Non allontanarmi anche se mi ribello

di Giuseppe Grossi

Il potere della relazione come ricetta per il cambiamento

Curioso, il bambino inizia a osservare gli altri, ad apprendere la lingua, a conoscere il mondo. La sua fragilità lo spinge a creare legami e fidarsi dell’altro; ma in alcuni casi si trova di fronte un muro di ostilità e freddezza, di odio e paura; un muro che lo costringe a ripiegare in una dimensione di totale solitudine, al riparo da qualunque contatto umano.

Nel tempo quel bambino, ormai cresciuto, entra nella stanza del suo terapeuta. Il capo coperto dal solito cappuccio, un po’ più basso della fronte, ma troppo poco per mascherare la vergogna; quella vergogna che molti negano, descrivendo il “mostro” oggi poco più che adolescente.
Si siede dopo aver osservato ogni angolo della stanza, in totale silenzio e come fosse la prima volta. In realtà, nonostante la sua età, è difronte al secondo, terzo o quarto terapeuta della sua vita, costretto questa volta dai genitori, dalla scuola, dai servizi sociali o chissà da quale altra “autorità”. Confessa quella promessa fatta ai genitori, spesso assurda e impossibile, accettata come moneta di scambio per la “sua” seduta dallo psicologo, quella che dovrebbe ancora una volta renderlo migliore, accettabile. Con voce ferma e beffarda si racconta: “Sono qui solo per ottenere quello che mi hanno promesso, solo pe’ fare contenta mia madre… Non tornerò”.

Subito dopo inizia un lungo silenzio. “Sdraiato” sulla sedia continua a giocare con un filo della sua maglia, resa quasi uno straccio, mentre nella sua mente inizia la ricerca di tutte quelle “scuse” che potrebbero giustificare l’ultimo dei tanti litigi, aggressioni o atti di ribellione. Improvvisamente, nella fantasia del paziente, si susseguono gli scenari peggiori e il terapeuta in quel momento riesce a percepire e ascoltare il suo desiderio di sentirsi al sicuro, di non sentirsi disprezzato, inadeguato, ancora una volta allontanato e rifiutato.

Tra lunghi sguardi e parole non dette, il solo respiro spezza il silenzio di uno spazio sempre più freddo, in cui forte si sente la puzza del sospetto. Un ambiente tanto familiare al paziente ma non sempre al suo terapeuta che a fatica riesce ad ascoltare e a rispondere alla sua domanda: “Mi posso fidare?”.
Così, tra continue provocazioni, durante la sua terapia, il ragazzo parla d’ingiustizia e di valori; di una morale che il terapeuta, disarmato, fatica a integrare con i suoi comportamenti. Racconta della sua famiglia, di una educazione rigida, di un luogo fatto di tante regole; troppe, a differenza di come molti pensano. Un luogo in cui si generano gli incubi peggiori.
Parla della colpa di non riuscire a sentirsi degno, meritevole, e della fatica nel seguire un ordine e un rigore per tanti semplice e naturale. E così, ridotto a un assemblaggio di etichette cucite male (pazzo, tossico, antisociale, terribile), il nostro bambino nato buono diventa il “mostro”, colui che non sa e non può mettersi al posto degli altri, che non prova colpa ed empatia; egoista, manipolatore e insensibile.

Chi non avvertirebbe forte una spinta al rifiuto, lasciando quel bambino solo al proprio destino e ai sui sensi di colpa? Chi può avere la forza di leggere nei sui comportamenti un tentativo di riparazione, forse il desiderio di mettere tutto in discussione, e non solo la dimostrazione della sua imperfezione? Chi accetterebbe la “condanna” di conoscere quel bambino, superando le sue provocazioni e regalandogli uno spazio sicuro in cui raccontarsi e cucire le ferite di una relazione malata?

Ricordo le parole del mio “maestro” durante il corso per diventare psicoterapeuti: “Chi di voi è disposto a passare un’ora del suo tempo con una persona che lo provoca, che non gli sta simpatica, che non ha nulla di interessante da dirgli, che forse ritiene poco intelligente e magari non stima?”. A volte, tra tecniche, protocolli e modelli, dimentichiamo la forza e il potere della relazione, che oltre a essere un fattore aspecifico nella terapia, può essere un elemento specifico del cambiamento.

Il bene pubblico e il male nascosto

di Roberto Petrini

Quando la paura si trasforma in aggressività e l’altro diviene un rivale

La paura è il più grande inibitore del comportamento altruistico e orienta le condotte verso la violenza. Questo sentimento, che orienta i processi di valutazione e di decisione, è sfruttato ad arte da chi vuole ottenere dalla massa un certo tipo di comportamento. Si accresce, con i mass media, una specifica paura, per poi far accettare una soluzione predeterminata; è noto che si accetta più facilmente una riduzione della propria libertà per avere in cambio una maggiore sensazione di sicurezza.

In situazione percepite come incerte e urgenti, si cerca di agire velocemente anche a discapito della completezza d’informazioni, la ragione passa in secondo piano, la paura si trasforma in aggressività, l’altro diviene un rivale.

Arriviamo a convincerci che il male certo è preferibile a un bene incerto, un bene che qualora non si realizzasse, porterebbe a un dolore superiore rispetto alla prospettiva conosciuta di un male noto.

Se un comportamento perdura attraverso le epoche geologiche, significa che è al servizio della sopravvivenza della specie che ne è depositaria.

Negli animali l’aggressività ha la funzione di selezionare i migliori, gli consente di riprodursi di più, di regolare la gerarchia all’interno dei gruppi, serve alla conquista e alla difesa del territorio. I contendenti, nell’aggressività ritualizzata, convengono però nel non superare certi limiti: il lupo schiena l’avversario ma non lo morde mai alla gola, il cervo non colpisce mai il fianco dell’avversario ma si scontra solo frontalmente. L’animale più violento in natura sembra però quello più vicino a noi, cioè la scimmia, e come l’uomo ha poca pietà per i suoi simili.

Nelle situazioni conflittuali prevalgono egoismo e paura e, di norma, diminuiscono fiducia e altruismo; ma anche se sottoposti a condizioni che incutono paura, esiste sempre la possibilità di fare una scelta di libertà e andare oltre se stessi verso qualcuno da amare, verso un compito da compiere. L’altruismo prospera in un clima di fiducia e stima. La cooperazione non è mai stabile ed è influenzata dall’immagine che l’altro ha di noi, di quella parte che spesso non accettiamo né vediamo.

Quando sono in gioco risorse comuni, ognuno deve fare la propria parte per salvare il mondo, il bene ha una dimensione pubblica, il male deve rimanere nascosto: se è reso noto, esso non può non essere perseguito.

In tempi brevi l’egoismo sembra pagare, poiché si affianca bene all’atteggiamento indolente dove si ottiene il massimo con il minimo sforzo.

Il tempo fugge: dimostriamo e impieghiamo il nostro potere di bene senza rimandare, più la vita è sprecata e povera più è alta l’angoscia di morte.

Fare del bene offre vantaggi anche al donatore, aumenta la percezione di sicurezza, inibisce i sensi di colpa, fa superare i sentimenti d’invidia, dà ottimismo.

L’altruista ha un potere e intende usarlo, si percepisce come efficace nell’affrontare e portare a termine un compito specifico; rifiutarsi di agire significa, per lui, collaborare con situazioni che in fondo condanna.

L’altruismo ha bisogno di essere educato e non può essere ingenuo! L’idealista deve essere realista e disilluso, consapevole delle fragilità umane. Il premio sarà il passare oltre se stessi e dimenticarsi per poi incontrare un significato da realizzare o qualcuno da amare.

Per approfondimenti:

“Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita” di G. Cucci. Cittadella Editrice. 2015

“Logoterapia e analisi esistenziale” di V. Frankl. Editore Morcelliana. 2005

Comportamenti devianti in adolescenza

di Miriam Miraldi

Empatia e ragionamento morale prosociale nei giovani offenders e non-offenders

I comportamenti devianti in adolescenza sono da sempre oggetto di studio delle scienze sociali. Tuttavia, se si considerano unicamente i fattori sociali (es. stili genitoriali, contesto socio-culturale, ecc.), si riesce a spiegare solo in parte il comportamento aggressivo. Senza dimenticare tali variabili sociali, appare dunque più opportuno includere anche i processi cognitivi ed emotivi coinvolti.

In un recente studio spagnolo, Llorca-Mestre e colleghi sono partiti da un punto di vista teorico nel considerare quegli studi che evidenziano come l’emotività negativa e la bassa regolazione emotiva predicano comportamenti antisociali e disadattivi. Tra le loro premesse teoriche, gli autori includono anche gli studi sull’empatia e sul ragionamento prosociale. Per quanto concerne l’empatia, essi la considerano una risposta interpersonale che include sia componenti cognitive che affettive: l’empatia cognitiva, o capacità di “mettersi nei panni di”, rappresenta la capacità di comprendere lo stato interiore dell’altro, mentre l’empatia affettiva, o preoccupazione empatica, implica il condividere le emozioni osservate nell’altra persona. Le persone con una maggiore empatia rispondono meglio alle espressioni emotive degli altri; in particolare, la componente affettiva ha un ruolo importante nel controllare/inibire i comportamenti aggressivi e devianti, mentre bassi livelli di empatia correlano con la difficoltà di pensare in astratto e di comprendere la relazione tra causa ed effetto di un evento. Nella ricerca che indaga il rapporto tra empatia e comportamenti devianti, Llorca-Mestre si riferisce a quegli autori, come Eisenberg, che hanno sostenuto l’importanza di includere il ragionamento morale prosociale, definito come il ragionamento che precede la presa di una decisione quando dobbiamo stabilire se attivare o meno un comportamento di aiuto, soprattutto qualora vi sia un conflitto tra l’interesse personale e quello altruistico. Eisenberg ha definito cinque livelli nel ragionamento morale prosociale che si sviluppa durante l’infanzia e l’adolescenza: edonistico, orientato ai bisogni, orientato all’approvazione, stereotipato e interiorizzato (il più “evoluto”, che include il ragionamento basato sull’empatia). I primi sono presenti nella prima infanzia, mentre gli ultimi si sviluppano più tardi, durante l’adolescenza. In generale, il comportamento morale prosociale (aiutare senza la ricerca immediata di una ricompensa) è concettualmente correlato alle emozioni morali, come l’empatia. La ricerca sul ragionamento morale e la devianza sono state per lo più focalizzate sullo sviluppo e sulle diverse fasi del ragionamento morale: i risultati sottolineano che la competenza nel giudizio morale, intesa come livello di ragionamento morale, non è di per sé un fattore predittivo significativo del comportamento deviante in adolescenza; si rivelano più efficaci quegli studi che integrano la componente cognitiva morale (giudizio morale) e quella affettiva morale (empatia), e che analizzano come le componenti empatiche e l’impulsività (o la mancanza di autocontrollo) interagiscano con i diversi tipi di ragionamento prosociale nel predire comportamenti aggressivi o, viceversa, prosociali.

In questa ricerca sperimentale, di natura cross-sezionale, Llorca-Mestre e colleghi, confrontando un gruppo di adolescenti (n=220) con un altro gruppo di adolescenti autori di reato o offenders (n=220), hanno analizzato come processi cognitivi (ragionamento morale prosociale, perspective taking) e processi emotivi (preoccupazione empatica, instabilità emotiva, rabbia di stato e di tratto) interagiscono nell’influenzare le condotte. I risultati mostrano che non ci sono differenze di genere in nessuno dei livelli del ragionamento morale prosociale; tuttavia, come previsto, le ragazze risultano più empatiche dei ragazzi. Analizzando le differenze globali tra i due gruppi, gli offenders mostrano – sebbene in maniera marginale da un punto di vista statistico – livelli più elevati nel ragionamento morale edonistico (mosso dal beneficio personale) e orientato all’approvazione, quando devono decidere se attivare un comportamento di aiuto. Le variabili nelle quali le differenze risultano invece più marcate sono la disregolazione emotiva, la rabbia (stato e tratto) e l’aggressività (fisica e verbale), che sono maggiori nel gruppo dei giovani devianti. Gli adolescenti non-offenders mostrano più alti livelli di empatia (sia cognitiva che emotiva) e di comportamento prosociale. In entrambi i gruppi, il ragionamento morale prosociale ha poco peso nella previsione del comportamento, mentre la rabbia di stato è significativamente associata al comportamento aggressivo negli offenders e l’empatia correla positivamente col comportamento prosociale e negativamente con quello aggressivo; tuttavia, mentre nei non-offenders giocano un ruolo sia la componente affettiva che quella cognitiva dell’empatia, nei devianti, solo la perspective taking (e non la preoccupazione empatica per l’altro), sembrerebbe avere un ruolo protettivo rispetto alla messa in atto di comportamenti aggressivi.

In sintesi, la regolazione della rabbia e lo sviluppo dell’empatia possono essere elementi di rilievo nell’intervento psicoeducativo rivolto ai giovani devianti, atto a favorirne il benessere psicologico e una migliore inclusione sociale.

 

Per approfondimenti

Llorca-Mestre, A., Malonda-Vidal, E., & Samper-García, P. (2017). Prosocial reasoning and emotions in young offenders and non-offenders. The European Journal of Psychology Applied to Legal Context, 9(2), 65-73.

Caprara, G. V., Gerbino, M., Paciello, M., Di Giunta, L., & Pastorelli, C. (2010). Counteracting depression and delinquency in late adolescence. The Role of Regulatory Emotional and Interpersonal Self-Efficacy Beliefs. European Psychologist.

Eisenberg, N. (1986). Altruistic cognition, emotion, and behavior. Hillsdale, Lawrence Erlbaum Associates.

Aggressività in età evolutiva

di Stefania Prevete

 Report del convegno del 22 giugno 2018 a Napoli

 Il 22 giugno scorso, si è svolto a Napoli il Convegno “Aggressività e Psicopatologia in età evolutiva”, organizzato dall’équipe per l’età evolutiva APC/SPC di Roma e dalla sede di Napoli della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC, con l’obiettivo di presentare il Coping Power Program, un intervento specifico per la gestione e il controllo dell’aggressività in età evolutiva.

A dare inizio ai lavori è il dott. Carlo Buonanno, didatta della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva sede di Napoli e Membro dell’équipe per l’età evolutiva APC/SPC di Roma. Il modello di riferimento è il “Contextual social-cognitive model” di Lochman e Wells, un modello ecologico dell’aggressività in età infantile che prevede l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali e attività utili al potenziamento di varie abilità di regolazione della rabbia. Il Coping Power Program viene utilizzato per il trattamento del Disturbo Oppositivo-Provocatorio e del Disturbo della Condotta, con lo scopo generale di aiutare e sostenere i bambini con problemi legati all’impulsività, al difficile rispetto delle regole e a comportamenti aggressivi e prevede una componente dedicata ai bambini e una dedicata ai genitori.

A seguito dell’introduzione di Buonanno, il prof. John Lochman ha presentato i risultati degli studi di efficacia del programma e le modalità per ottimizzarne i risultati. Il professore ha descritto, in particolare, l’influenza dei fattori di rischio sulla riuscita dell’intervento e sullo sviluppo dei comportamenti aggressivi dei bambini con riferimento alle variabili biologiche temperamentali e a quelle legate al contesto familiare, dei pari e sociali. Lochman ha poi illustrato le modalità di messa a punto del programma nella versione di base (34 sedute) e in quella breve (24/25 sedute), che risultano ugualmente efficaci, e ha esaminato la differenza tra l’applicazione del programma in un contesto gdi gruppo o individuale, dimostrandone l’efficacia e sottolineando la maggiore utilità di quello individuale per i bambini che presentano una problematica di disregolazione emotiva superiore. In conclusione, ha accennato alle nuove frontiere del programma: l’estensione a un range d’età differente rispetto a quello solito degli 8/14 anni, l’introduzione di sessioni su internet e l’inserimento di un modulo per la Mindfulness. Insomma: una piattaforma in continuo aggiornamento ed evoluzione.

In chiusura la tavola rotonda, con un dibattito ricco di spunti interessanti sull’influenza dello stile educativo permissivo o restrittivo dei genitori e della coerenza educativa sugli esiti del trattamento, sul possibile effetto dei social e altri media come fattori di rischio e sulla possibilità di introdurre un intervento sul bournout degli insegnanti.

Durante il dibattito, il dott. Muratori, dirigente psicologo dell’ICCS Fondazione Stella Maris di Pisa e docente della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva (SBPC), ha sottolineato l’importante influenza sugli esiti del trattamento degli stili di attaccamento, sia dei terapeuti nella gestione di un gruppo Coping Power sia della coppia genitoriale ed ha evidenziato l’importanza dei moduli del Coping Power per il trattamento dei fattori di rischio più importanti.

Il convegno, oltre che un’occasione formativa di grande rilevanza clinica per le ricadute applicative in vari contesti, è stato un momento introduttivo anche al corso di aggiornamento professionale tenuto dal dott. Muratori e dal dott. Buonanno, rivolto a psicologi, medici, specializzandi in psicoterapia, psicoterapeuti, psichiatri e neuropsichiatri infantili, che si è poi tenuto nel weekend presso la sede di Napoli della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC.

Report dal Convegno “Aggressività e psicopatologia in età evolutiva”

di Stefania Prevete

Il 22 Giugno si è svolto a Napoli il Convegno “Aggressività e Psicopatologia in età evolutiva”, organizzato dall’Equipe per l’età evolutiva APC/SPC di Roma e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC sede di Napoli, con l’obiettivo di presentare il Coping Power Program, un intervento specifico per la gestione ed il controllo dell’aggressività in età evolutiva.

A dare inizio ai lavori è il Dott. Carlo Buonanno, Didatta della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva sede di Napoli e Membro dell’Equipe per l’Età Evolutiva APC/SPC di Roma, che ha introdottoi lavori. Il modello di riferimento è il “Contextual social-cognitive model” di Lochman e Wells (2002), un modello ecologico dell’aggressività in età infantile, che prevede l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali ed attività utili al potenziamento di varie abilità di regolazione della rabbia. Il Coping Power Program viene utilizzato per il trattamento del Disturbo Oppositivo-Provocatorio e del Disturbo della Condotta, con lo scopo generale di aiutare e sostenere i bambini con problemi legati all’impulsività, al difficile rispetto delle regole e a comportamenti aggressivi e prevede una componente dedicata ai bambini e una dedicata ai genitori.

Subito dopo il Prof. J.Lochman ha presentato i risultati degli studi di efficacia del programma e le modalità per ottimizzarne i risultati. Il Prof. ha descritto, in particolare, l’influenza dei fattori di rischio sulla riuscita dell’intervento e sullo sviluppo dei comportamenti aggressivi dei bambini con riferimento alle variabili biologiche temperamentali e a quelle legate al contesto familiare, dei pari e sociali. Il Prof. ha illustrato le modalità di messa a punto del Programma nella versione di base (34 sedute) e in quella breve (24/25 sedute), che risulta ugualmente efficace, e ha esaminato la differenza tra l’applicazione del programma in un contesto gruppale o individuale, dimostrandone l’efficacia e sottolineando la maggiore utilità di quello individuale per i bambini che presentano una problematica di disregolazione emotiva superiore. In conclusione ha accennato alle nuove frontiere del programma: l’estensione a un range d’età differente rispetto a quello solito degli 8/14 anni, l’introduzione di sessioni su internet e di un modulo per la Mindfulness. Insomma una “Piattaforma” in continuo aggiornamento ed evoluzione.

In chiusura la Tavola Rotonda con un dibattito ricco di spunti interessanti sull’influenza dello stile educativo permissivo o restrittivo dei genitori e della coerenza educativa sugli esiti del trattamento, sul possibile effetto dei social e altri media come fattori di rischio e sulla possibilità di introdurre un intervento sul bournout degli insegnanti.

Durante il dibattito, l’intervento del Dott. Muratori, Dirigente Psicologo ICCS Fondazione Stella Maris di Pisa e Docente della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva (SBPC), ha sottolineato l’importante influenza sugli esiti del trattamento degli stili di attaccamento, sia dei terapeuti nella gestione di un gruppo Coping Power che della coppia genitoriale ed ha evidenziato l’importanza dei moduli del Coping Power per il trattamento dei fattori di rischio più importanti.

Il convegno oltre che un’occasione formativa di grande rilevanza clinica per le ricadute applicative in vari contesti è stato un momento introduttivo anche al corso di aggiornamento professionale tenuto dal Dott. Muratori e dal Dott. Buonanno, rivolto a Psicologi, Medici, Specializzandi in Psicoterapia, Psicoterapeuti, Psichiatri e Neuropsichiatri infantili che si è poi tenuto nel weekend presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC sede di Napoli e che si rinnoverà nel prossimo anno.

Tutta “colpa” di Freud e non solo!

di Annalisa Bello

 Un recente studio ha cercato di gettare luce sul ruolo della rabbia e dell’aggressività latente nel Disturbo Ossessivo Compulsivo. Si sarà riusciti nell’impresa?

Da sempre calamitante l’attenzione e la curiosità dei clinici, il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) non ha mancato a solleticare anche la mente freudiana che interpretava la spiccata moralità di questa categoria di pazienti come l’esito di una formazione reattiva a impulsi aggressivi e erotici repressi. Un’aggressività così prorompente da dover essere celata, insomma. In linea con le assunzioni di Freud, alcuni studi riportano punteggi elevati a misure self-report (autosomministrate) di rabbia in soggetti con sintomatologia ossessiva rispetto a quelli di controllo. L’intrigante accoppiata tra la rabbia e il DOC parrebbe assumere particolare rilevanza nella categoria dei checkers (controllori), sebbene le evidenze a tal riguardo sembrino essere contrastanti. All’interno di questo background alquanto confondente, sembrerebbe esserci un imputato: le misure self-report il cui svantaggio sarebbe proprio la scarsa puntualità dei resoconti soggettivi, inficiati ulteriormente da variabili come la desiderabilità sociale. La pensano così Claus e collaboratori che, in uno studio pubblicato su Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry nello scorso gennaio, hanno cercato di gettare luce sull’aggressività latente nel DOC, indagandola attraverso misure più implicite e affidabili, come l’Implicit Association Test (IAT). Gli autori si aspettano, infatti, di confermare la presenza di elevati tratti di aggressività in pazienti DOC rispetto ai controlli. A tal fine, hanno reclutato 58 pazienti con DOC e 28 partecipanti sani i quali, dopo un’iniziale fase di valutazione, atta a validare la diagnosi di DOC, erano chiamati a svolgere il compito sperimentale. Nella fattispecie, i partecipanti allo studio erano chiamati a svolgere un compito di doppia categorizzazione veloce di stimoli appartenenti a quattro categorie: ogni soggetto doveva associare, in tempi rapidi, parole non aggressive a se stesso e parole aggressive alla categoria “altro”; poi le coppie venivano invertite e la categorizzazione era in termini di “io/aggressivo” contro “altri/non aggressivi”.

Sorprendentemente per gli autori, i pazienti con DOC palesavano una rappresentazione di sé meno aggressiva rispetto ai controlli, come confermato ulteriormente dal pattern di correlazioni negative tra il test che misurava la sintomatologia ossessiva e il compito sperimentale, in linea con la fetta di letteratura che, ricorrendo a misure self-report, non aveva osservato il freudiano connubio tra aggressività e DOC. Le inaspettate risultanze hanno messo alla prova gli autori che hanno posto una riflessione: se da un lato la “scomoda” evidenza potrebbe essere dovuta a una differenza tra l’appraisal (valutazione) personale sull’aggressività dei pazienti ossessivi rispetto a quelli di controllo, dall’altro la chiave di volta, secondo Claus e collaboratori, risiederebbe nel senso di responsabilità inflazionata tipica del DOC, che porterebbe i pazienti a neutralizzare con le compulsioni i pensieri ossessivi associati a dannosità per sé o per gli altri. In tal senso, la rabbia e l’aggressività sarebbero gli esiti di un’opera di neutralizzazione non pienamente riuscita. O, ancora: l’aggressività del DOC potrebbe essere più congrua con concetti relati a un pattern più covert (non manifesto) e non esplicito come quello ritratto dalle parole target utilizzate nel compito. Oppure potrebbe essere che, sempre a detta degli autori, il medesimo senso di responsabilità inflazionata abbia portato i pazienti ossessivi ad aderire responsabilmente alla consegna sperimentale di svolgere il compito correttamente e nel minor tempo possibile.

Non resta che chiedersi: ma perché stupirsi tanto? Non risiede forse altrove il nucleo psicopatologico del DOC?