Adolescenti con disturbo borderline

di Federica Iezzi

Rassegna sui confini diagnostici categoriali

È noto ai clinici dell’età evolutiva come vi debba essere una particolare cura nel porre diagnosi di psicopatologia in bambini e in adolescenti. Si tratta, infatti, di individui in epoca di sviluppo e dunque soggetti a plausibili oscillazioni – in termini di crescita biologica e di maturazione psichica – nonché esposti a forti pressioni ambientali, continui adattamenti e riorganizzazioni, nel contesto di un sé emergente e in evoluzione. Lungo la traiettoria dello sviluppo, vi sono mutazioni evidenti nella sfera cognitiva, affettiva, del controllo degli impulsi e relazionale. Tale condizione intimorisce i clinici nel porre una diagnosi categoriale che possa finire per etichettare il minore, a maggior ragione quando questa implica gravità e inflessibilità: è il caso di una psicopatologia stabile e pervasiva di personalità, come il Disturbo di Personalità Border (DPB). In particolare, alcune ricerche mostrano come la diagnosi di DPB possa generare tra gli psicologi e gli psichiatri un senso di persistente riluttanza e addirittura una certa ostilità.

Descritto nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5), il DPB in età adolescenziale consiste in un pattern pervasivo di sviluppo della personalità, che perdura da più di un anno e che si manifesta attraverso instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, negli affetti e da marcata impulsività. Per porre la diagnosi, devono essere presenti almeno cinque dei seguenti criteri: sforzi per evitare l’abbandono, relazioni interpersonali instabili, disturbi dell’identità, impulsività, comportamenti suicidari e auto-mutilanti, instabilità affettiva, sentimenti cronici di vuoto, rabbia intensa e inappropriata e ideazione paranoide legata allo stress.

Nel contributo dello psichiatra Jean Marc Guilé, il Disturbo di Personalità Border può essere diagnosticato in modo affidabile negli adolescenti a partire dall’età di undici anni.

Allo stato dell’arte, come osservato in uno studio multicentrico condotto in Italia nel 2011 e promosso dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA) su un campione di 162 ragazzi con un’età media di 15,5 anni a cui è stata posta diagnosi di disturbo di personalità, sembrerebbe che la categoria diagnostica maggiormente rappresentata tra i disturbi di personalità sia prettamente quella border, che da sola rappresenta il 45% del campione esaminato. Tale categoria sembra avere una relazione significativa con la presenza in anamnesi di una sintomatologia di tipo esternalizzante: aggressività, disturbi della condotta, isolamento sociale, agiti autolesivi e tentativi di suicidio.

Per quanto riguarda la sintomatologia esternalizzante, come riportato dal neuropsichiatra infantile Michele Poletti, circa il 40% dei soggetti adulti con DBP riporta sintomi compatibili con una diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI) in infanzia e i precoci deficit dell’attenzione in bambini che hanno vissuto un’esperienza traumatica sono considerati precursori del futuro sviluppo del DBP.

Per quanto riguarda i comportamenti di autolesionismo in età evolutiva, è da considerare che in ambito ospedaliero vengono osservati con maggiore frequenza rispetto al passato: in particolare, nel decennio tra il 1990 e il 2000, sono aumentati dal 3.2% al 4.7.

I criteri relativi alla diagnosi di DBP in adolescenza sono stati tradizionalmente mutuati dai criteri utilizzati per la diagnosi dell’adulto. Tuttavia, nonostante il costrutto sia ben consolidato nella popolazione adulta, il fatto che ne esista un corrispettivo per la popolazione adolescente è stato negli ultimi decenni una questione controversa e oggetto di ampio dibattito.

L’affidabilità rispetto alla trasposizione integrale dei criteri diagnostici per DBP dall’ambito della psicopatologia dell’adulto a quella dell’adolescente è stata indagata attraverso una revisione sistematica del 2004, condotta dagli psichiatri Helen Bondurant, Brian Greenfield e Sze Man Tse. Dai risultati emersi, è possibile affermare che non vi sono differenze significative nell’incidenza di DBP, in particolare quando il numero degli adolescenti ospedalizzati (53%) viene confrontato con quello degli adulti (47%). Tuttavia, quando l’efficienza diagnostica dei criteri per DBP viene esaminata in questi due gruppi, il “potere predittivo positivo” dei criteri, cioè la capacità di ciascun criterio di predire la presenza del disturbo, era maggiormente uniforme nel gruppo adulti rispetto al gruppo adolescenti. Al contrario, il “potere predittivo negativo” dei criteri, cioè l’assenza degli stessi, che equivale a dire che la diagnosi è meno probabile, era comparabile tra i due gruppi. Quindi, mentre è possibile applicare i criteri dell’adulto alla diagnosi di BPD adolescenziale, alcuni criteri diagnostici sono più predittivi di altri quando si considera l’epoca dello sviluppo.

Entrambi i gruppi di pazienti con DBP (adolescenti e adulti) mostravano una sovrapposizione con altri disturbi di personalità, e tale condizione era significativamente maggiore rispetto ai gruppi di personalità non-borderline. Inoltre, il gruppo di adolescenti con BPD aveva una distribuzione relativamente ampia di comorbilità rispetto al gruppo di adulti.

Per concludere, un corpo significativo di ricerche suggerisce che segni e sintomi di DBP compaiono molto prima dell’età adulta, spesso nei bambini più piccoli, e che gli adolescenti possono mostrare l’intera gamma di sintomi che si qualificano per una diagnosi di BPD. Tuttavia, ulteriori ricerche sono di fondamentale importanza per raffinare il grado di sensibilità dei criteri utilizzati ai fini di un corretto assessment, per ridurre le ambiguità sottese alle possibili comorbilità e per definire una modalità d’ intervento istituzionalmente condivisa contraddistinta da adeguatezza e tempestività.

Per approfondimenti

Becker DF, Grilo CM, Edell WS, McGlashan. Comorbidity of borderline personality disorder with other personality disorders in hospitalized adolescents and adults. TH Am J Psychiatry. 2000 Dec; 157(12):2011-6.

Becker DF, Grilo CM, Edell WS, McGlashan. Diagnostic efficiency of borderline personality disorder criteria in hospitalized adolescents: comparison with hospitalized adults. Am J Psychiatry. 2002 Dec; 159(12):2042-7.

Bondurant H, Greenfield B, Tse SM. Construct validity of the adolescent borderline personality disorder: a review. Can Child Adolesc Psychiatr Rev. 2004;13(3):53-57.

Case, Brady G.; Olfson, Mark; Marcus, Steven C.; Siegel, Carole (2007). Trends in the Inpatient Mental Health Treatment of Children and Adolescents in US Community Hospitals Between 1990 and 2000. Archives of General Psychiatry, 64(1), 89–. doi:10.1001/archpsyc.64.1.89

Chanen, A. M., & McCutcheon, L. K. (2013). Prevention and early intervention for borderline personality disorder: Current status and recent evidence. British Journal of Psychiatry, 202(S54), s24–s29

Chanen, Andrew M. (2015). Borderline Personality Disorder in Young People: Are We There Yet?. Journal of Clinical Psychology, 71(8), 778–791.

Garnet, K. E., Levy, K. N., Mattanah, J. J. F., Edell, W. S., & McGlashan, T. H. (1994). Borderline personality disorder in adolescents: Ubiquitous or specific? The American Journal of Psychiatry, 151(9), 1380–1382.

Griffiths, M. (2011). Validity, utility and acceptability of borderline personality disorder diagnosis in childhood and adolescence: Survey of psychiatrists. The Psychiatrist, 35(1), 19–22.

Guilé JM, Boissel L, Alaux-Cantin S, de La Rivière SG. Borderline personality disorder in adolescents: prevalence, diagnosis, and treatment strategies. Adolesc Health Med Ther. 2018;9:199-210.

Larrivée MP. Borderline personality disorder in adolescents: the He-who-must-not-be-named of psychiatry. Dialogues Clin Neurosci. 2013;15(2):171-179.

Laurenssen, E. M., Hutsebaut, J., Feenstra, D. J., Van Busschbach, J. J., & Luyten, P. (2013). Diagnosis of personality disorders in adolescents: A study among psychologists. Child and Adolescent Psychiatry and Mental Health, 7(1), 3.

Meijer M, Goedhart AW, Treffers PD. The persistence of borderline personality disorder in adolescence. J Pers Disord. 1998 Spring;12(1):13-22.

Ancona et al. (2011) Segnali precoci e diagnosi disturbo di personalità : studio multicentrico su casistica in adolescenza. Gior Neuropsich Età Evol, 31 (Suppl.1):21-28

Poletti (201O). Aspetti neuro evolutivi del Disturbo Borderline di Personalità. Psicologia Clinica dello Sviluppo, A. XVI, 3: 449-469.

Regolazione emotiva e autolesionismo

di Emanuela Pidri

Dalla diagnosi al trattamento dell’autolesionismo non suicidario

L’autolesionismo è una pratica diffusa tra gli adolescenti e i giovani adulti. L’incidenza di tale fenomeno oscilla tra il 15 e il 20%, mentre l’epoca di esordio si aggira intorno ai 13-14 anni, con una prevalenza del 22% nelle donne. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V) inserisce tra i disturbi psicopatologici due categorie diagnostiche: autolesionismo non suicidario e autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato. La condotta autolesiva deve essere preceduta da una o più delle seguenti aspettative: ottenere sollievo da una sensazione/stato cognitivo negativo; risolvere una situazione relazionale; indurre una sensazione positiva. Inoltre, il comportamento autolesivo deve essere associato ad almeno uno dei seguenti sintomi: difficoltà interpersonali o sensazioni/pensieri/sentimenti negativi precedenti al gesto autolesivo; preoccupazione incontrollabile per il gesto; frequenti pensieri autolesivi. Le motivazioni sottostanti la messa in atto dell’autolesionismo sono in genere relative la necessità di uscire da uno stato mentale di vuoto per riconnettersi alla realtà, spostando così l’attenzione dal dolore emotivo a quello fisico, vissuto come più tollerabile. Non c’è una singola causa ma una concatenazione di fattori e di eventi, il più delle volte traumatici (abusi di tipo fisico, psicologico o sessuale, bullismo, problemi familiari di negligenza e conflitti). Attraverso la messa in atto di un comportamento autolesivo, il soggetto solitamente prova a: gestire o ridurre l’ansia e lo stress alla ricerca di un senso di sollievo; scaricare la rabbia, la frustrazione, la colpa e la vergogna; riacquisire il controllo del proprio corpo, delle proprie emozioni e sensazioni; comunicare il proprio malessere interiore; ricercare attenzione o attuazione di punizioni. Alcuni fattori sono in grado di aumentare il rischio di mettere in atto condotte autolesive: età, avere amici o partner autolesionisti, soffrire di altre patologie psichiatriche; tratti temperamentali (perdita di controllo, impulsività e disregolazione emotiva); insoddisfazione e vergogna del proprio corpo; bassa autostima. Nonostante gli atti autolesionistici abbiano una natura diversa rispetto ai tentativi di suicidio, esiste un forte legame predittivo. Dal punto di vista neuroscientifico, uno studio coordinato dallo psichiatra tedesco Hanfried Helmchen nel 2006 ha rilevato che le aree del cervello che codificano l’intensità del dolore non differenziano tra stimoli dolorosi generati dal contesto esterno e quelli autoprodotti. Alla luce di tali risultati, è possibile ipotizzare, da un punto di vista psicologico, che l’autolesionismo porti il corpo/la mente a preferire un dolore proveniente dal corpo, al fine di evitare un dolore più intenso proveniente dal mondo emotivo/relazionale. In questo modo, anche a livello fisiologico, emerge come l’evitare il contatto con le proprie emozioni, attraverso l’autoinfliggersi dolore, abbia un effetto meno doloroso rispetto al venire in contatto con le emozioni stesse. Infine, le ricerche hanno evidenziato una disfunzione del sistema serotoninergico nelle persone che compiono atti autolesivi, che costituisce il correlato biologico dei comportamenti impulsivi e aggressivi. Ciò spiegherebbe l’impiego di antidepressivi per la riduzione della compulsione a ferirsi e, nei casi più severi, l’opportunità di un periodo di osservazione in ospedale.  L’approccio cognitivo-comportamentale prevede l’utilizzo di tecniche utili  ad aiutare gli adolescenti e i giovani adulti ad affrontare eventuali situazioni elicitanti l’autolesionismo. Strumenti cognitivo-comportamentali, quali l’analisi funzionale, potrebbero essere preziosi al fine di identificare gli antecedenti e le conseguenze situazionali, cognitive ed emotive dell’atto autolesivo. La Dialectical Behavior Therapy prevede il ricorso a setting multipli di trattamento: individuale, gruppo di skill training, coaching telefonico e gestione del caso in équipe. Appare fondamentale la gestione della regolazione emotiva che richiede l’abilità di sentire ed etichettare le emozioni provate e l’abilità di ridurre gli stimoli emotivamente rilevanti, che potrebbero causare la riattivazione di emozioni negative/positive oppure risposte emotive secondarie. Di notevole importanza, in tali casi è l’incremento delle abilità psicosociali e l’aumento della motivazione al cambiamento.

Per approfondimenti:

American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5. Arlington, VA. (Tr. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014).

Kiekens, G., Hasking, P., Bruffaerts, R., Claes, L., Baetens, I., Boyes, M., Mortier, P., Demyttenaere, K., Whitlock, J. (2017). What predicts Ongoing Nonsuicidal Self-Injury?: A Comparison Between Persistent and Ceased Self-Injury in Emerging Adults. Journal of Nervous & Mental Disease.

Linhean, M. (2011). Trattamento cognitivo comportamentale del disturb borderline. Raffaello Cortina Editore.

Porr, V. (2020). Superare il disturbo borderline di personalità. Guida pratica per familiari, partner e clinici. Trento: Centro Studi Erickson

Foto di cottonbro da Pexels

Azioni al posto delle parole

di Daniele Migliorati
curato da Elena Bilotta

La relazione tra autolesionismo e alessitimia nel Disturbo Borderline di Personalità.

Il disturbo Borderline di Personalità (DBP) viene definito nel DSM-5 come avente caratteristiche di “instabilità dell’immagine di sé, degli obiettivi personali, delle relazioni interpersonali e degli affetti, accompagnata da impulsività tendenza a correre rischi e/o ostilità”. Una delle difficoltà maggiori di tali pazienti è sicuramente la regolazione delle emozioni e questo potrebbe spiegare l’insorgenza di comportamenti pericolosi dei DBP, come l’autolesionismo. I metodi più frequenti riportati sono tagli, graffi, bruciature, colpi con oggetti contundenti e battere la testa contro il muro. Tali comportamenti sembrano essere funzionali alla regolazione delle emozioni; infatti i pazienti spesso raccontano di utilizzare tali condotte autodistruttive con l’intento di minimizzare un’emozione negativa oppure per comunicare o influenzare altre persone, quindi agendo le proprie difficoltà invece di verbalizzarle (azioni al posto delle parole). Circa il 70% dei pazienti DBP ha una storia di autolesionismo. Questi comportamenti hanno conseguenze negative e costi anche per la salute generale, dato che tagli e contusioni sono spesso motivo di accesso a cure di pronto soccorso.

Doctors (1981) suggerisce che le condotte autolesionistiche, a prescindere che si verifichino in pazienti con DBP o meno, possano essere collegate all’alessitimia, ovvero all’incapacità di identificare e descrivere le proprie emozioni, unita a una tendenza a focalizzarsi su elementi esterni/concreti, piuttosto che alla propria esperienza emotiva. La difficoltà a descrivere le proprie emozioni sembra spiegare i comportamenti autolesionistici, come se i pazienti alessitimici, non essendo in grado di comunicare le proprie emozioni adeguatamente, agissero tali comportamenti al fine di ridurre il distress emotivo. Una ricerca recente condotta su 185 pazienti con DBP, nel tentativo di capire quale sia l’associazione fra alessitimia, autolesionismo e DBP, ha confermato il precedente dato circa la grande frequenza di condotte autolesionistiche nei BDP (82% del campione) e ha identificato cinque funzioni di tale comportamento, ovvero:

1) soppressione/evitamento di emozioni negative;
2) auto-punizione;
3) evitamento di immagini o ricordi spiacevoli;
4) evitamento di sensazioni di vuoto;
5) per sfuggire da uno stato di confusione.

Inoltre, il 71% del campione presentava alti punteggi di alessitimia. In ultima analisi, la ricerca riporta che esiste un’associazione fra la frequenza degli eventi autolesionistici e il punteggio di alessitimia, a prescindere dal genere e dalla eventuale comorbilità con sintomi depressivi. Lo studio illustra quindi come una maggior compromissione sul piano della comunicazione emotiva possa essere un fattore fortemente predittivo del comportamento autolesionistico in un campione di pazienti con disturbo borderline di personalità.

Questo risultato è estremamente rilevante in campo clinico, perché indirizza le scelte di strategia terapeutica verso l’obiettivo di migliorare ed ampliare il vocabolario delle emozioni in tali pazienti, al fine di migliorare le loro capacità di regolazione emotiva. É infatti noto che il solo saper riconoscere le emozioni e saperle nominare correttamente, riduce di molto il loro impatto attivante. Numerosi approcci terapeutici di matrice cognitivista, come la terapia dialettico comportamentale, si focalizzano sulle abilità di regolazione delle emozioni in tali pazienti come strategia primaria di trattamento.

Riferimenti bigliografici

Sleuwaegen, E., Houben, M., Claes, L., Berens, A., & Sabbe, B. (2017). The relationship between non-suicidal self-injury and alexithymia in borderline personality disorder:“Actions instead of words”. Comprehensive psychiatry, 77, 80-88.

Doctors S. The symptom of delicate self-cutting in adolescent females: a developmental view. In: Feinstein SC, Looney JG, Schwartzberg AZ, & Sorosky AD, editors. Adolesc Psychiatry. Chicago: University of Chicago Press; 1981. p. 443–60.

 

Stare male. Farsi male

di Miriam Miraldi

Il dolore fisico come tentativo di soluzione al dolore emotivo tra gli adolescenti

Negli ultimi anni, se da una parte i dati sul suicidio, seconda causa di morte nei giovani, hanno mostrato un generale calo, dall’altra sono invece aumentati i comportamenti autolesivi, ovvero di aggressione diretta verso di sé, attraverso tagli, bruciature, ferite.

Secondo uno studio del 2017 dell’Osservatorio Nazionale per l’adolescenza, due giovani su dieci hanno questo tipo di esperienza. Alcuni studi rilevano maggiore frequenza nelle ragazze, altri sembrano invece non rilevare significative differenze tra ragazzi e ragazze nella frequenza, piuttosto le differenze di genere sono più evidenti nelle modalità: mentre le ragazze utilizzano maggiormente il cutting o il tagliarsi, attraverso l’uso di lamette o altri materiali come pezzi di vetro,  i ragazzi tendono a utilizzare prevalentemente colpi autoinferti  o bruciature, per esempio di sigaretta o con accendini. I dati possono essere sottostimati in quanto tali comportamenti vengono agiti segretamente e possono essere accompagnati anche da vergogna e colpa, contrastando il diffuso malinteso che l’autolesionismo sia prevalentemente una forma di ricerca di attenzioni.

Solitamente il primo episodio avviene tra i 13 e i 14 anni, tuttavia si osservano alcune più rare situazioni anche in età precedente; in ogni caso si tratta generalmente di giovani che riportano caratteristiche associate al disagio emotivo come la forte autocritica, la depressione, l’ansia e la disregolazione delle emozioni. Inoltre, la letteratura indica che questi fenomeni si associano ad altri tipi di comportamenti autodistruttivi, come le difficoltà legate all’alimentazione e l’abuso di sostanze.

La ricercatrice americana Jennifer Muehlenkamp, in una recente analisi sul tema, condotta insieme ai suoi colleghi, ha evidenziato come nella letteratura scientifica il termine “autolesionismo intenzionale” o “auto-danneggiamento intenzionale” (DSH, deliberate self-harm) viene spesso impiegato come un termine più comprensivo per comportamenti autolesionistici, con o senza intenzionalità suicidaria, che hanno esiti non fatali; questa espressione tende a essere utilizzato principalmente nei paesi europei. Al contrario, molti studi pubblicati da ricercatori del Canada e degli Stati Uniti utilizzano “autolesionismo non suicidario“ (NSSI, non-suicidal self injury) per intendere l’aggressività deliberata e autoinflitta al proprio corpo, senza intento suicidario. In quest’ultima accezione, l’autolesionismo è riconosciuto anche come disturbo specifico nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5). Uno dei criteri diagnostici, in particolare, sottolinea anche l’aspetto “motivazionale”, per cui si osserva che l’individuo è coinvolto in attività autolesionistiche con una o più delle seguenti aspettative: ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi;  risolvere una difficoltà interpersonale; indurre una sensazione positiva.

L’autolesionismo può associarsi a diverse condizioni psicopatologiche, è positivamente correlato al suicidio, e assolve a differenti funzioni sia interpersonali che intrapersonali; lo si riscontra in particolare tra i giovani affetti da disturbi ansioso-depressivi e in coloro i quali mostrano alti livelli di disregolazione emotiva, caratterizzata da marcati e repentini cambiamenti dell’umore.

Ma perché i giovani e giovanissimi attivano tali comportamenti?

Le emozioni costituiscono un potente trigger e l’autolesionismo può essere al servizio di vari scopi: può servire per esprimere rabbia autodiretta o disgusto verso di sé, per punirsi o espiare una colpa, per porre fine a momenti di dissociazione o depersonalizzazione (dovuti per esempio a traumi o abusi); in generale, comunque, viene per lo più eseguito per “dare sollievo”, per alleviare – seppur solo temporaneamente – intense emozioni negative e per interrompere stati mentali indesiderati di frustrazione, solitudine, tristezza, distacco, angoscia o vuoto. Le condotte autolesionistiche consentono di spostare l’attenzione sul dolore fisico, non occupandosi di quello emotivo da cui, di fatto, originano. Anche da un punto di vista psicofisiologico, diverse ricerche sostengono l’ipotesi per cui esso eserciti la funzione di “regolatore delle emozioni”, in quanto si riscontra un abbassamento dell’arousal durante e dopo la messa in atto comportamenti autolesivi, che avrebbero dunque un potere “calmante”; questi studi derivano per lo più dalla teoria di Marsha Linehan sulla disregolazione emotiva nel Disturbo borderline di personalità, e sostengono che l’autolesionismo sia quindi una strategia di coping, ovvero di fronteggiamento delle situazioni emotivamente stressanti, per quanto chiaramente maladattiva. Il fatto che tale strategia in qualche modo “funzioni”, inducendo stati positivi, può attivare un circolo vizioso di mantenimento, favorendo la reiterazione di tali comportamenti.

Per approfondimenti

Muehlenkamp, J. J., Claes, L., Havertape, L., & Plener, P. L. (2012). International prevalence of adolescent non-suicidal self-injury and deliberate self-harm. Child and adolescent psychiatry and mental health6(1), 10.

Linehan M.M. (2011). Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina Editore.

Klonsky E.D., Victor, S.E e Boaz Y.S. (2014). Nonsuicidal Self-Injury: What we know and what we need to know. The Canadian Journal of Psychiatry, 59(11), 565-568.

Andover M.S., Morris B.W., (2014). Expanding and Clarifying the Role of Emotion Regulation in Nonsuicidal Self-Injury. Can J Psychiatry, 59(11): 569–575.

“Spesso il male di vivere ho incontrato”

di Caterina Parisio

Il suicidio in adolescenza: i fattori di rischio e il trattamento di disturbi associati con l’autolesionismo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera il suicidio come un problema complesso, non ascrivibile ad una sola causa o a un unico motivo. Questo fenomeno sembra piuttosto derivare da un insieme di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali e ambientali.

Nel 2000 circa un milione di individui ha perso la vita a causa del suicidio, mentre un numero di individui variabile da 10 a 20 volte più grande ha tentato il suicidio. Ciò vuol dire che muoiono più persone a causa del suicidio che per conflitti armati in tutto il mondo e per incidenti automobilistici. In tutte le nazioni, il suicidio è attualmente tra le prime cause di morte nella fascia di età 15-34 anni. Leggi tutto ““Spesso il male di vivere ho incontrato””

Autolesionismo: come intervenire

di Niccolò Varrucciu

Analisi e gestione dei comportamenti autolesivi

Secondo l’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), i comportamenti autolesivi non suicidari (NSSI) sono atti tesi al danneggiamento dei tessuti, con conseguenti sanguinamento, ecchimosi e sperimentazione di sensazioni dolorose.

Le principali aspettative che sottendono questo tipo di comportamenti sono la ricerca di sollievo da un sentimento o stato cognitivo negativo, la risoluzione di difficoltà interpersonali o l’induzione di uno stato emotivo positivo.

Tale comportamento s’innesta in un pregresso di difficoltà interpersonali, pensieri o emozioni negative, come autocritica legata a stati d’ansia, tristezza o un periodo di preoccupazione per il comportamento previsto, percepito come difficile da controllare.

Il comportamento autolesivo non dev’essere riconducibile a una pratica socialmente accettata, come i piercing, o essere parte di un rituale e causa un disagio clinicamente significativo, interferenze interpersonali o scolastiche, o in altre aree importanti del funzionamento. Leggi tutto “Autolesionismo: come intervenire”

Salvarsi la pelle

di Emanuela Pidri

L’importanza della diagnosi clinica: forme di autolesionismo e classificazione

L’autolesionismo è molto diffuso tra gli adolescenti e i giovani adulti, con incidenze rispettive del 22% nel primo caso e del 6% nel secondo. Gran parte di questi soggetti sperimenta episodi depressivi, stress, sintomi ansiosi, difficoltà relazionali e isolamento sociale, basso rendimento scolastico, con probabile disturbo della condotta. La possibilità di una diagnosi specifica consentirebbe di migliorare la comunicazione tra esperti e la ricerca, favorendo la sperimentazione di modalità di trattamento specifiche. In letteratura, il termine maggiormente utilizzato per far riferimento a comportamenti autolesivi è “Deliberate Self Harm”: tradotto come “auto-danneggiamento intenzionale” e basato su tre aspetti (diretto/indiretto, episodico/ripetitivo, rischio di letalità), comprenderebbe le condotte identificate come “Self Harm”, “Self poisoning”, “Self injury”. Nello specifico, l’espressione “Self Harm” (auto-danno) si riferisce a condotte a rischio come l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua e il gioco d’azzardo; i comportamenti di “Self Poisoning” (auto-avvelenamento) consistono in azioni quali l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe; le condotte autolesive denominate “Self Injury” (auto-ferita) racchiudono fenomeni immediati e intenzionali, come il tagliarsi o il bruciarsi. Una delle prime classificazioni cliniche riguardo l’autolesionismo è stata proposta dagli psicologi Favazza e Rosenthal, a seconda del grado di danneggiamento dei tessuti e del pattern comportamentale messo in atto: 1) l’“autolesionismo maggiore” consiste in atti infrequenti e isolati, che provocano un grave e permanente danneggiamento dei tessuti, ed è solitamente associato a psicosi; Leggi tutto “Salvarsi la pelle”

Quando è meglio il dolore che il nulla

di Emanuela Pidri

Il “Cutting” negli adolescenti. Come riconoscerlo e curarlo

L’autolesionismo, esploso di recente come fenomeno adolescenziale, ha una storia relativamente breve per quanto riguarda le tassonomie di tipo psichiatrico. È definito come atto reiterativo, privato e personale, volto alla ricerca di conforto, protezione, aiuto. Si chiama “Cutting” la diffusa e attuale tendenza da parte dei teenager, di solito ragazze, a tagliare, incidere, ferire la propria pelle con oggetti taglienti simboleggiando il controllo esercitato sul proprio sé. A livello gruppale, il Cutting può essere usato per sancire l’appartenenza a un gruppo, definendone l’identità comune. A livello individuale, invece, il significato attribuitogli è molto più complesso. Molti adolescenti che si fanno male, infatti, dicono di “non sentirsi reali”, di sentirsi “vuoti”, o di “non sentirsi affatto”, e preferiscono il dolore fisico al disagio psichico. Attraverso il Cutting si tramuta in sofferenza fisica (reale, controllabile, tollerabile) una sofferenza emotiva (emozioni forti, problemi relazionali, vuoto) che non si sa come esprimere e gestire.
In soggetti ipercritici, il Cutting rappresenta una strategia di autopunizione o una forma di rabbia auto diretta; in soggetti abusati, invece, è un canale espressivo per qualcosa che le parole non riescono a dire perché evocative del trauma subito e, in soggetti con difficoltà nell’integrazione dei propri vissuti, funge da strategia per costruire una memoria di sé. Leggi tutto “Quando è meglio il dolore che il nulla”