa, la quale a sua volta dà l’avvio ad un complesso sistema di meccanismi cognitivi ricorsivi (cioè autoalimentati) che, invece di “spegnere” l’investimento e di favorire dunque l’accettazione, lo “amplificano”, generando sofferenza emotiva aggiuntiva.

Abbiamo individuato il principale di questi meccanismi in una strategia di ragionamento, chiamata in letteratura “Primary Error Detection and Minimization” (PEDMIN), tesa a evitare che vengano commessi errori catastrofici e comunemente presente anche nei soggetti “normali” e, con una serie di esempi, in coerenza con più recenti esiti della ricerca, mostriamo come l’applicazione di questa strategia, se da una parte sortisce il risultato di rendere i soggetti affetti da disturbi emotivi particolarmente versati nel loro dominio patologico, dall’altra contribuisce a mantenere e generalizzare la condizione di sofferenza, aumentando l’investimento sullo scopo compromesso e impedendo l’accettazione.

Gli altri fattori ricorsivi individuati e discussi nell’articolo riguardano i safety seeking behaviours, cioè i comportamenti che i soggetti ansiosi mettono in atto per prevenire i pericoli, ma che sortiscono l’effetto di promuovere la disponibilità di dati “minacciosi”, il sunk cost bias, ossia l’errore di valutazione per cui gli investimenti già effettuati aumentano il valore del bene perduto e quindi incrementano la propensione all’investimento su tale bene, e l’ex-consequentia reasoning, cioè il fenomeno per cui elementi soggettivi, come le emozioni, vengono assunti come dati oggettivi.

 

Per approfondimenti:

Friedrich J (1998). Primary Error Detection and Minimization (PEDMIN) strategies in social cognition: a reinterpretation of confirmation bias phenomena. Psycological Review 100, 298-319.

Johnson-Laird P, Mancini F, Gangemi A (2006). A Hyper Emotion Theory of Psycological Illness. Psycological Review, 113, 4, 822-841.

Mancini F (2016). Sulla necessità degli scopi come determinanti prossimi della sofferenza psicopatologica. Cognitivismo Clinico 13, 7-20.

Mancini F, Carlo E (2018). La mente non accettante, in pubblicazione su Cognitivismo clinico 1, 2018.

 

Accettare per realizzare i propri desideri

di Valentina Silvestre e Alessandra Micheloni

 Act in pratica: applicare le procedure dell’Acceptance and Commitment Therapy alla clinica

 Nelle giornate del 25 e 25 novembre 2017, presso la sede della Scuola di Specializzazione di Psicoterapia Cognitiva SPC-APC di Roma, si è tenuto il corso “Act in pratica: applicare le procedure dell’Acceptance and Commitment Therapy alla clinica” a cura della dottoressa Barbara Barcaccia.

Le giornate formative si sono strutturate principalmente in un’ottica esperienziale, in cui i professionisti sono stati coinvolti nella pratica delle procedure ACT a partire dal lavoro sul proprio materiale personale, il modo migliore per apprendere davvero, in “prima persona”, le tecniche proposte. La parte esperienziale è stata poi inserita in una cornice teorica di riferimento, dalla filosofia ACT alla Relational Frame Theory.

L’ACT, terapia di accettazione e di impegno nell’azione, fa parte della terza generazione della terapia cognitivo-comportamentale, e sottolinea in modo particolare l’importanza di due aspetti centrali: l’accettazione di ciò che non si può evitare, e l’impegno a camminare in direzione dei propri desideri e valori. Naturalmente, la riflessione sul tema dell’accettazione ha origine antiche, antecedenti a qualsiasi forma di psicoterapia. Di accettazione, infatti, se ne sono occupate teologia e filosofia, in particolare la filosofia stoica, che proponeva un approccio pratico ai problemi quotidiani delle persone e forniva strumenti concreti per vivere più serenamente, attraverso una serie di regole di condotta e tecniche di meditazione. Una lunga storia, quindi, nella nostra tradizione filosofica Occidentale, che si è incontrata con quella Orientale, e con i recenti sviluppi degli interventi clinici basati sull’accettazione e la mindfulness.

Con l’ACT non si vogliono cambiare i contenuti dei pensieri disfunzionali, ma come ci rapportiamo a essi, imparando a riconoscerli come prodotti della nostra mente. A volte, infatti, tentare di modificare i nostri pensieri negativi e trasformarli in pensieri più funzionali è molto difficile. E tentare di sopprimerli finisce per rafforzarli e farli venire in mente più spesso, paradossalmente, come quando ci intimiamo di non pensare a qualcosa. Anche per le emozioni negative accade qualcosa di simile: più ci impegniamo a evitarle, mandarle via, o anestetizzarle, e più aumentano i problemi, come accade, ad esempio, quando per tentare di non sentire la sofferenza emotiva si ricorre all’uso di una sostanza.

In effetti, più tentiamo di modificare o cacciare via pensieri, emozioni e sensazioni spiacevoli, più aumentano i nostri problemi.  Imparare ad accettare la comparsa di pensieri, immagini mentali, sensazioni ed emozioni, è il primo passo per poter costruire una vita ricca, piena e significativa. Certo, nessuno può aspirare a vivere una vita completamente priva di dolore, senza emozioni o pensieri negativi. L’ACT aiuta le persone ad abbandonare questo obiettivo irraggiungibile, e a mettere in atto tecniche e strategie nuove per riuscire a gestire al meglio pensieri ed emozioni, accettandone la presenza e imparando a navigare al meglio quando il mare è mosso, senza essere travolti dalle onde.

L’identificazione dei propri valori personali è fondamentale, in questa ottica: i valori sono i desideri più profondi del cuore, ciò che davvero vogliamo essere. Una volta messi a fuoco, sarà più facile impegnarsi nel faticoso cammino del cambiamento: i valori diventeranno il motore della terapia, ciò che consentirà al paziente di affrontare con coraggio l’inevitabile sofferenza, in nome della realizzazione di quello che desidera di più bello per la propria esistenza. E come ci ricorda Steve Hayes, non bisogna attendere perché questo cambiamento inizi: “Non c’è motivo di aspettare che la vita cominci. Il gioco dell’attesa può finire. Adesso”.

“Io intanto vado….” La nostra esperienza ad Ancona

di Giulia Paradisi, Sara Di Biase, Rita Scotto e Lisa Lari

“Defuse ed emozionate”, vogliamo condividere alcuni momenti della nostra esperienza al Corso esperienziale “Il processo di accettazione in psicoterapia: procedure cognitive e ACT”.

Il corso, organizzato dalla SIPC, dalla APC e SPC, si è tenuto ad Ancona il 20 ed il 21 Aprile ed è stato condotto dalla Dott.ssa C. Perdighe, dalla Dott.ssa B. Barcaccia e dalla Dott.ssa B. Basile.

Gli argomenti presentati hanno riguardato, in breve, la rilevanza del tema dell’accettazione in psicoterapia e le principali procedure dell’ACT quali la defusione, il contatto con il momento presente, l’accettazione esperienziale, l’individuazione dei valori e la relazione terapeutica. La parte teorica si è alternata alle esercitazioni pratiche in modo fluido e con un “timing” molto appropriato. L’ACT ci è stata presentata come un’insieme di tecniche da poter inserire e integrare, qualora si ritenga opportuno e il caso clinico lo richieda, entro una cornice più ampia che rimane quella della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale. Leggi tutto ““Io intanto vado….” La nostra esperienza ad Ancona”