Assessment e Cognitivismo

di Anna Chiara Franquillo (SPC sede di Grosseto)

Il ruolo degli scopi e degli antiscopi nella concettualizzazione del paziente.

Più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio: assessment e trattamento dei disturbi di personalità è il nome del simposio che, al XXI Congresso Nazionale SITCC di Bari, ha ospitato un lavoro molto interessante, oltre che innovativo, sul ruolo degli scopi e degli antiscopi all’interno della prospettiva cognitivista. Perché è centrale comprendere la concezione scopo/antiscopo all’interno della psicopatologia? Giuseppe Femia, insieme ad un nutrito gruppo di ricerca composto dai colleghi Isabella Federico, Andrea Gragnani, Francesca D’Olimpio, Guyonne Rogier, Roberto Lorenzini e Francesco Mancini, ha risposto ad un interrogativo così importante e cruciale attraverso un complesso studio, che si è posto l’obiettivo di sottolineare quanto l’iperinvestimento sugli scopi e gli antiscopi, oltre che la rigidità, la pervasività e persistenza degli stessi, possano costituire un nucleo centrale di sofferenza soprattutto in relazione a manifestazioni psicopatologiche come i disturbi di personalità.
Ma… andando per gradi… che definizione potremmo dare alla concezione di goal e antigoal?
Potremmo parlare di entrambi differenziandoli in stato desiderato e stato temuto, come qualcosa, cioè, da raggiungere e da evitare ad ogni costo, all’interno di una rappresentazione individuale in cui questi si strutturano nel tempo e costruiscono il modo in cui la persona si muove nel mondo. Sulla base di ciò, l’obiettivo dello studio era proprio quello di osservare se fosse maggiore l’iperinvestimento degli scopi/antiscopi in un campione clinico rispetto al gruppo di controllo e a quello di psicoterapeuti in formazione, e se l’iperinvestimento si associasse a maggiore disagio e sofferenza. È stato costruito, pertanto, uno strumento ad hoc chiamato Strumento Scopi- Antiscopi (S-AS) in grado proprio di cogliere sia attraverso domande qualitative, che quantitative, oltre che con l’utilizzo di una checklist di emozioni, l’architettura scopistica dell’individuo. Questo strumento vanta la sua costruzione sulla base di una grande pratica clinica, oltre che su un confronto attivo con i colleghi in grado di fornire stimoli e spunti di riflessioni secondo la prospettiva cognitivista. Quello che emerge è che il gruppo clinico, rispetto al gruppo di controllo e quello degli psicoterapeuti in formazione, ottiene punteggi più alti rispetto alla scala del prestigio interpersonale, a quella dell’instabilità psicologica e quella dell’esclusione sociale, del perfezionismo, dell’autosacrificio dell’identità e, infine, della fiducia. Queste considerazioni statistiche supportano la concezione iniziale teorica che fonda le basi dello studio e fornisce delle prime osservazioni sull’importanza di tale strumento all’interno dell’assessment cognitivista. L’utilizzo di tale strumento si rivela fondamentale poiché, se l’assessment è ben fatto e riesce a cogliere le specifiche dell’individuo attraverso la formulazione degli scopi e antiscopi che lo muovono nel rapporto con sé e con il mondo esterno, allora anche la strutturazione del trattamento può diventare mirata e ben focalizzata sulla persona, sui suoi personali significati e rappresentazioni. Un buon trattamento non può esistere se prima non si è fatto un buon assessment. Per questo, ampliare la prospettiva cognitivista di uno strumento come il S-AS può diventare un plus valore sia per i pazienti che per i terapeuti stessi, i quali si troveranno ad accedere in maniera più agevolata al paziente e ai suoi contenuti più profondi, costruendo di conseguenza interventi sia mirati che accurati.

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Più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio

di Augusta Luana, Bartolo Emmanuela, De Santis Giuseppe, Lavilla Federica (centro clinico Ecopoiesis Reggio Calabria)

Assessment e disturbi di personalità

Il XXI Congresso Nazionale SITCC è stato il teatro, nella sede mediterranea di Bari, di un simposio sull’assessment, con chair il Dott. Andrea Gragnani e la Dott.ssa Donatella Fiore nel ruolo di discussant, ricco di interventi che hanno sintetizzato al meglio gli obiettivi di ricerca e di impegno sociale propri della psicoterapia cognitiva: più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio: assessment e trattamento dei disturbi di personalità.

Già il titolo introduce l’importanza di considerare la valutazione iniziale con il paziente come una guida imprescindibile per il clinico, finalizzata a una migliore gestione dell’intervento terapeutico e orientata a scegliere il miglior trattamento possibile. Per procedura di assessment intendiamo infatti l’operazione di valutazione che ha inizio al momento del primo contatto con il soggetto, e che prosegue durante tutta la durata della terapia (Bara, 2006).

Nella prima relazione, dal titolo “Assessment terapeutico” e drop-out nei pazienti complessi, il Dott. Gaetano Mangiola (Centro Clinico Ecopoiesis, Reggio Calabria) ha indagato l’efficacia di anteporre al trattamento dei pazienti con disturbi di personalità una fase iniziale di assessment standardizzato, in linea con il Therapeutic Model of Assessment TMA (Finn, 1998).

La procedura di assessment dell’Associazione Ecopoiesis prevede un primo colloquio clinico semi-strutturato per analizzare il motivo della visita; due incontri dedicati all’intervista SCID-5-PD, alla somministrazione di una batteria di test (MMPI-2, PID-5, LPFS, SCL-90, TAS-20, ASQ e IIP-47) e all’approfondimento di un questionario anamnestico; un ultimo incontro di restituzione al paziente del suo funzionamento in ottica cognitiva e di una proposta terapeutica.

Ciò che in genere si osserva è che, al termine dell’incontro di restituzione, nel paziente avviene un processo di insight rispetto al proprio funzionamento, con un aumento della fiducia e della motivazione al trattamento che migliorano l’alleanza terapeutica (Sartori, 2010) e favoriscono di conseguenza un outcome migliore.

Partendo da questa ipotesi, il lavoro si è proposto di confrontare i dati relativi al drop-out del campione di 484 soggetti con disturbi di personalità a disposizione del Centro Clinico con quelli presenti in letteratura, ipotizzando che il modo in cui la procedura di assessment è strutturata riduca la percentuale di drop-out dei pazienti complessi.

Effettivamente, i risultati della ricerca hanno mostrato come l’assessment sembri avere un effetto positivo in termini di riduzione del drop-out dei pazienti con disturbi di personalità, in particolare del cluster B, soprattutto con diagnosi di tipo narcisistico e borderline. Inoltre, i pazienti che effettuano una procedura standardizzata di assessment comprensiva di un incontro di restituzione hanno un outcome migliore rispetto ai dati presenti in letteratura, e presentano anche un tasso di drop-out significativamente più basso rispetto ai pazienti che non effettuano una procedura standard di valutazione.

A seguire il Dott. Giuseppe Femia, con l’iper-investimento su scopi e la psicopatologia: quale relazione?, ha presentato lo strumento Scopi-Antiscopi (S-AS, Femia et al., 2021), ancora in fase di validazione, che sembrerebbe essere in grado di indagare scopi e antiscopi dei pazienti.
Dal punto di vista clinico, l’utilizzo dello strumento potrebbe cogliere l’architettura scopistica, agevolando così il lavoro di assessment e offrendo un supporto per lo sviluppo dell’alleanza terapeutica, oltre che per una progettazione mirata dell’intervento.

Cornice teorica alla base dello studio è che la mente degli esseri umani non si limita a credere e sapere, ma crea anche rappresentazioni di ciò che vuole – gli scenari desiderati o scopi – e ciò che non vuole – gli scenari temuti o antiscopi (Saliani et al., 2020). Dunque, la psicopatologia e, più specificamente, i disturbi di personalità, oltre che da caratteristiche di rigidità degli investimenti, pervasività e persistenza che portano allo svilupparsi di un piano esistenziale povero che genera sofferenza e resistenza al cambiamento, sembrano essere propriamente caratterizzati anche da un iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi.

Lo studio condotto ha quindi voluto esplorare la struttura fattoriale dello strumento S-AS e la relazione che intercorre tra i diversi fattori del S-AS e i domini della personalità. A tal fine ad un campione di 572 soggetti, suddivisi in tre gruppi: popolazione generale, gruppo clinico e psicoterapeuti in formazione, resi omogenei per età e per genere, è stato somministrato lo strumento S-AS, questionario composto da un elenco di 20 scopi e 20 antiscopi. Inoltre, ipotizzando che il gruppo clinico avesse risultati più elevati rispetto agli altri due gruppi, si è voluto valutare se ci fossero differenze tra i tre gruppi in termini di iperinvestimento (su scopi e antiscopi) e se un maggior iperinvestimento fosse associato ad un aumento dei punteggi in termini di sofferenza e disagio percepiti. Per tale obiettivo, ad un sotto-campione di 327 soggetti è stato chiesto di compilare ulteriormente il PID-5 e la SCL-90-R.

Le analisi fattoriali hanno mostrato una struttura del S-AS a 8 fattori: Prestigio interpersonale, Instabilità psicologica, Esclusione sociale, Perfezionismo, Difettosità, Autosacrificio, Identità e Fiducia. Tali fattori saranno quindi oggetto di approfondimento nelle ricerche future.

I dati ottenuti si sono rivelati efficaci nel supportare il clinico in maniera rapida e al contempo accurata nel processo di assessment e di successiva pianificazione del trattamento, «mappando» quelli che sono i temi di vita e, nello specifico, gli scopi e gli antiscopi iperinvestiti nei pazienti.  Le analisi correlazionali, invece, tra i punteggi del S-AS e dei domini del PID-5 e tra i punteggi del S-AS e della SCL-90-R sembrerebbero confermare le ipotesi iniziali. I risultati ottenuti, ad eccezione del quinto fattore, suggerirebbero, dunque, una relazione tra tratti e domini di personalità maladattivi e iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi. Inoltre, sembrerebbe che all’aumentare dell’iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi aumenterebbe anche la sofferenza sintomatologica e l’indice di distress generale (Global Severity Index), confermando, di fatto, la relazione tra iperinvestimento e psicopatologia.

Nella terza relazione, dal titolo MMPI-2 e PID-5 a confronto: scale cliniche e funzionamento della personalità mediante un caso clinico, il Dott. Emanuele Del Castello si è proposto l’obiettivo di dimostrare la capacità dell’MMPI-2 di delineare il profilo di funzionamento della personalità tramite l’utilizzo di una lettura sia di tipo clinico-categoriale che di tipo dimensionale.

Esaminando l’MMPI-2 è possibile riscontrare due livelli: il livello statistico attuariale (Scale Cliniche e alcune Scale Supplementari) e il livello di contenuto (Scale di Contenuto, Sottoscale Cliniche e Item Critici). Entrambi i livelli permettono di costruire una rappresentazione complessa e articolata del funzionamento della personalità, essenziale ai fini diagnostici e clinici. Per favorire l’integrazione tra questi due livelli è possibile applicare una tecnica di aggregazione dei dati che viene definita Psicodiagnosi Strutturale (Del Castello, 2015): una metodologia che permette al clinico di far convergere i dati provenienti dai vari strumenti di indagine, clinici e testologici, nelle varie aree del funzionamento mentale del paziente, contribuendo, in tal modo, a costruire un quadro ordinato e pertinente degli aspetti problematici e anche dei punti di forza del paziente in oggetto.

Mediante l’analisi di caso clinico, è stato possibile osservare come, mettendo a confronto i domini emersi nel PID-5 e le Scale PSY-5 dell’MMPI-2, ci sia un pieno grado di accordo e una piena corrispondenza tra le dimensioni del DSM-5 presenti nel PID-5 (Antagonism, Psychoticism, Disinhibition, Negative affectivity e Detachment) con il modello PSY-5 dell’MMPI-2 (Aggressiveness, Psychoticism, Disconstraint, Negative emotionality neuroticism, Introversion/low positive emotion). In tal modo è stato possibile dimostrare come l’MMPI-2 sia perfettamente in grado di valutare clinicamente il funzionamento della personalità secondo i criteri dimensionali previsti dal DSM-5-TR (APA, 2023) e dal modello alternativo sui Disturbi della Personalità (Sezione II del DSM-5-TR).

Nell’ultimo contributo del simposio, dal titolo Il ruolo della noia come emozione cruciale nel funzionamento di alcune dimensioni personologiche, la Dott.ssa Anna Chiara Franquillo ha approfondito la relazione tra la noia e alcuni tratti di personalità, indagando le ricadute di tale associazione sul distress psicologico.

Sulla base dei dati presenti in letteratura sembra infatti che la noia, descritta come uno stato affettivo specifico caratterizzato da diverse componenti tra cui basso arousal, mancanza di attenzione, valenza negativa, una percezione amplificata del tempo e una sensazione di mancanza di scopo esistenziale, correli positivamente con il tratto di personalità del nevroticismo, caratterizzato da ansia, preoccupazione, instabilità emotiva e generale insicurezza (Mercer-Lynn, 2013; Tam et al., 2021) e sia presente in soggetti affetti da Disturbo Borderline di Personalità (DBP) (Masland et al., 2020) e da Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) (Wink and Donahue, 1997).

Sulla base di tali premesse, il lavoro di ricerca si è proposto di approfondire la relazione tra la noia di stato e la psicopatologia generale, ipotizzando che la relazione con la sintomatologia depressiva fosse più forte che con altre condizioni psicopatologiche, e di comprendere la relazione tra la noia e i tratti di personalità, ipotizzando una forte relazione tra questi due costrutti.

Lo studio è stato condotto su un campione di 588 italiani adulti appartenenti ad una popolazione generale, cui sono stati somministrati, tramite una survey online, due strumenti di valutazione: il MSBS per la noia e il PID-5 per la valutazione dei tratti di personalità, in accordo con il modello dimensionale proposto dal DSM-5.

I risultati hanno mostrato un’interessante associazione tra la noia e il distress psicologico, in particolar modo con la depressione, e tra la noia e alcune tendenze personologiche, considerate tratti, come l’affettività negativa e il distacco. In merito a quest’ultimo aspetto, sembra sia proprio la depressione a giocare un ruolo cruciale nel mettere in relazione la noia con tratti di personalità come il nevroticismo e il distacco.

Sulla base di tali osservazioni, seppur riscontrabili all’interno di un campione non clinico, è possibile affermare che la noia sembrerebbe essere un vissuto centrale e trasversale ad alcuni tratti strutturanti la personalità, oltre che a diverse condizioni sintomatologiche che causano sofferenza. Lo studio della noia offre, dunque, interessanti spunti di riflessione clinica sia in termini di assessment che di intervento cognitivo-comportamentale. Esso contribuisce, infatti, ad una più ampia comprensione degli stati mentali problematici e alla costruzione di nuovi modelli di trattamento specifici indirizzati verso la gestione di questa emozione.

Senza alcun dubbio, potrebbe rivelarsi interessante orientare gli sviluppi futuri di tale lavoro verso un’osservazione del costrutto su un campione specificatamente clinico, integrando ulteriori analisi ed eventuali strumenti di valutazione al fine di approfondire la relazione tra le variabili e il loro effetto.

Il simposio preso in esame ha avuto, in conclusione, il merito di confrontare e far comunicare contributi e punti di vista differenti, dimostrando ancora una volta l’importanza di integrare le varie chiavi di lettura volte ad osservare i processi implicati nella valutazione della psicopatologia della personalità, per una sempre più profonda conoscenza e valutazione del funzionamento mentale.

Foto di Amine M’siouri : https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-che-cammina-sul-deserto-2245436/

I nostri casi clinici su Mind

di Federica Russo

Si chiude il filone dei casi clinici del ciclo “psicopatologia dell’età adulta” pubblicati sulla rivista di divulgazione scientifica Mind-Mente e cervello.
“La donna dalle mille vite”, “Il dubbio amoroso una perversa ossessione”, “Voglio solo farmi male” e “Antonio: solo sulle montagne russe”: sono i titoli degli articoli pubblicati sulla rivista, a cura degli psicoterapeuti cognitivo comportamentali Cecilia Laglia, Giuseppe Femia, Rosa Vitale e Federica Russo, coordinati dal lavoro di Cinzia Sgheri e supportati dalle illustrazioni di Stefano Fabbri.
Gli articoli finora pubblicati, sottoposti alla supervisione dello psicologo e psicoterapeuta Andrea Gragnani, approfondiscono tematiche della psicopatologia clinica adulta. I casi spaziano nell’eterogeneità delle psicopatologie comunemente incontrate nei percorsi di psicoterapia, che spiccano per peculiarità.
Di seguito i link degli articoli finora pubblicati.

La donna dalle mille vite

Cecilia Laglia e Andrea Gragnani

Quando mancano aspetti fondamentali dell’infanzia, come senso di sicurezza e accudimento amorevole, si può arrivare a soffrire di disturbo istrionico di personalità (DSM-5), che si caratterizza per un’emotività pervasiva ed eccessiva e per un comportamento marcato di ricerca di attenzioni e approvazione da parte degli altri.
https://www.lescienze.it/mind/articoli/2020/06/26/news/la_donna_dalle_mille_vite-4748702/

Rossella è una persona incapace di aprirsi a una vera intimità, tendenzialmente solitaria e caratterizzata da un pervasivo vissuto di profonda e incolmabile solitudine; un panorama desolato in cui nessuno pare conoscerla e amarla abbastanza e in cui albergano una “ferita di invisibilità” e una sensazione di vuoto affettivo che la fanno sentire sempre insoddisfatta e mai appagata dalle relazioni sentimentali e sociali.

Il dubbio amoroso una perversa ossessione

Giuseppe Femia e Andrea Gragnani

Sebbene sia innamorato della sua compagna, il signor A. è ossessionato dai dubbi. Colpa di un disturbo ossessivo-compulsivo che ha origini lontane.
https://www.lescienze.it/mind/articoli/2020/12/30/news/il_dubbio_amoroso_una_perversa_ossessione-4861163/

Il signor A.  riferisce frequenti pensieri intrusivi rispetto alla sua storia amorosa con Alice, sua compagna da oltre 5 anni. Spesso si chiede: “Sto facendo la scelta migliore? E se stessi sbagliando? Mi piace realmente? Ma è davvero così bella?”. Si tratta di una forma di disturbo ossessivo-compulsivo in cui il cuore del disagio del paziente si caratterizza per la presenza di ossessioni indesiderate rispetto alla relazione affettiva e si manifesta con la paura di commettere errori di valutazione, di essere responsabile della sofferenza del partner o di potersi rovinare la vita in una relazione infelice.

Voglio solo farmi male

Rosa Vitale e Andrea Gragnani

Elettra si sente sola. Da tutti si è sentita sfruttata e tradita. E questo pensiero le provoca nausea e odio, verso gli altri e verso se stessa.

https://www.lescienze.it/mind/articoli/2021/06/26/news/voglio_solo_farmi_male-4939648/

Elettra ha 33 anni e un grande vuoto dentro. Per tutta la vita si è sentita sola, incompresa e tradita e oggi quel dolore così antico sembra non darle pace. Questo pensiero le provoca odio e disgusto verso gli altri e verso sé stessa. Il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da un quadro di l’abilità affettiva, impulsività, instabilità delle relazioni interpersonali e dell’immagine di sé.

Antonio: da solo sulle montagne russe

Federica Russo e Andrea Gragnani.

“Malato” di lavoro e incapace di gestire la tristezza, Antonio alterna stati di iperattività a fasi depressive. La sua è una diagnosi di disturbo bipolare.

Antonio si sveglia alle sei tutte le mattine. Fin da subito i pensieri si accavallano nella sua mente e ha la smania di cominciare la giornata e mettersi all’opera. Nonostante le ore di sonno siano diminuite, non si sente stanco né affaticato. Non vuole fermarsi o forse non ci riesce. Ma poi arriva la tristezza e la sofferenza si palesa in maniera disarmante. Antonio smette di condividere la sua solita immagine vincente con il mondo, si isola, non riesce a reagire e non ha la forza di fare nulla.

Il prossimo argomento affrontato sarà la psicopatologia dell’età evolutiva. Anche in questa occasione ci si concentrerà su casi clinici che spiccano per la particolarità della sintomatologia presentata o per la frequenza di casi in cui ci si imbatte durante la pratica clinica.

Nuovo approccio al senso di colpa

di Redazione

La ricerca degli esperti della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) pubblicata sulla rivista dell’International Society for the Study of Individual Differences

Moralità e senso di colpa possono essere visti come due facce della stessa medaglia: la colpa è il risultato emotivo di un conflitto tra il nostro comportamento e la moralità che abbiamo interiorizzato in relazione al contesto e alle esperienze di vita. È quanto emerge da una ricerca condotta nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) diretta dal neuropsichiatra Francesco Mancini. La ricerca è stata coordinata dalla dottoressa Alessandra Mancini e i risultati sono stati pubblicati nell’ultimo numero di Personality and Individual Differences, la rivista accademica ufficiale dell’International Society for the Study of Individual Differences (ISSID), edita da Elsevier.

Secondo il “Modello intuizionista sociale del giudizio morale” dello psicologo statunitense Jonathan Haidt, la moralità è concettualizzata come multidimensionale e costituita da cinque fondamenti morali: danno/cura, che riguarda la sensibilità alla sofferenza e alla crudeltà; imparzialità/reciprocità, che si concentra sulla necessità di giustizia; associazione/lealtà, che implica cooperare e fidarsi del proprio gruppo; autorità/rispetto, che ha a che fare con la valorizzazione dell’obbedienza e del dovere; purezza/santità, che include il disgusto per la contaminazione e riguarda coloro che non riescono a superare i loro impulsi di base.

Le varie culture rispettano questi principi in modo diverso. A un livello più individuale, valori e ideali hanno un ruolo centrale e definiscono l’identità di una persona, motivandola a comportarsi coerentemente con essi. Poiché è accertato che le emozioni negative segnalino la percezione di una discrepanza tra la realtà e le convinzioni e gli obiettivi individuali, le emozioni morali potrebbero funzionare come allarme di una divergenza tra la moralità interiorizzata degli individui e la rappresentazione morale nella società.

In particolare, la colpa è stata definita come “sensazione disforica associata al riconoscimento che si ha violato uno standard morale o sociale personalmente rilevante”. Tuttavia, ci possono essere differenze individuali rispetto a ciò che è “personalmente rilevante”.

Nella convinzione che riconoscere diversi tipi di sensi di colpa rappresenterebbe un passo importante nella ricerca, nello studio Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, gli autori hanno creato uno strumento valido e affidabile – la Moral Orientation Guilt Scale (MOGS) – in grado di misurare in modo indipendente diversi tipi di sensi di colpa, testandolo su un ampio campione subclinico al quale sono stati sottoposti test classici e innovative tecniche di analisi.

L’obiettivo era di evidenziare diversi tipi di sensi di colpa riflessi nei valori morali interiorizzati dagli individui. Questo approccio di convalida incrociata ha indicato quattro fattori di colpa: “violazione delle norme morali”, “sporco morale”, “empatia” e “danno”. Se i primi due fattori sono risultati correlati positivamente con la sensibilità al disgusto, supportando il legame tra disgusto e colpa deontologica, il fattore “danno” è risultato correlato negativamente con i punteggi di sensibilità al disgusto, in linea con l’idea che l’altruismo e il disgusto si siano evoluti come parte di sistemi motivazionali contrastanti.

Dagli esiti dell’indagine è emersa dunque la distinzione tra sentimenti di colpa che attengono alla moralità deontologica e sentimenti di colpa che riguardano la moralità altruistica.

Per scaricare l’articolo

Mancini A., Granziol U., Migliorati D., Gragnani A., Femia G., Cosentino T., Saliani A.M., Tenore K., Luppino O.I., Perdighe C., Mancini F., (2022), Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, Personality and Individual Differences, 189

 

 

Foto di EKATERINA BOLOVTSOVA da Pexels

Errare humanum est

di Giuseppe Femia e Andrea Gragnani

Quando i bias di ragionamento appartengono allo psicoterapeuta

Nella pratica clinica accade spesso di soffermarci sulle emozioni che ci suscitano i nostri pazienti: osserviamo la rabbia, la colpa, la vergogna, l’ansia, la tristezza o la gioia che evocano in noi e siamo allenati a comprenderli all’interno di una cornice teorica di riferimento. In qualche modo, le nostre emozioni sono come dei grandi evidenziatori che sottolineano la peculiarità delle nostre reazioni a quel paziente in quel momento specifico della terapia; esse ci portano a meta-riflettere sulla relazione terapeutica. Lo stesso non si può dire dei processi di ragionamento e, in particolare, dei nostri bias cognitivi che tendiamo a non conoscere e/o a sottovalutare. Un monitoraggio di tali errori di ragionamento, che spesso attiviamo in modo inconsapevole durante le sedute di psicoterapia, potrebbe invece rivelarsi un utile strumento per il buon esito della psicoterapia.

Talvolta, attenzioniamo in modo selettivo o arbitrario alcune informazioni che il paziente riporta, leggendole in modo erroneo in linea con alcune delle nostre credenze e conoscenze congrue con il nostro modello di riferimento e con l’inquadramento della problematica raggiunto in una prima fase di assessment.

Riflettere sull’attivazione dei propri bias all’interno della psicoterapia sembra aprire un canale di conoscenza e consapevolezza circa l’impatto di taluni errori di valutazione sul processo di cura. In buona sostanza, anche la nostra organizzazione cognitiva e una plausibile quota di belief disfunzionali si attivano e giocano un ruolo nel lavoro con il paziente. Dunque, seguendo questa linea di osservazione, riflettere circa quelle combinazioni che potrebbero determinare un rischio maggiore di scarsa comunicazione o incastro disfunzionale fra errori di ragionamento del paziente e dello psicoterapeuta andrebbe a favorire un potenziale vantaggio per la psicoterapia in termini di efficacia e successo del trattamento.

Ad esempio: quelle situazioni in cui si scontrano i tratti di perfezionismo rigido nello psicoterapeuta e i tratti di distraibilità nel paziente, oppure rigidi principi morali nello psicoterapeuta e disinibizione nel paziente o, in generale, quei bias del nostro funzionamento che mettiamo in moto senza monitoraggio e/o consapevolezza. Talvolta, si potrebbe verificare che sulla base di un bias di generalizzazione tendiamo ad ascrivere l’atteggiamento del paziente a una certa categoria diagnostica, seguendo una sorta di economica euristica senza troppo riflettere su quanto sia esatto questo tipo di inquadramento. Altre volte, potremmo invece tendere a minimizzare taluni comportamenti, o diversamente ingigantire altri, seguendo un filtro tutto nostro, dunque sulla base dei nostri valori di riferimento e perdendo di vista l’empatia, la flessibilità e la versatilità che questa professione richiede.

Potrebbe quindi capitare che, essendo troppo attenti a ricostruire il problema presentato, gli errori di ragionamento, delle credenze patogene, ci ritroviamo a trascurare l’importanza che il nostro funzionamento cognitivo potrebbe avere nella gestione, nell’elaborazione delle informazioni e nella relazione con il paziente. Durante la psicoterapia potrebbe accadere che interpretiamo o personalizziamo un atteggiamento del paziente come una resistenza alla psicoterapia, ad esempio leggiamo il ritardo o il fatto che non abbia fatto gli home-work come una scarsa motivazione al cambiamento e/o come uno scarso livello di impegno in terapia, mentre questo potrebbe avere altri significati, potrebbe segnalare un aggravamento dei sintomi, dunque un peggioramento dello stato o ancora un vera e propria richiesta di aiuto e attenzione.

Questo tipo di errori, se non consapevoli, riconosciuti e gestiti, potrebbero promuovere un atteggiamento poco autentico o troppo difensivo da parte del terapeuta, creando delle rotture nella relazione psicoterapeutica, rispetto l’alleanza di lavoro e gli obiettivi concordati.

Alla luce di queste osservazioni, dubitare delle proprie idee o impressioni e avere sempre un punto di vista alternativo, sembra essere una risorsa che ci aiuta a non incorrere in errori confirmatori di valutazione. A tal proposito, ricostruire e osservare l’incastro della propria architettura cognitiva sulla base del caso specifico, potrebbe diminuire il margine di errori di intervento, e il rischio di incorrere in un atteggiamento perseverante e/o di coltivare un’idea fissa e/o distorta del problema e del paziente in genere. Per ovviare ai diversi errori sopra descritti, ci sono diversi metodi, basti pensare alla propria psicoterapia (dello stesso psicoterapeuta), alla supervisione, all’intervisione, alla psicodiagnostica e all’utilizzo di strumenti appositi a monitorare quanto il paziente si sia sentito compreso durante il corso delle sedute se sta migliorando o meno durante il percorso.

Possiamo pensare a eventuali errori di omissione in cui scegliamo di non applicare una tecnica per timore di un effetto collaterale. È il caso, ad esempio, dell’omissione di una tecnica immaginativa o espositiva per paura degli eventuali effetti avversi.  Contrariamente, potremmo tendere a mettere in moto bias di azione applicando una tecnica senza considerare gli eventuali effetti iatrogeni.

Altro esempio potrebbe essere il ragionamento emozionale nei cicli di allarme, al quale alle volte rispondiamo in modo preoccupato o controllante di fronte a possibili comportamenti a rischio che il paziente teme o minaccia. Potremmo agire il nostro spavento, l’ansia, senza riflettere su quale sia la strategia migliore ed efficace per in incrementare alcuni fenomeni, praticando in modo iatrogeno una sorta di rinforzo.

A riguardo, lo psicologo statunitense Scott Lilienfeld propone una tassonomia degli errori maggiormente commessi dagli psicoterapeuti nella valutazione del successo e dell’efficacia della psicoterapia, indicando i bias che più facilmente lo psicoterapeuta tende a mettere in atto come l’illusione di controllo e il confirmation bias o il post hoc, ergo propter hoc, ovvero, non solo la tendenza a inferire  in modo confirmatorio sul paziente e taluni atteggiamenti, ma ipotizzando anche la presenza presunta di  un evento cronologico connesso a quanto presupponiamo, senza sufficienti prove.

Il contributo proposto da Lilienfeld ribadisce infatti l’importanza di misurare il proprio intervento e l’efficacia della psicoterapia mediante strumenti validati e obiettivi, cercando di mettere in guardia gli psicoterapeuti rispetto alla possibilità di incorrere nell’errore di predicare un’efficacia “spuria” della psicoterapia. Si suggerisce dunque un’integrazione tra la metodologia sperimentale, il pensiero scientifico e la pratica psicoterapeutica, ribadendo l’importanza della supervisione costane dei propri casi, della misurazione degli esiti, dell’esigenza di produrre prove di efficacia e della necessità di conoscere le linee guida e i protocolli previsti in relazione alle diverse problematiche psicopatologiche.

Considerazioni di questo tipo meriterebbero di certo un approfondimento: in una seconda puntata affronteremo ulteriori aspetti circa gli scopi che si celano dietro i bias di ragionamento che regolano la professione e si muovono durante la psicoterapia, per fornire una lunga e necessaria riflessione.

Per approfondimenti:

Dimaggio, G. e Semerari, A. (2007) I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Laterza.

Lilienfeld, S., Ritschel, L., Lynn, S., Cautin, R., & Latzman, R. (2014). Why Ineffective Psychotherapies Appear to Work: A Taxonomy of Causes of Spurious Therapeutic Effectiveness Perspectives on Psychological Science, 9 (4), 355-387 DOI: 10.1177/1745691614535216

Lorenzini, R. & Scarinci, A. (2013). Errare “Umanum” est. L’errore nella pratica psicoterapeutica. Alpes Italia, Roma.

Mancini, F. & Giacomantonio, M. (2018). I conflitti intrapsichici. Quaderni di psicoterapia cognitiva, n.42, pp. 41-64.

Safran, J. e Segal, V.Z. (1993) Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, Feltrinelli.

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Un libro sulla Psicoterapia Cognitiva

di Ivan Pavesi

Claudia Perdighe e Andrea Gragnani guidano il lettore nel comprendere e curare i disturbi mentali 

È stato pubblicato, per Raffaello Cortina Editore, il testo “Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali”, a cura di Claudia Perdighe e Andrea Gragnani. Il libro si compone di diversi capitoli, organizzati in tre parti e in circa mille pagine.

Recensirlo interamente è un’impresa per menti più precise e coraggiose della mia. Mi limiterò, invece, a dire quella che secondo me è la struttura portante del libro, facendo sì che sia questa a rendere evidenti i vantaggi implicati dalla prospettiva teorica adottata.

La prima parte si occupa della teoria che permette di comprendere la sofferenza psicopatologica; la seconda parte si occupa delle tecniche volte alla promozione del cambiamento; la terza parte espone i quadri psicopatologici, mostrando come la teoria li spieghi al fine di programmare l’intervento psicoterapeutico.

È un’opera di grande respiro, che richiede consistente impegno di tempo e attenzione per la lettura.

In psicoterapia cognitiva, occuparsi di teoria significa organizzare le conoscenze in funzione di una domanda: perché il paziente soffre? Per dare una risposta a questa domanda bisogna avere una teoria della mente e, nello specifico, una teoria della mente in sofferenza.

Gli autori, un gruppo di pratica e di ricerca coeso, hanno scelto di rivolgersi alla teoria scopistica (goal-directed systems) e alla psicologia del senso comune (folk psychology), che prende il nome di Teoria della Mente (ToM).

Brevemente, la teoria scopistica si occupa di come un sistema raggiunge i propri scopi, date certe conoscenze e in forza delle quali organizza, off-line o on-line, un piano d’azione.

 Il comportamento psicopatologico, una specifica tipologia di piano d’azione, rientra in questa definizione. Un approccio scopistico consente quindi di comprendere qual è il rapporto che si instaura tra scopi e piani d’azione che flettono verso la psicopatologia.

Per quanto riguarda la ToM, poiché comunemente ci spieghiamo il comportamento delle persone in termini di “ciò che desiderano” e “ciò che sanno”, appare ragionevole avvantaggiarsi di questo “strumento” che è patrimonio comune tanto dello psicoterapeuta quanto del paziente.

L’altro vantaggio pratico è che la ToM non è solo uno strumento che usiamo nel chiuso della nostra mente per capire gli altri ma è anche una effettiva interfaccia che usiamo quotidianamente nelle interazioni: “pensavo volessi andare insieme a me”, “non credevo fosse importante per te” etc. E quindi la ToM è anche l’interfaccia tra clinico e paziente.

Cosa succede quando la mente va in sofferenza?

In base alla teoria scopistica, la sofferenza si verifica nel momento in cui uno scopo è percepito come minacciato o compromesso. Quindi la sofferenza risponde a un criterio di FIFA (Fear of Intolerable Frustration of Attainability). Detto più banalmente, i nostri pazienti hanno “fifa” di qualcosa e questo già di per sé è piuttosto rilevante. Citando lo psichiatra e psicoterapeuta Francesco Mancini, “bisogna avere rispetto per le fife dei pazienti” poiché esse indicano, come abbiamo visto, la minaccia o la compromissione di qualcosa che desideriamo o, addirittura, un danno rispetto a qualcosa che pensiamo raggiunto: quindi la nostra mente si comporta come se fosse in trincea.

Se comunemente investire in uno scopo richiede che per il raggiungimento di esso si indirizzino le proprie risorse cognitive (es. “come faccio a conquistare X? Potrei proporre un’uscita al cinema; pensare di vestirmi in modo da fare colpo, nel caso in cui ciò fosse per X rilevante, e fare commenti senza senso nella speranza che X vi veda un significato profondo, come succede spesso nelle recensioni dei film che si leggono sul giornale”), questo è ancora più vero quando percepiamo una minaccia o compromissione dello scopo: tendiamo a evitare di commettere quegli errori di valutazione che ci avvicinerebbero alla compromissione e iniziamo a notare tutti quei segni che ci informano della sua vicinanza, poiché sottovalutare la minaccia ha un costo maggiore e, per conseguenza, tendiamo ad adottare una condotta prudenziale. Riprendendo la metafora della mente in trincea, sotto assedio faremmo di tutto per evitare di morire.

Questo orientamento dei processi cognitivi, volto a scongiurare ciò che la fifa segnala, declina specifici stili inferenziali. Nei disturbi ansiosi, avremo uno stile inferenziale Better Safe Than Sorry (“meglio prudenti che dolenti”); nel disturbo ossessivo-compulsivo lo stile RH (Rock Hudson); in quello depressivo il Wishful Thinking (pensiero desiderante o pia illusione).

Tale fifa sarà tanto maggiore quanto più ciò che essa segnala sarà vissuto come inaccettabile. Infatti, più avremo investito in uno scopo (sunk costs), più ci sembrerà inaccettabile rinunciarci; più non mettiamo in conto di doverci rinunciare, cioè più ci sembra consequenziale e giusto il raggiungerlo (belief in a just world), più investiremo nella sua protezione: costi quel che costi. Ed ancora, più pensiamo che aver perso un bene conseguito sia non consequenziale o ingiusto e più accettarne la perdita sarà inconcepibile. L’alternativa sarebbe infatti vivere in un mondo senza prevedibilità o senza giustizia, almeno per le cose che ci premono.

L’ossatura del libro sembra essere questa. Ed è da questa che discende tanto uno specifico modello di formulazione del caso quanto una specifica teoria della tecnica psicoterapeutica e, poi, l’applicazione di queste a specifici disturbi.

Una parte che merita a mio avviso attenzione è quella dedicata alla promozione del benessere. L’importanza di questa parte ci viene detta chiaramente dalla scopistica e dalla ricerca in psicologia: quando uno scopo è attivo, e quindi le risorse ad esso destinate sono reclutate, si verifica una defocalizzazione funzionale degli altri scopi e tale meccanismo è amplificato in stato di minaccia.

Nel libro, gli autori spiegano questa scelta così: “è stato dato spazio a tutti quegli interventi cognitivo-comportamentali esplicitamente orientati a costruire condotte funzionali e ad aiutare il paziente a investire su scopi e valori per lui significativi, nonostante il disturbo” (p.371). Infatti, proprio perché la focalizzazione sulla minaccia sottrae risorse e tende a impoverire il piano esistenziale del paziente, appare più che ragionevole “proporre interventi che promuovono il ‘buon funzionamento’ (nelle sue diverse accezioni, da resilienza a benessere), cioè la costruzione di condotte antagoniste alla patologia e che sono di prevenzione ad ampio spettro dalla ricaduta” (p. 344).

Sono diverse le cose entusiasmanti di questo libro. Da un lato la teoria stessa che viene utilizzata per capire la sofferenza umana, che è una teoria che permette di darci conto anche della quotidianità. Dall’altro lato l’esposizione di tecniche “riformulate” in coerenza con la concezione scopistica della sofferenza e quindi, attraverso il passaggio della formulazione del caso, orientate al target di intervento. Non ci sono “protocolli seriali” da seguire bona fide ma un ragionamento clinico che si dipana in base alla formulazione del caso e che consente di assemblare l’intervento: dell’astrazione scopistica al paziente concreto. I quadri psicopatologici che seguono queste due parti sono informati da questa logica della spiegazione. Questi quadri, importanti per la specializzazione della teoria e la specifica spiegazione del funzionamento resa disponibile dall’esperienza del gruppo di autori, possono essere considerati come degli esercizi con soluzione. E l’ultimo capitolo, sui disturbi di personalità, può considerarsi come una serie di esercizi con soluzioni parziali.
Penso che uno degli aspetti rilevanti di questo libro sia proprio questo: offrire la possibilità di imparare a ragionare clinicamente.

Per approfondimenti

Friedrich J. (1993). Primary error detection and minimization (PEDMIN) strategies in social cognition: A reinterpretation of confirmation bias phenomena. Psychological Review, 100(2), 298–319. https://doi.org/10.1037/0033-295X.100.2.298

Premack, Woodruff (1978). Does the chimpanzee have a theory of mind? Behavioral and Brain Sciences, 1(4), 515–526 https://doi.org/10.1017/S0140525X00076512

Beck J (2021). Cognitive Behavior Therapy. Basics and Beyound. 3rd edition. Guilford Press

Beck A, Grant P, Inverso E, Brinen A, Perivoliotis D (2021). Recovery-Oriented Cognitive Therapy for Serious Mental Health Conditions. Guilford Press

Disturbo borderline di personalità e disturbo bipolare: alcuni fattori clinici per discriminarli

a cura di Giuseppe Romano

La sintomatologia del disturbo borderline di personalità (DBP) e del disturbo bipolare (DB) spesso sembra sovrapporsi. In alcuni casi, può essere quindi complicato condurre una diagnosi differenziale che si basi esclusivamente sui criteri diagnostici descritti nei sistemi di classificazione internazionali (Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders fifth edition, DSM-5, American Psychiatric Association, 2013; International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems 11th ed, ICD-11, World Health Organization, 2019). Nella pratica clinica, i professionisti possono incontrare delle difficoltà nello stabilire se si è di fronte ad un individuo con DBP, DB o con entrambe le diagnosi. Un’errata diagnosi può influenzare il trattamento e incidere negativamente sulla qualità di vita del paziente.

A partire da queste premesse, gli autori (Wright L., Lari L., Iazzetta S., Saettoni M. e Gragnani A.) si propongono di rintracciare, entro la letteratura inerente il DBP e il DB, alcuni fattori clinici che si distinguano per l’elevata capacità di discriminare le due entità cliniche. Questi fattori in effetti, utilizzati insieme a interviste strutturate o semi-strutturate, potrebbero aiutare a migliorare il corretto inquadramento diagnostico. Per far questo, gli autori conducono una revisione degli studi scientifici che analizzano i costrutti relativi al concetto di sé, all’identità e all’autostima in quanto fattori con alta capacità di differenziare i due disturbi.

Considerato che esistono numerose definizioni differenti tra loro dei costrutti sopra nominati, di notevole utilità per il lettore risulta essere la stesura di un glossario in cui si cerca di chiarire le descrizioni, proposte da vari autori, di “self-concept, identity, narrative identity, self-esteem e self-stigma”. Il glossario proposto non è un’analisi esaustiva di questi complessi concetti ma la sua fruibilità risiede nel fatto che stabilisce un punto di partenza comune con il lettore e informa lo stesso dell’importanza che una corretta definizione dei costrutti ha per la strutturazione di studi futuri.

A partire da queste delucidazioni, gli autori hanno analizzato e confrontato i lavori presenti in letteratura per il DBP e per il DB. In sintesi, emerge che l’identità nel DBP ha una connotazione qualitativa prevalentemente negativa e che le fluttuazioni nel concetto di sé e nell’autostima sono spesso legate a fattori scatenanti interpersonali. Nel DB invece, i pazienti mostrano delle alterazioni in termini identitari ma l’identità narrativa sembrerebbe essere in minor misura compromessa rispetto al DBP.  Sempre nel DB, i cambiamenti nel concetto di sé e nell’autostima sembrano essere maggiormente legati ad alcuni fattori interni come le oscillazioni timiche e la componente motivazionale.

Per ridurre la complessità dei contenuti trattati in questa review, gli autori hanno voluto sistematizzare in quattro tabelle i principali dati emersi e le misure usate negli studi (rispettivamente tabelle 2 e 3 e tabelle 4 e 5).

Un ulteriore apprezzabile sforzo è quello relativo alla riorganizzazione dei risultati secondo la prospettiva cognitivista. A partire da questa cornice teorica e clinica di riferimento, gli autori hanno cercato di spiegare come questi domini potrebbero contribuire alla genesi ed al mantenimento della sofferenza psicologica nei pazienti con DBP e con DB.

Infine, considerata l’importanza di una comprensione profonda del funzionamento intrapsichico ed interpersonale di questi pazienti, gli autori sottolineano la necessità di strutturare ulteriori studi comparativi che aiutino il clinico a differenziare precocemente e precisamente la sintomatologia dei due disturbi in modo da impostare correttamente il trattamento.

Riferimenti bibliografici

Wright L, Lari L, Iazzetta S, Saettoni M, Gragnani A. Differential diagnosis of borderline personality disorder and bipolar disorder: Self-concept, identity and self-esteem. Clin Psychol Psychother. 2021;1–36. https://doi.org/10.1002/cpp.2591

per consultare l’articolo

La mente catastrofica

di Fabrizia Tudisco

a cura di Carlo Buonanno e Andrea Gragnani

Tecniche cognitive per la riattribuzione della stima della minaccia

In diversi disturbi psicologici sono stati osservati differenti tipi di bias cognitivi responsabili della genesi e del mantenimento delle credenze disfunzionali.

Nei soggetti ansiosi ritroviamo frequentemente un bias specifico legato alla sovrastima della probabilità che un evento minaccioso possa verificarsi. Numerosi studi su pazienti con diagnosi di disturbi d’ansia segnalano una tendenza a sovrastimare le probabilità di accadimento di un evento negativo rispetto a coloro che non hanno tale diagnosi. Questo bias si presenta solo quando i soggetti fanno previsioni di eventi che si collocano all’interno del loro specifico dominio psicopatologico (es. i soggetti con disturbo di fobia sociale sovrastimano la possibilità di accadimento di eventi negativi all’interno di contesti sociali, ma non per altri eventi negativi non-sociali).

Questa tendenza a sovrastimare il danno è uno dei nuclei di intervento in psicoterapia cognitiva. Le tecniche più utilizzate a questo scopo sono: la tecnica della piramide capovolta, la tecnica della torta e la tecnica della probabilità cumulata. Si tratta di procedure che favoriscono una valutazione dell’evento negativo in relazione ad altri possibili scenari, che facilitano la distrazione dell’attenzione dall’ipotesi focale negativa a ipotesi alternative e a favore di una rappresentazione più completa (e meno terrifica) della realtà.   Ma queste tecniche, funzionano?

In uno studio del 2003 condotto su un campione non clinico, Andrea Gragnani, Francesco Mancini et al. ne hanno valutato l’efficacia, ipotizzando che potessero causare una significativa riduzione della probabilità percepita di accadimento di un evento negativo. In tutti i gruppi coinvolti nello studio, i risultati ottenuti hanno dimostrato come le tecniche impiegate fossero in grado di ristrutturare la sovrastima della probabilità della catastrofe temuta.

In uno studio più recente, pubblicato nel 2019 sulla rivista Clinical Neuropsychiatry, gli psicologi e psicoterapeuti Amelia Gangemi, Andrea Gragnani, Margherita Dahò e Carlo Buonanno hanno ripreso questo lavoro, ampliandolo e includendo un gruppo di controllo, per verificare l’efficacia dell’intervento attraverso le tre tecniche, comparando i risultati con quelli di un gruppo che non riceve il trattamento e procedendo a un follow up a quattro settimane per verificare la stabilità dei risultati. Gli esiti hanno confermato il dato precedente, dimostrando un’effettiva riduzione della stima della probabilità che l’evento peggiore si verifichi nei gruppi sperimentali ma non in quello di controllo (il gruppo, cioè, che non aveva beneficiato di alcun trattamento) e un mantenimento degli esiti trascorse le quattro settimane. Oltre alla potenza delle tecniche, altro dato interessante che emerge è la riflessione sui processi cognitivi sui quali ogni tecnica agisce. Le tecniche della piramide e della torta avrebbero il potere di contrastare il meccanismo cognitivo di focalizzazione sull’ipotesi peggiore, stimolando l’analisi di diverse possibilità di accadimento degli eventi, oltre a quelle temute. La tecnica della probabilità cumulata ridurrebbe l’iniziale sovrastima della probabilità di accadimento di un evento negativo comparandola con la chance di stimare la sequenza più probabile di eventi che guiderebbe all’esito temuto.

I risultati ci mostrano che questi strumenti aiutano il paziente a sganciarsi dall’ipotesi negativa temuta, ri-orientando l’attenzione verso segnali che disconfermano la minaccia.Se qualcosa che spaventa è meno probabile che accada, allora ci sarà più predisposizione a considerare ipotesi alternative, incoraggiando il paziente ad aderire al trattamento, esponendosi maggiormente agli stimoli temuti, accettando di correre il rischio che ciò di cui ha più paura possa accadere.

Studi futuri si potranno focalizzare sull’osservazione degli esiti della somministrazione delle tecniche in campioni di popolazione clinica, individuando gli specifici domini sintomatici dei singoli disturbi d’ansia e promuovendo una maggiore comprensione sul ruolo del mantenimento del bias di sovrastima della minaccia all’interno delle classi di disturbi.

Per approfondimenti: 

Gangemi A., Gragnani A., Dahò M., Buonanno C. (2019) – Reducing probability overestimation of threatening events: An Italian study on the efficacy of cognitive techniques in non-clinical subjects – Clinical Neuropsychiatry https://www.clinicalneuropsychiatry.org/download/reducing-probability-overestimation-of-threatening-events-an-italian-study-on-the-efficacy-of-cognitive-techniques-in-non-clinical-subjects/