di Maurizio Brasini
L’avvento delle neuroscienze sociali ha imposto, negli ultimi 20 anni, una profonda riconsiderazione di tutti quei fenomeni psicopatologici che hanno come aspetto centrale o come esito primario la difficoltà di rimanere in contatto con gli altri.
Il dr. Pietro Grimaldi, proponente di questo simposio che si è svolto nell’ambito del XIX congresso nazionale SITCC, a Verona dal 20 al 23 settembre 2018, ha inteso promuovere un confronto e stimolare una riflessione proprio in questa direzione, prendendo spunto da un suo recente lavoro di curatela per un volume di prossima uscita dedicato appunto ai disturbi collegati all’ansia sociale. Nella sua relazione, il dr. Grimaldi indica come l’adozione di una cornice cognitivo-evoluzionista associata ad una particolare attenzione ai processi metacognitivi e interpersonali possa costituire l’impalcatura di base per la comprensione e il trattamento delle varie forme di ansia sociale, impalcatura sulla quale si innestano agevolmente i principali modelli di intervento della “terza onda”; particolarmente interessante a tal proposito Ë apparsa la considerazione della Compassion Focused Therapy, in cui il senso di “vergogna interpersonale” e la conseguente una tendenza al ritiro utilizzata come strategia inconsapevole di sottomissione sono al centro della concettualizzazione del caso e del trattamento.
Il dr. Giuseppe Romano ha utilizzato un caso clinico in età evolutiva nel quale il disturbo d’ansia sociale (DAS) appare “secondario” rispetto ad un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) per illustrare un aspetto centrale nella comprensione dell’esperienza di chi teme le relazioni con gli altri: le sue “buone ragioni”. il Dr. Romano mostra come, oltre alla capacità di individuare scopi e credenze patogene (ad esempio sulla metavergogna) tipici della trappola in cui cade chi soffre di ansia sociale, sia fondamentale la sensibilità del clinico a temi di vita (la “vulnerabilità storica”) del paziente in cui alcune esperienze, ad esempio di marginalizzazione o di umiliazione, poggiano su elementi di realtà. Nel caso illustrato, una reale difficoltà nell’apprendimento diagnosticata tardivamente ha costituito il terreno fertile in cui hanno attecchito sentimenti di disvalore legati all’indefinita sensazione di non riuscire a tenere il passo con gli altri. In senso generale, il dr. Romano invita a considerare sempre i sintomi ansiosi e l’evitamento all’interno di un modello evolutivo.
Il dr. Francesco Lauretta ha presentato una riflessione sviluppata insieme al dr. Nicola Marsigli sul possibile (e poco esplorato) rapporto tra disturbi d’ansia sociale e narcisismo. Saldamente ancorati all’esperienza clinica, i due colleghi hanno anche presentato alcuni dati preliminari che sembrano corroborare la loro intuizione che, in estrema sintesi, possa esistere una componente di “vulnerabilità narcisistica” nascosta per cosÏ dire dietro alla continua implicita ricerca di un confronto con gli altri, nel quale ci si percepisce immancabilmente (e forse ingiustamente) perdenti, mentre nel ritiro ci si sogna protagonisti di una rivincita grandiosa. Di particolare interesse l’ipotesi, illustrata attraverso una vignetta clinica, che affrontando il timore del contatto con gli altri (per esempio attraverso l’esposizione) si possa ottenere una “vittoria di Pirro” in cui al posto dell’ansia emerge una sorta di distacco o di “noia” interpersonale. Sono evidenti, in questo esempio, le implicazioni sul piano strategico di un inquadramento del caso che si focalizzi esclusivamente sulla dinamica dell’evitamento ansioso.
Il dr. Giovanni Pellecchia illumina una questione diagnostica lungamente dibattuta, quella della distinguibilità tra fobia sociale e disturbo evitante di personalità, attraverso l’illustrazione in parallelo di due casi clinici. Le riflessioni del dr. Pellecchia poggiano su oltre venti anni di studio non soltanto sulle specifiche funzioni metacognitive ma più in generale sul “senso di appartenenza”; l’ipotesi è che la compromissione della capacità di comprendere i propri e gli altrui stati mentali influisca negativamente sulla capacità di sentire di “essere-con” gli altri. Da qui, l’esperienza di distanza e di estraneità, la percezione di essere “marziani” o che le persona care siano “convitati di pietra”. Il dr. Pellecchia propone una serie di osservazioni cliniche che da una parte incoraggiano a distinguere concettualmente gli aspetti “fobici” da quelli pi˘ strutturalmente connessi al senso di appartenenza, e d’altro canto tagliano trasversalmente la nosografia categoriale invitando a ritornare alla fenomenologia del paziente, ovvero al suo modo di sentirsi in rapporto col mondo; ed è in quest’ultima accezione che si può cogliere una valenza “narcisistica” nel “dolore di non appartenere”.
In conclusione, a parere di chi scrive, tra i principali spunti di riflessione emersi da questo ricco scambio si possono evidenziare tre “take home messages” comuni a tutte le relazioni:
1) è forse utile iniziare a pensare all’ansia sociale non pi˘ come una diagnosi, ma come un’ampio spettro di fenomeni clinici accomunati dalla messa in crisi dell’espressione del naturale “need to belong”, probabilmente per motivi anche molto differenti tra loro;
2) è necessario adottare una prospettiva evolutiva in cui considerare in particolare le esperienze umilianti, quelle in cui si assume su di sÈ una vergogna interpersonale che porta a rimanere ai margini della vita sociale, ma che al tempo stesso si percepisce come ingiusta e lesiva dell’ordine naturale delle cose
3) nella perdita del contatto con gli altri, oltre alla paura e alla vergogna, bisogna considerare il distacco stesso e, almeno a livello fenomenologico, quella ordinaria dimensione dissociativa (detachment e assorbimento) a cui rimanda.