La bolla (non sicura) del clima

di Barbara Basile

Il cambiamento climatico ha un impatto significativo anche sulla salute mentale: qual è il ruolo della psicoterapia?

È sempre più difficile ignorare le immagini che, soprattutto in occasione della recente conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP26) a Glasgow, spopolano su giornali, riviste, social network e in rete in generale. Fotografie di orsi polari intrappolati su iceberg alla deriva, mari invasi dalla plastica, foreste pluviali un tempo lussureggianti rase al suolo dal disboscamento, uomini, koala e altri animali che sfuggono agli incendi apocalittici e bambini che cercano invano di nuotare nell’acqua putrida per avere salva la vita.

Perché parlare di questo su cognitivismo.com, che si occupa di salute mentale e di psicologia?

Le motivazioni sono diverse, la più banale potrebbe essere: “perché non è più possibile voltarci dall’altra parte e ignorare questa emergenza”; o, ancora: “perché il cambiamento climatico è anche un’emergenza sanitaria e i medici hanno il dovere di agire sia come individui sia come parte di un’organizzazione”. E, in effetti, il Servizio Sanitario Nazionale britannico (NHS) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per citarne alcuni, da anni si occupano della sensibilizzazione a questi temi. L’NHS, per esempio, ha ridotto di un terzo, rispetto al 1990, le proprie emissioni proprio grazie a politiche che promuovono la conservazione, la raccolta differenziata e una maggiore consapevolezza sui problemi legati all’ambiente nei suoi professionisti.

Il cambiamento climatico ha un impatto significativo anche sulla salute mentale. In molti contesti, e non solo in quelli più colpiti dalle catastrofi climatiche (come l’America Latina, il Sud Est Asiatico, l’Africa e l’Australia), sempre più spesso le persone si rivolgono agli specialisti per chiedere aiuto rispetto a vissuti di angoscia e ansia relativa all’ambiente e alla sua distruzione (in gergo, ecoanxiety).

Da un recente sondaggio della British Association for Counselling and Psychotherapy (BACP) è emerso che il 55% delle persone intervistate ritiene che il cambiamento climatico abbia avuto un impatto sul proprio benessere, l’8% stima che l’impatto sia notevole, il 30% è preoccupato per come ne sarà influenzata la sua vita futura e il 58% si preoccupa degli effetti sulle generazioni future. In particolare, sono i giovani di età compresa tra i 16 e i 34 anni ad essere i più preoccupati. Analogamente, da un altro studio condotto dall’Università di Bath che ha coinvolto 10.000 persone di età compresa tra 16 e 25 anni, in oltre dieci Paesi, è emerso che il 60% dei ragazzi è estremamente turbato dai cambiamenti climatici, riportando emozioni di paura, ansia e tristezza. Infine, dal sondaggio emerge che quattro giovani su dieci hanno affermato di sentirsi traditi, ignorati e abbandonati dagli adulti e dai politici.

Dunque, quali risposte possiamo dare noi professionisti della psiche?

Caroline Hickman, psicoterapeuta, psicologa del clima, psicoterapeuta e ricercatrice, riconosce che è molto difficile per noi terapeuti capire come affrontare questi temi con i nostri pazienti. Molti di noi – afferma la collega – sono abituati a focalizzarsi sui problemi soprattutto a un livello individuale, mentre il cambiamento climatico ha un impatto a livello esistenziale, ambientale e collettivo e non sempre sappiamo come muoverci su questi piani. Inoltre, da essere umano quale è, il clinico stesso può avere delle reazioni assolutamente personali rispetto a questo tema. Secondo la psicoanalista Sally Weintrobe la realtà del cambiamento climatico comporta il crollo della nostra onnipotenza e ci obbliga a dover rivalutare radicalmente il senso di noi stessi. Ci percepiamo vulnerabili, dipendenti, non protetti e fragili, quando invece pensavamo di essere invincibili.

Nel tentativo di trovare una chiave di lettura delle nostre reazioni alla crisi climatica, le colleghe del Climate Change Awareness and Action Committee (Comitato sulla Consapevolezza e l’Azione per il Cambiamento Climatico) della ISST (Società Internazionale di Schema Therapy) hanno cercato di delineare, avvalendosi dei costrutti propri di questo approccio clinico, le diverse modalità disfunzionali che si possono attivare quando confrontati con questa emergenza.

Nella relazione presentata all’ultimo convegno internazionale di Schema Therapy, nel 2020, le terapeute hanno identificato come, partendo dalle reazioni più emotive (racchiuse negli schema mode del Bambino), è possibile individuare:

  • dei vissuti di paura, angoscia e assenza di speranza, tipici del Bambino Vulnerabile (es. “Sono terrorizzato che tutto finisca!”, “Mi sento solo e abbandonato in questo mondo spaventoso e nessuno ci può aiutare!”);
  • delle emozioni rabbiose, specifiche del Bambino Arrabbiato (es. “Odio tutto questo! Sono davvero furioso per essere costretto a guardare queste immagini o ascoltare queste cose orribili!”);
  • delle espressioni del Bambino Viziato/Impulsivo (es. “Non voglio incasinarmi la vita e cambiare le mie abitudini per questo! Per me funziona tutto benissimo e non ho nessun motivo di cambiare nulla!”).

Su un piano più comportamentale (i cosiddetti coping mode), di fronte alla crisi ambientale, è possibile attivare:

  • delle strategie di evitamento, in cui si tende a nascondere la testa sotto la sabbia, eludendo il problema (es. “Meglio non pensarci e bermi un bel bicchiere di vino”);
  • un atteggiamento di rassegnazione (es. “Ho smesso di riciclare, tanto non c’è nessuna speranza, è già troppo tardi per fare qualcosa e salvare il mondo, non possiamo più fare nulla”!);
  • agire all’inverso (iper-compensazione), per esempio sfruttando in modo esasperato la Natura e le sue risorse, ridicolizzando e sminuendo la gravità di quanto sta accadendo e pretendendo di prosciugare il pianeta fino alla sua ultima risorsa.

Infine, sempre secondo la cornice della ST, potrebbero innescarsi:

  • una voce critica che si rivolge verso di sé (dicendo cose come: “Ti dovresti vergognare a lasciar morire il nostro pianeta!”), oppure verso gli altri (“Guarda quegli strafottenti che stanno gettando le loro porcherie dal finestrino della macchina!”);
  • dei messaggi colpevolizzanti ed esigenti (es. “È colpa tua se siamo in questa condizione!” o “Non fai abbastanza per salvare l’ambiente”).

In contrasto con queste modalità disfunzionali che spesso interagiscono tra di loro, proprio come si usa fare in psicoterapia, si intende promuovere una modalità adulta, consapevole e sana, che adotti un approccio più funzionale al problema climatico e contrasti i mode più disfunzionali: promuovere la speranza e la possibilità di cambiamento, invece di arrendersi o di farsi schiacciare dalla disperazione o dalla rabbia. Una modalità sana facilita un contatto più diretto con la natura e l’ambiente, promuove emozioni e comportamenti più autentici e responsabili nei loro riguardi, stimola le nostre risposte sensoriali (acuendo l’udito per ascoltare il cinguettio degli uccelli, incentivando l’uso dell’olfatto per sentire l’odore dei fiori o della pioggia, o, ancora, toccare le piante, svolgere attività all’aria aperta, e così via) e favorisce un approccio che consenta di immergersi e contemplare la natura e la sua magnificenza, dalla loro prospettiva.

Anche lo stimabile naturalista e divulgatore scientifico David Attenborough, d’altronde, nel suo intervento alla COP26, incita i governanti di tutti i paesi presenti, non alla paura, bensì alla speranza di poter salvare la nostra terra.

… Per i colleghi che desiderano porsi qualche domanda:

● Di quali nuove pratiche avremo bisogno per lavorare in modo sicuro ed efficace con i nostri clienti, in relazione ai temi del cambiamento climatico?

● Come vogliamo che le nostre categorie professionali ci rispondano e ci sostengano nel nostro lavoro?

● Cosa vorremmo dagli istituti di formazione e dai docenti dei corsi di formazione ai quali partecipiamo?

● Cosa possiamo imparare dalla salute mentale e dai colleghi di tutto il mondo che si occupano di questo tema (da anni)?

● Quali collaborazioni possiamo formare con altri professionisti del nostro settore?

● Che lavoro dobbiamo fare su di noi, sia nell’immediato, che come continua pratica di self-reflection?

● In che modo la nostra professione potrebbe aver bisogno di evolversi o addirittura trasformarsi alla luce di ciò che ci aspetta?

● TU, come e cosa puoi portare come contributo personale?

Per approfondimenti

www.bacp.co.uk/news/news-from-bacp/2020/15-october-mental-health-impact-of-climate- change/

https://schematherapysociety.org/Climate-Change-Awareness-and-Action-Committee

https://www.youtube.com/watch?v=o7EpiXViSIQ

https://www.bacp.co.uk/bacp-journals/therapy-today/2021/november-2021/the-big-issue/

https://schematherapysociety.org/Schema-Therapy-Bulletin

 

Foto di Markus Spiske da Pexels

 

 

 

 

Malattie intestinali e disagio psicologico

di Sonia Di Munno

Quali sono le cause che possono portare ad ansia e depressione e i trattamenti più efficaci

Le malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) sono tutte quelle patologie infiammatorie croniche e recidivanti dell’intestino: le più comuni sono il morbo di Chron e la colite ulcerosa. Attualmente hanno origine sconosciuta e risultano dovute a un’interazione tra fattori ambientali, genetici e di microbica intestinale. Sono malattie con alti tassi di recidive o ricadute e lo stress psicologico è un fattore importante che contribuisce alla manifestazione frequente. Chi ne soffre sviluppa sintomi e patologie di ansia e depressione: in una revisione sistematica del 2016 si è visto che il 21% dei pazienti soffriva di una patologia ansiosa conclamata mentre il 35% presentava sintomi ansiosi subclinici; il 15% soffriva di depressione e il 22% dei pazienti riportava sintomi depressivi. Viste le alte percentuali di disagio psicologico, uno studio dello psichiatra statunitense Douglas A. Drossman ha cercato di indagare le macroaree che creano ansia e depressione in questi pazienti, per poter poi intervenire in maniera diretta ed efficace. Ne ha individuate quattro: impatto della malattia, preoccupazioni sul trattamento, intimità, stigma.

Per impatto della malattia si intende il cambiamento che la malattia porta a chi ne soffre. Nel caso specifico delle MICI, un cambiamento importante è nello stile alimentare come scelta del cibo con eliminazione completa di alcune pietanze. Inoltre, seguire a lungo termine dei regimi dietetici ristretti può portare ad atteggiamenti disadattivi, provocando ansia nei confronti del cibo e nel consumare il cibo in contesti conviviali. Alcuni incorrono in un’alimentazione disordinata o in comportamenti alimentari disfunzionali, come abbuffate, restrizioni e digiuno. Oltre ai problemi alimentari, nei pazienti con MICI è stata riscontrata un’alta soglia di stanchezza – diventata clinicamente significativa – presente nel 86% nei pazienti con patologia attiva e nel 22-41% con malattie quiescenti. Questo affaticamento è dovuto sia alla malattia che al disagio psicologico che questa comporta. Spesso i pazienti sviluppano anche insonnia e in alcuni casi possono sviluppare un disturbo postraumatico in cui l’evento traumatico è la diagnosi della malattia di fronte alla quale ci si può sentire spaventati e impotenti. Per lo sviluppo del disturbo da stress post-traumantico vi sono alcuni fattori di rischio predisponenti come: essere di sesso femminile, appartenere a un basso status socio-economico, essere affetti da una malattia più grave, avvertire dolore incontrollato, avere una giovane età al momento della diagnosi, aver subìto un intervento chirurgico, percepire in maniera molto intensa i sintomi e aver avuto almeno una recidiva della malattia.

Anche l’aspetto dell’intimità è di grande importanza nelle MICI: ben 2/3 dei pazienti riferiscono di avere problemi relativi all’immagine corporea e problemi sessuali. L’interesse sessuale ha un sostanziale decremento in molti pazienti, che può essere dovuto sia alla depressione ma anche al dolore che alcune donne riferiscono di avere durante il rapporto (25%) che non è associato al tipo di malattia o all’attività, all’uso di steroidi o alla presenza di malattia perianale ma può essere correlato alla disfunzione del pavimento pelvico.
L’aspetto della maternità risulta essere un tasto dolente per molte donne: il 18-22% riferisce di non voler avere figli per paura di trasmettere la malattia e la paura di portare avanti la gravidanza assumendo dei farmaci. Un altro macro aspetto per cui i pazienti sviluppano ansia e depressione è lo stigma che percepiscono dagli altri e la vergogna che possono provare di fronte a questa malattia che può portare a un maggiore isolamento e ritiro sociale, aumentando così ansia e depressione.

Di fronte a queste malattie croniche e recidive, lo sviluppo di un disagio psicologico è molto frequente e bisogna intervenire tempestivamente ed efficacemente per non incorrere in un sostanziale peggioramento della qualità delle vita. Attualmente le terapie più efficaci sono: la terapia cognitivo comportamentale, la mindfulness e l’ipnosi medica. La terapia cognitivo comportamentale attenua i sintomi psicologici che queste malattie comportano, poiché ai pazienti viene insegnato a comprendere la relazione tra situazioni, pensieri, comportamenti, reazioni fisiche ed emozioni. I pazienti imparano a cambiare pensieri (attraverso la ristrutturazione cognitiva), comportamenti (attraverso cambiamenti programmati o prescritti nell’attività o nelle risposte) e livelli di eccitazione fisiologica (attraverso esercizi di rilassamento) al fine di ridurre il disagio emotivo. Nelle MICI, la CBT non ha dimostrato di alterare gli esiti della malattia, ma è risultata efficace nel migliorare la qualità della vita, le capacità di coping (adattamento efficace di fronte alla difficoltà), l’aderenza medica nonché nel diminuire i sintomi di ansia o depressione.

Per approfondimenti

Yue Sun, Lu Li, Runxiang Xie, Bangmao Wang, Kui Jiang and Hailong Cao (2019), Stress Triggers Flare of Inflammatory Bowel Disease in Children and Adults, Department of Gastroenterology and Hepatology, General Hospital, Tianjin Medical University, Tianjin, China, published: 24 October 2019 doi: 10.3389/fped.2019.00432

Tiffany H. Taft, Sarah Ballou, Alyse Bedell and Devin Lincenberg (2017), Psychological Considerations and Interventions in Inflammatory Bowel Disease Patient Care; Gastroenterol Clin North Am. 2017 December ; 46(4): 847–858. doi:10.1016/j.gtc.2017.08.007

Whitney Duff, Natasha Haskey, Gillian Potter, Jane Alcorn, Paulette Hunter, Sharyle Fowler (2018); Non-pharmacological therapies for inflammatory bowel disease: Recommendations for self-care and physician guidance; World J Gastroenterol 2018 July 28; 24(28): 3055-3070

Foto di Sora Shimazaki da Pexels

Gravidanza ed emozioni

di Rossella Cascone

Gli effetti dell’ansia perinatale

La gravidanza è uno dei momenti più importanti nella vita di una donna. Molte donne non vedono l’ora di diventare mamme e vivere una gravidanza piacevole. D’altra parte, ci sono alcune disposizioni psicologiche e condizioni di vita che occasionalmente causano emozioni negative nella madre.

Nella visione collettiva della nostra società, la scoperta di una gravidanza è spesso vista come un momento di gioia desiderato dai futuri genitori. Altrettanto spesso, però, la donna può sperimentare emozioni contrastanti con l’immaginario collettivo della maternità.

Durante la gravidanza, si va incontro a molteplici cambiamenti e “inconvenienti” come nausee, aumento del peso, stanchezza, dolori addominali, faticabilità, che comportano un cambiamento dei ritmi abituali di una donna.

Da un punto di vista psicologico, a questi cambiamenti fisici si associano labilità emotiva, forte irritabilità e tante preoccupazioni per la propria salute e quella del nascituro. Vi è anche la paura per il parto e quella associata al diventare genitori.

Questi cambiamenti sono spesso accompagnati da emozioni altalenanti quali gioia, paura, ansia, sorpresa, rabbia, che, se affrontate in solitudine o comunque senza un sostegno emotivo, possono essere vissute con maggior intensità.

Numerose donne si possono sentire in colpa se non amano il periodo della gravidanza, scontrandosi con la visione idealizzata della maternità. Non è raro, infatti, che alla scoperta di essere incinta vi siano donne che non gioiscono per la notizia o che non provano fin da subito affetto per il feto che portano in grembo. In realtà, questi sentimenti sono del tutto normali e segnalano il grande lavoro che la mente sta facendo per adattarsi alla nuova realtà.

Un’altra problematica che può insorgere nel secondo e terzo trimestre di gravidanza, quando vi è un aumento di peso e la pancia risulta più visibile, è la preoccupazione per la propria immagine corporea. Molte donne vivono bene questi cambiamenti, altre invece tendono a preoccuparsi, in alcuni casi eccessivamente, dell’aumento di peso e del recupero della forma fisica dopo il parto. Molto spesso ci si trova a confrontarsi con le esperienze delle proprie madri o amiche che hanno avuto una gravidanza e può succedere che il paragone con le esperienze altrui porti a vivere male la propria. Questi cambiamenti nell’aspetto, nella forma e nell’attrattiva di una donna possono suscitare un complicato insieme di sentimenti.

Un’emozione molto comune in gravidanza è la paura. Nel primo trimestre può essere legata al timore di un aborto o a quello di fare qualcosa che possa nuocere alla salute del bambino. Nel secondo trimestre potrebbero sorgere paure per le immense responsabilità derivanti dal prendersi cura del neonato e quelle legate al desiderio di essere una buona madre. Vi potrebbe essere, infine, la paura di soffrire per il parto e la preoccupazione che qualcosa possa non andare bene durante il travaglio.  In gravidanza, ansia e paura vanno spesso di pari passo. Vi sono situazioni in cui la fragilità emotiva, molto comune in gravidanza, associata a un’eccessiva preoccupazione, può sfociare in veri e propri stati di ansia o di depressione.

L’ansia provata in gravidanza ha uno specifico significato ovvero quello di attivare e preparare psicologicamente la donna al travaglio, al parto e al post-partum. Nei casi positivi questi livelli di ansia materna sono moderati e transitori, mentre nel caso in cui persistono e risultano invalidanti, l’ansia può divenire patologica.

Nello studio sull’ansia sono state identificate alcune ansie specifiche, le Pregnancy Specific Anxiety (PSA), che possono esordire e influenzare negativamente la gravidanza. Quelle più presenti in letteratura riguardano il parto e la salute del feto, in particolare timore per la presenza di anomalie o per la morte in pancia.

Recenti studi relativi al periodo gestazionale evidenziano come in oltre il 25% delle donne vi sia un aumento dei livelli di ansia clinica nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza, mentre nel secondo trimestre queste ansie hanno un declino.

Vi sono molte prove scientifiche che mostrano come l’ansia della gravidanza non influisca solo sulla salute delle donne ma ha anche un impatto sul parto e sul basso peso del bambino alla nascita. Alcune ricerche rilevano una continuità dell’ansia patologica fra pre e post parto, anche se dopo il parto il livello di ansia clinica tende a decrescere. Durante il periodo perinatale, l’ansia patologica può presentarsi in comorbidità con la sintomatologia depressiva.

Per tale ragione, quando le preoccupazioni assumono caratteristiche di forte pervasività, attraverso pensieri e immagini che risultano difficilmente controllabili e che portano a stati affettivi negativi, è importante che le ansie specifiche della gravidanza siano considerate fattori di rischio per la relazione madre-bambino in quanto perdono la specifica funzione adattativa.

Per approfondimenti

Carmona Monge F.J., Penacoba-Puente C., Morales D.M., Abellàn I.C. (2012). Factor structure, validity and reliability of the Spanish version of the Cambridge Worry Scale. Midwifery, 28, 112-119.

Catov J.M., Abatemarco D.J., Markovic N., Roberts J.M. (2010) Anxiety and optimism associated with gestational age at birth and fetal growth. Maternal and Child Health Journal, 14 (5), pp. 758-764.

Dunkel Schetter C. (2010). Psychological science on pregnancy: stress processes, biopsychosocial models, and emerging research issues. Annu Rev Psychol.;62:531–558.

Dunkel Schetter C., Tanner L., 2012. Anxiety, depression and stress in pregnancy: implications for mothers, children, research, and practice. Cur. Opin. Psychiatry, 25, 141-148.

Grant K.A., McMahon C., Austin M.P. (2008). Maternal anxiety during the transition to parenthood: A prospective study. Journal of Affective Disorders 108, 101-111.

Hart, R., McMahon, C.A. (2006). Mood state and psychological adjustment to pregnancy. Archives of Women’s Mental Health, 9, 329-337.

Hernandez-Martinez C., Val V.A., Murphy M., Busquets P.C., Sans J.C . (2011). Relation between positive and negative maternal emotional states and obstetrical outcomes. Women and Health, 51 (2), pp. 124-135.

Huizink A.C., Mulder E.J.H., de Medina P.G.R., Visser G.H.A., Buitelaar J.K. (2004). Is pregnancy anxiety a distinctive syndrome? Early Human Development, 79(2), 81-91.

Lee A.M., Lam S.K., Mun Lau S.M.S., Chong C.S.Y., Chui H.W., Fong D.Y.T., (2007). Prevalence, course, and risk factors for antenatal anxiety and depression. Obstetrics and Gynecology, 110, 1102-1112.

Lobel M., Cannella D.L., Graham J.E., DeVincent C., Schneider J., Meyer B.A. (2008). Pregnancy-specific stress, prenatal health behaviors, and birth outcomes. Health Psychology, 27 (5), pp. 604-615.

Reck C., Struben K., Backenstrass M., Stefanelli U., Reinig K., Fuchs T. et al. (2008). Prevalence onset and comorbidity of postpartum anxiety and depressive disordersActa Psychiatrica Scandinavica, 118(6), 459-468.

Rubertsson C., Hellstrom J., Cross M., et al (2014). Anxiety in early pregnancy: prevalence and contribuiting factors. Archives of Women’s Mental Health, 17(3),221-228.

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L’ansia ai tempi del Coronavirus

di Mafalda Golia

Quando è eccessiva, siamo incapaci di farvi fronte, compromettendo il nostro funzionamento personale

Con l’aumento dei casi di contagio e delle vittime di Covid-19, è cresciuta anche l’ansia, emozione che ha un’importante funzione adattativa, poiché ci segnala l’esistenza di una minaccia incombente e ci induce a essere più prudenti. Quando l’ansia è eccessiva, siamo incapaci di farvi fronte, compromettendo il nostro funzionamento personale. Il momento attuale influisce sulla nostra emotività. Siamo preoccupati per la salute nostra e dei nostri cari, vediamo a rischio il nostro benessere economico; l’intolleranza dell’incertezza e l’incapacità di gestire situazioni incontrollabili sono fattori fondamentali nel mantenimento di questa preoccupazione. L’incertezza provocata dal Coronavirus si traduce in comportamenti disfunzionali quali, ad esempio, il cercare continuamente informazioni. In tal caso, anche se è corretto tenersi informati, trascorrere troppo tempo alla ricerca di notizie ci rende più ansiosi. Un buon suggerimento può essere quello di concentrarci su ciò che possiamo controllare, accettando che ogni sforzo di cancellare la nostra incertezza è inutile.

L’attenzione svolge un ruolo importante nell’insorgenza e nel mantenimento dell’ansia; molti, infatti, si concentrano sul proprio corpo per cercare eventuali sintomi del virus presenti. Ogni sensazione fisica verrebbe allora interpretata quale prova inequivocabile di aver contratto la malattia, generando sensazioni fisiche questa volta legate all’ansia. Per poter sopportare l’ansia, le persone potrebbero bere o mangiare più del solito, allo scopo di distrarsi o sedare la sofferenza vissuta. Sebbene questi comportamenti possano temporaneamente essere di sollievo, col tempo possono peggiorare i nostri sintomi. Un altro modo disfunzionale di far fronte all’ansia è attraverso l’accumulo di cibo e di altri prodotti, acquistati in quantità maggiore rispetto alla reale necessità, col timore della loro futura indisponibilità. Questo può influenzare gli altri, favorendo in loro l’accrescere dell’ansia che li porta a impegnarsi nello stesso comportamento senza controllo. Non solo. Favorisce criticità anche di ordine pratico come la diminuzione dei beni, l’affollamento nei supermercati e la difficoltà nel rispettare la distanza minima tra gli avventori.
Evitare l’ansia è quasi sempre controproducente: quando la sentiamo arrivare lasciamo che i nostri pensieri e che la nostra ansia ci investano accettandola come parte integrante dell’esperienza umana. Pratichiamo una respirazione addominale profonda e torniamo con la mente al momento presente senza rimuginare su un futuro avverso. In questo periodo incerto manteniamo buone abitudini di vita: prendiamoci cura del nostro corpo e rimaniamo in connessione con gli altri, trovando nuovi modi di comunicare. Infine, utilizziamo questo tempo sospeso come un regalo: concediamoci l’opportunità di stare più a contatto con i nostri bisogni, al fine di riconoscerli e soddisfarli.

Terapia dell’esposizione: ricerca, teoria e clinica

di Chiara Bellia
a cura di Barbara Basile

Nel mondo della psicologia spesso non c’è comunicazione tra gli scienziati che fanno ricerca in ambiti diversi, sembra quasi che la ricerca funzioni per compartimenti stagni; esiste invece un’esigenza sempre più forte di integrare le conoscenze. Gli studi condotti sull’efficacia delle terapie sono un esempio calzante per capire questo concetto: da un lato, infatti, permettono di “adeguare” le teorie se ci si accorge che un fenomeno non funziona nel modo ipotizzato; dall’altro, consentono di sviluppare terapie maggiormente efficaci per i pazienti. Dunque ciascun ambito può essere modulato sulla base degli altri. Questa crescita scientifica non si verificherebbe se non esistessero delle solide teorie sui processi psicologici di base, come l’attenzione, la memoria, l’apprendimento e così via. I processi che stanno alla base della sofferenza psichica, infatti, non sono diversi da quelli “normali”, ma cambiano solo in termini “quantitativi”.

La terapia dell’esposizione, utilizzata per curare l’ansia, è l’esempio lampante di questo processo di integrazione. Secondo gli psicologi l’ansia, come tutte le emozioni, ha una funzione adattiva e può essere utile in tante circostanze ma, se è eccessiva e persistente nel tempo, innesca un circolo vizioso all’interno del quale si rischia di rimanere bloccati. L’ansia, infatti, porta ad evitare le situazioni temute e, paradossalmente, è proprio tale evitamento a rinforzarla. La teoria dell’elaborazione emotiva (Emotional Processing Theory – EPT) spiega la psicopatologia dei disturbi d’ansia individuando l’esistenza della “fear structure” (la struttura della paura), una struttura cognitiva situata nell’area cerebrale della memoria. All’interno di tale struttura sono presenti una vasta quantità di informazioni sugli stimoli temuti e sul significato ad essi attribuito. Tale struttura si attiva ogniqualvolta ci si confronta con la propria paura; quest’ultima diventa patologica se l’individuo percepisce erroneamente uno stimolo come pericoloso. Per esempio, una paziente con disturbo da stress post-traumatico (PTSD), vittima di abuso, potrebbe aver paura di rimanere con qualcuno dentro ad una stanza perché interpreta tale situazione come potenzialmente pericolosa anche se, realisticamente, non lo è affatto. La paziente rivive tutte le sensazioni legate al trauma come se stesse accadendo nel presente e rappresenta se stessa come una persona incompetente, perché pensa che la sua reazione significa che è una persona debole. Tali percezioni erronee contribuiscono a mantenere vivi i sintomi del PTSD. Così facendo, la paziente non si dà l’occasione di poter elaborare emotivamente ciò che è successo e continua a succedere. La terapia dell’esposizione è efficace poiché consente al paziente di acquisire nuove informazioni “correttive”, che disconfermano le sue paure, attraverso un processo di elaborazione emotiva. Quando il paziente  si espone agli stimoli ansiogeni, innanzitutto attiva automaticamente la propria “fear structure“; quando si accorge che non accade nulla di quanto temuto, comprende che le sue paure sono irrazionali. A questo punto, la nuova esperienza viene “incorporata” e memorizzata nella struttura. Dunque il principale meccanismo di cambiamento sottostante la terapia è la cosiddetta “informazione di disconferma“. Molte ricerche hanno confermato che questa terapia può essere usata anche per curare la depressione e il disturbo da gioco d’azzardo; dunque ha un’applicabilità più generale che favorisce una lettura degli stimoli maggiormente realistica e che migliora la qualità di vita dei pazienti.

Riferimenti bibliografici:

Foa, E.B., & McLean, C.P. (2016). The Efficacy of Exposure Therapy for Anxiety-Related Disorders and Its Underlying Mechanisms: The Case of OCD and PTSD. Annual Review of Clinical Psychology, 12, 1-28.

La mente catastrofica

di Fabrizia Tudisco

a cura di Carlo Buonanno e Andrea Gragnani

Tecniche cognitive per la riattribuzione della stima della minaccia

In diversi disturbi psicologici sono stati osservati differenti tipi di bias cognitivi responsabili della genesi e del mantenimento delle credenze disfunzionali.

Nei soggetti ansiosi ritroviamo frequentemente un bias specifico legato alla sovrastima della probabilità che un evento minaccioso possa verificarsi. Numerosi studi su pazienti con diagnosi di disturbi d’ansia segnalano una tendenza a sovrastimare le probabilità di accadimento di un evento negativo rispetto a coloro che non hanno tale diagnosi. Questo bias si presenta solo quando i soggetti fanno previsioni di eventi che si collocano all’interno del loro specifico dominio psicopatologico (es. i soggetti con disturbo di fobia sociale sovrastimano la possibilità di accadimento di eventi negativi all’interno di contesti sociali, ma non per altri eventi negativi non-sociali).

Questa tendenza a sovrastimare il danno è uno dei nuclei di intervento in psicoterapia cognitiva. Le tecniche più utilizzate a questo scopo sono: la tecnica della piramide capovolta, la tecnica della torta e la tecnica della probabilità cumulata. Si tratta di procedure che favoriscono una valutazione dell’evento negativo in relazione ad altri possibili scenari, che facilitano la distrazione dell’attenzione dall’ipotesi focale negativa a ipotesi alternative e a favore di una rappresentazione più completa (e meno terrifica) della realtà.   Ma queste tecniche, funzionano?

In uno studio del 2003 condotto su un campione non clinico, Andrea Gragnani, Francesco Mancini et al. ne hanno valutato l’efficacia, ipotizzando che potessero causare una significativa riduzione della probabilità percepita di accadimento di un evento negativo. In tutti i gruppi coinvolti nello studio, i risultati ottenuti hanno dimostrato come le tecniche impiegate fossero in grado di ristrutturare la sovrastima della probabilità della catastrofe temuta.

In uno studio più recente, pubblicato nel 2019 sulla rivista Clinical Neuropsychiatry, gli psicologi e psicoterapeuti Amelia Gangemi, Andrea Gragnani, Margherita Dahò e Carlo Buonanno hanno ripreso questo lavoro, ampliandolo e includendo un gruppo di controllo, per verificare l’efficacia dell’intervento attraverso le tre tecniche, comparando i risultati con quelli di un gruppo che non riceve il trattamento e procedendo a un follow up a quattro settimane per verificare la stabilità dei risultati. Gli esiti hanno confermato il dato precedente, dimostrando un’effettiva riduzione della stima della probabilità che l’evento peggiore si verifichi nei gruppi sperimentali ma non in quello di controllo (il gruppo, cioè, che non aveva beneficiato di alcun trattamento) e un mantenimento degli esiti trascorse le quattro settimane. Oltre alla potenza delle tecniche, altro dato interessante che emerge è la riflessione sui processi cognitivi sui quali ogni tecnica agisce. Le tecniche della piramide e della torta avrebbero il potere di contrastare il meccanismo cognitivo di focalizzazione sull’ipotesi peggiore, stimolando l’analisi di diverse possibilità di accadimento degli eventi, oltre a quelle temute. La tecnica della probabilità cumulata ridurrebbe l’iniziale sovrastima della probabilità di accadimento di un evento negativo comparandola con la chance di stimare la sequenza più probabile di eventi che guiderebbe all’esito temuto.

I risultati ci mostrano che questi strumenti aiutano il paziente a sganciarsi dall’ipotesi negativa temuta, ri-orientando l’attenzione verso segnali che disconfermano la minaccia.Se qualcosa che spaventa è meno probabile che accada, allora ci sarà più predisposizione a considerare ipotesi alternative, incoraggiando il paziente ad aderire al trattamento, esponendosi maggiormente agli stimoli temuti, accettando di correre il rischio che ciò di cui ha più paura possa accadere.

Studi futuri si potranno focalizzare sull’osservazione degli esiti della somministrazione delle tecniche in campioni di popolazione clinica, individuando gli specifici domini sintomatici dei singoli disturbi d’ansia e promuovendo una maggiore comprensione sul ruolo del mantenimento del bias di sovrastima della minaccia all’interno delle classi di disturbi.

Per approfondimenti: 

Gangemi A., Gragnani A., Dahò M., Buonanno C. (2019) – Reducing probability overestimation of threatening events: An Italian study on the efficacy of cognitive techniques in non-clinical subjects – Clinical Neuropsychiatry https://www.clinicalneuropsychiatry.org/download/reducing-probability-overestimation-of-threatening-events-an-italian-study-on-the-efficacy-of-cognitive-techniques-in-non-clinical-subjects/

  

Neurogenesi e “pattern separation”

di Sonia di Munno

Una neurogenesi disregolata può favorire disturbi neuropsichiatrici come la depressione o l’ansia e influenzare la capacità di distinguere stimoli differenti, incrementando il malessere psicologico

La neurogenesi è il processo che induce la formazione di nuovi neuroni funzionali. Inizialmente si pensava che questo potesse accadere solo durante le fasi di embriogenesi e le fasi perinatali dello sviluppo del sistema nervoso; invece, negli ultimi due decenni, la ricerca ha stabilito fermamente che vi sia una nascita di nuovi neuroni anche nell’adulto in due zone germinali: il giro dentato dell’ippocampo e la zona subventricolare dei ventricoli laterali. I neuroni generati negli adulti formano connessioni sinaptiche e vengono integrati nel circuito. Negli esseri umani si stima che ci siano circa 700 nuovi neuroni che vengono aggiunti nel giro dell’ippocampo ogni giorno, che vanno a sostituire circa il 30% di tutta la struttura durante tutta la vita. Questi dati indicano che il numero dei nuovi neuroni incorporati nel circuito dell’ippocampo del cervello siano abbastanza numerosi da influenzare la funzione dell’ippocampo; inoltre, questi partecipano alla modulazione e al miglioramento di tutto il circuito neuronale, che riguarda sia la fisiologia regionale che la connettività funzionale di regioni cerebrali più distanti, come la corteccia prefrontale, l’amigdala e altre strutture all’interno del sistema limbico.
Diversi studi hanno dimostrato che una neurogenesi disregolata possa contribuire al manifestarsi di disturbi neuropsichiatrici come il Disturbo depressivo maggiore e l’ansia. La neurogenesi nell’ippocampo può essere ridotta sia da stress acuti sia cronici o da un isolamento sociale: il che porterebbe a fenotipi depressivi e ansiosi mentre, al contrario, interventi terapeutici che promuovono il benessere psichico stimolano la neurogenesi nell’ippocampo.
La neurogenesi dell’ippocampo è implicata in una varietà di processi mentali come la memoria, la memoria spaziale, la codifica di nuove informazioni e le funzioni esecutive. Infatti, pazienti con depressione maggiore presentano costantemente problemi nella memoria a lungo termine, nella memoria di lavoro (pregiudizio emotivo negativo) e nella funzione esecutiva (risoluzione dei problemi, controllo dell’attenzione, pianificazione e inibizione cognitiva).
Un nuovo modello sostiene che la diminuzione della neurogenesi influenzi anche una funzione dipendente dall’ippocampo di “pattern separation” (discriminazione degli stimoli) e come questo processo deficitario poi selezioni, di fronte a stimoli ambigui, le risposte che siano più familiari, stereotipate o automatiche. Questa funzione, se non deficitaria, permetterebbe di discriminare e memorizzare target simili ma non identici ed elaborarli come informazioni sensoriali con rappresentazioni distinte. Negli studi con soggetti depressi in compiti sperimentali che richiedono una forte discriminazione sensoriale degli stimoli è stata riscontrata un’ipoattivazione del giro dentato dell’ippocampo con prestazioni deficitarie nell’abilità del “pattern separation” della corteccia frontale. Ciò spiegherebbe alcuni dei fenomeni osservati in pazienti con disturbo depressivo maggiore, in quanto confonderebbero degli stimoli simili rispondendo come se fossero identici (rispondendo con tristezza sia a eventi negativi che ambigui), selezionando una risposta che incrementa il malessere psicologico. Questa incapacità sensoriale di discriminare le informazioni porterebbe a una minore flessibilità psicologica, abilità stimolata dall’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), il cui fulcro sta nel selezionare consapevolmente le risposte comportamentali in base ai valori scelti piuttosto che a pensieri e azioni stereotipate familiari (es. abitudini disadattive), che forniscono sollievo a breve termine ma sviluppano maggiori problematicità nel lungo termine.

Per approfondimenti:

Kellen Gandy, Sohye, Carla Sharp, Lilian Dindo, Mirjana Maletic-Savatic and Chadi Calarge; Pattern Separation: A Potential Marker of Impaired Hippocampal Adult Neurogenesis in Major Depressive Disorder, 2017; HYPOTHESIS AND THEORY; doi: 10.3389/fnins.2017.00571

Più ti giudichi peggio ti senti

di Emanuela Pidri 

L’effetto paradossale della valutazione negativa dei propri vissuti emotivi

La consapevolezza è uno stato mentale vigile che consente di osservare lo scorrere dell’esperienza interiore momento dopo momento e in modo non giudicante. Essere consapevoli significa orientare la propria attenzione a stimoli esterni e interni, nel “qui e ora”, in modo che nessuno sia sopraffatto dalla veemenza di pensieri, emozioni e sensazioni né sia guidato nelle proprie azioni e scelte dai propri contenuti cognitivi ed emotivi. Le pratiche di consapevolezza, conosciute con il termine “Mindfulness”, sono state applicate nel trattamento di pazienti con differenti quadri clinici, migliorandone la capacità di decentramento. Diversi studi hanno dimostrato che la consapevolezza è significativamente correlata al benessere emotivo; al contrario, avere un atteggiamento critico e giudicante verso i propri pensieri, emozioni, comportamenti è associato a psicopatologia. Le ricerche presenti in letteratura dimostrano come la ruminazione sia predittiva e mantenga il disturbo depressivo mentre la preoccupazione predice e mantiene il disturbo ansioso. Partendo da tali presupposti, si è studiato il ruolo della consapevolezza in correlazione con la ruminazione e la preoccupazione nello sviluppo di depressione o ansia. Uno studio guidato dalla psicoterapeuta Barbara Barcaccia esplora quali sfaccettature della consapevolezza siano implicate nell’associazione con ruminazione e preoccupazione, predicendo e mantenendo depressione e ansia. A 274 partecipanti di età compresa tra i 18 e i 74 anni sono stati somministrati il Five Facet Mindfulness Questionnaire, il Beck Depression Inventory, lo State-Trait Anxiety Scale, il Penn State Worry Questionnaire, il Ruminative Response Scale. Dall’analisi dei risultati si evince che la ruminazione e la preoccupazione sono strategie di coping disfunzionali coinvolte nell’esacerbazione e nel mantenimento di depressione e ansia. Anche la consapevolezza correla con ruminazione e preoccupazioni poiché il semplice atto di osservare i propri stati interiori può essere associato a un aumento di emozioni negative. Nello specifico, gli individui in grado di osservare i propri stati mentali tendono a preoccuparsi e ruminare in misura maggiore. Si nota una paradossalità: la consapevolezza aiuta le persone a riconoscere e, in seguito, a rompere i cicli ruminativi abituali, impedendo loro di rimanere intrappolati nella sofferenza; tuttavia, una sua componente aumenta la ruminazione e la preoccupazione e la probabilità di sviluppare ansia o depressione. Ciò significa che essere in grado di osservare i propri pensieri e sentimenti non equivale ad accettarli, né è di per sé vantaggioso, a meno che non si abbia un atteggiamento accettante e non giudicante. Individui consapevoli ma con atteggiamenti giudicanti verso le proprie esperienze interiori mostrano livelli più alti di ruminazione e preoccupazione. L’associazione tra autocritica o giudizio negativo verso sé e sviluppo di ansia o depressione è coerente con le teorie cognitive, rispetto le quali l’autocritica gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della psicopatologia, mentre la consapevolezza in termini di riconoscimento, osservazione e accettazione non giudicante della propria vita interiore è legata al benessere. Quando le persone criticano sé stesse e i loro sentimenti, pensieri ed emozioni, sperimentano livelli più alti di sofferenza. Un’implicazione clinica interessante dei risultati dello studio di Barcaccia potrebbe riguardare la possibilità di considerare l’autocritica come un meccanismo transdiagnotico di predittività e cronicizzazione della sofferenza, a cui il clinico deve porre attenzione nel piano di intervento psicoterapeutico. Il trattamento dovrà prevedere una fase di normalizzazione e accettazione non giudicante dei pensieri negativi, immagini mentali, sentimenti ed emozioni, obiettivo che potrebbe essere raggiunto sia dalla ristrutturazione cognitiva classica che da interventi e pratiche Mindfulness.

Per approfondimenti:

Barcaccia B. et al., (2019). The more you judge the worse you feel. A judgemental attitude towards one’s inner experience predicts depression and anxiety. Personality and Individual Differences 138, 33-39.

Se mi lasci non vale

di Sonia Di Munno

Ansia da separazione negli adulti: definizione ed eziologia

“Se mi lasci non vale, non ti sembra un po’ caro il prezzo che adesso io sto per pagare?”, cantava Julio Inglesias nel 1976, riferendosi alla fine di un amore. Al di là della naturale sofferenza per la rottura di un rapporto sentimentale, c’è chi vive l’allontanamento anche temporaneo dalla propria figura di riferimento (che non è necessariamente il partner), con particolare ansia e sofferenza.
Nel DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) è stato inserito il disturbo d’ansia da separazione negli adulti ed è spiegato con lo sperimentare un’ansia e paura eccessiva riguardante la separazione da coloro a cui la persona è legata, con un disagio che si manifesta, di solito, anche in previsione di un allontanamento; il paziente ha una riluttanza a stare da solo o manifesta problemi psicosomatici quando si avvicina la separazione. Negli adulti viene diagnosticato dopo sei mesi di continua ansia ed evitamenti disfunzionali al benessere psicologico, poiché questo disturbo inficia le scelte di autonomia e la capacità di affrontare dei cambiamenti (cambiare casa, allontanarsi per lavoro, sposarsi) e fa vivere la persona in uno stato di preoccupazione costante quando sono lontani dalla figura di riferimento, temendo che possa accaderle qualcosa di catastrofico.
In uno studio del 2014 di Boelen e colleghi su un campione di 215 soggetti, è stato analizzato quali siano gli aspetti cognitivi che sottendono a questo particolare disturbo, approfondendo l’associazione tra esso e il processo cognitivo dell’intolleranza all’incertezza.
Per “intolleranza all’incertezza” si intende una tendenza a reagire in maniera negativa di fronte a una situazione di incertezza, ed è stata definita da Dugas, Schwartz e Francis come un “bias cognitivo che influenza il modo in cui una persona percepisce, interpreta e risponde a situazioni incerte”, credendo nell’avverarsi di  un futuro negativo e che l’incertezza sia essa stessa negativa tanto da dover assolutamente essere evitata.
I ricercatori si sono chiesti se l’intolleranza all’incertezza possa essere la causa del disturbo d’ansia da separazione, avendo già riscontrato da studi precedenti che influisce in maniera significativa su altri disturbi d’ansia, depressione e sul disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Hanno postulato, quindi, che la scarsa accettazione dell’incertezza sulla relazione futura con la persona cara possa far insorgere, nei pazienti che ne soffrono, una quantità di ansia debilitante e patologica.
L’intolleranza all’incertezza racchiude in sé due dimensioni: prospettica, riferita a una percezione cognitiva (percepire come minaccioso un futuro incerto: “Gli eventi imprevisti mi sconvolgono”) e inibitoria, riferita al piano comportamentale (stato di preoccupazione sul dubbio che l’incertezza provoca: “Il più piccolo dubbio mi blocca”). Gli studiosi hanno trovato che la prima dimensione dell’incertezza (quella prospettica) sia più determinante nello sviluppo del DOC mentre il secondo tipo (inibitoria) nello sviluppo di depressione e fobia sociale e hanno indagato queste due dimensioni anche nel disturbo d’ansia da separazione negli adulti. Quello che hanno riscontrato è che l’intolleranza all’incertezza e le sue componenti sono associate con l’ansia da separazione ma non contribuiscono allo sviluppo delle differenze individuali dell’ansia esperita, le quali sono più strettamente correlate con le variabili psicologiche di nevroticismo (generale vulnerabilità allo stress elevato)  e attaccamento ansioso (predisposizione a provare ansia e vigilanza per le tematiche di  abbandono e rifiuto). Inoltre, l’intolleranza all’incertezza rende una persona più soggetta a sperimentare anche altri sintomi di ansia e depressione.
La ricerca dimostra, in conclusione, come questo processo sia un fattore di vulnerabilità per lo sviluppo del disturbo. Ulteriori indagini a conferma di ciò permetterebbero al clinico di poter agire con interventi cognitivi comportamentali mirati alla diminuzione dell’intolleranza all’incertezza con l’utilizzo del problem orientation training e tecniche di esposizione all’incertezza.

Per approfondimenti:

Paul A. Boelen, Albert Reijntjes and R. Nicholas Carleton (2014); “Intolerance of Uncertainty and Adult  Separation  Anxiety, Cognitive Behaviour  Therapy”;  Vol. 43, No. 2, 133–144; http://dx.doi.org/10.1080/16506073.2014.888755