La bolla (non sicura) del clima

di Barbara Basile

Il cambiamento climatico ha un impatto significativo anche sulla salute mentale: qual è il ruolo della psicoterapia?

È sempre più difficile ignorare le immagini che, soprattutto in occasione della recente conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP26) a Glasgow, spopolano su giornali, riviste, social network e in rete in generale. Fotografie di orsi polari intrappolati su iceberg alla deriva, mari invasi dalla plastica, foreste pluviali un tempo lussureggianti rase al suolo dal disboscamento, uomini, koala e altri animali che sfuggono agli incendi apocalittici e bambini che cercano invano di nuotare nell’acqua putrida per avere salva la vita.

Perché parlare di questo su cognitivismo.com, che si occupa di salute mentale e di psicologia?

Le motivazioni sono diverse, la più banale potrebbe essere: “perché non è più possibile voltarci dall’altra parte e ignorare questa emergenza”; o, ancora: “perché il cambiamento climatico è anche un’emergenza sanitaria e i medici hanno il dovere di agire sia come individui sia come parte di un’organizzazione”. E, in effetti, il Servizio Sanitario Nazionale britannico (NHS) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per citarne alcuni, da anni si occupano della sensibilizzazione a questi temi. L’NHS, per esempio, ha ridotto di un terzo, rispetto al 1990, le proprie emissioni proprio grazie a politiche che promuovono la conservazione, la raccolta differenziata e una maggiore consapevolezza sui problemi legati all’ambiente nei suoi professionisti.

Il cambiamento climatico ha un impatto significativo anche sulla salute mentale. In molti contesti, e non solo in quelli più colpiti dalle catastrofi climatiche (come l’America Latina, il Sud Est Asiatico, l’Africa e l’Australia), sempre più spesso le persone si rivolgono agli specialisti per chiedere aiuto rispetto a vissuti di angoscia e ansia relativa all’ambiente e alla sua distruzione (in gergo, ecoanxiety).

Da un recente sondaggio della British Association for Counselling and Psychotherapy (BACP) è emerso che il 55% delle persone intervistate ritiene che il cambiamento climatico abbia avuto un impatto sul proprio benessere, l’8% stima che l’impatto sia notevole, il 30% è preoccupato per come ne sarà influenzata la sua vita futura e il 58% si preoccupa degli effetti sulle generazioni future. In particolare, sono i giovani di età compresa tra i 16 e i 34 anni ad essere i più preoccupati. Analogamente, da un altro studio condotto dall’Università di Bath che ha coinvolto 10.000 persone di età compresa tra 16 e 25 anni, in oltre dieci Paesi, è emerso che il 60% dei ragazzi è estremamente turbato dai cambiamenti climatici, riportando emozioni di paura, ansia e tristezza. Infine, dal sondaggio emerge che quattro giovani su dieci hanno affermato di sentirsi traditi, ignorati e abbandonati dagli adulti e dai politici.

Dunque, quali risposte possiamo dare noi professionisti della psiche?

Caroline Hickman, psicoterapeuta, psicologa del clima, psicoterapeuta e ricercatrice, riconosce che è molto difficile per noi terapeuti capire come affrontare questi temi con i nostri pazienti. Molti di noi – afferma la collega – sono abituati a focalizzarsi sui problemi soprattutto a un livello individuale, mentre il cambiamento climatico ha un impatto a livello esistenziale, ambientale e collettivo e non sempre sappiamo come muoverci su questi piani. Inoltre, da essere umano quale è, il clinico stesso può avere delle reazioni assolutamente personali rispetto a questo tema. Secondo la psicoanalista Sally Weintrobe la realtà del cambiamento climatico comporta il crollo della nostra onnipotenza e ci obbliga a dover rivalutare radicalmente il senso di noi stessi. Ci percepiamo vulnerabili, dipendenti, non protetti e fragili, quando invece pensavamo di essere invincibili.

Nel tentativo di trovare una chiave di lettura delle nostre reazioni alla crisi climatica, le colleghe del Climate Change Awareness and Action Committee (Comitato sulla Consapevolezza e l’Azione per il Cambiamento Climatico) della ISST (Società Internazionale di Schema Therapy) hanno cercato di delineare, avvalendosi dei costrutti propri di questo approccio clinico, le diverse modalità disfunzionali che si possono attivare quando confrontati con questa emergenza.

Nella relazione presentata all’ultimo convegno internazionale di Schema Therapy, nel 2020, le terapeute hanno identificato come, partendo dalle reazioni più emotive (racchiuse negli schema mode del Bambino), è possibile individuare:

  • dei vissuti di paura, angoscia e assenza di speranza, tipici del Bambino Vulnerabile (es. “Sono terrorizzato che tutto finisca!”, “Mi sento solo e abbandonato in questo mondo spaventoso e nessuno ci può aiutare!”);
  • delle emozioni rabbiose, specifiche del Bambino Arrabbiato (es. “Odio tutto questo! Sono davvero furioso per essere costretto a guardare queste immagini o ascoltare queste cose orribili!”);
  • delle espressioni del Bambino Viziato/Impulsivo (es. “Non voglio incasinarmi la vita e cambiare le mie abitudini per questo! Per me funziona tutto benissimo e non ho nessun motivo di cambiare nulla!”).

Su un piano più comportamentale (i cosiddetti coping mode), di fronte alla crisi ambientale, è possibile attivare:

  • delle strategie di evitamento, in cui si tende a nascondere la testa sotto la sabbia, eludendo il problema (es. “Meglio non pensarci e bermi un bel bicchiere di vino”);
  • un atteggiamento di rassegnazione (es. “Ho smesso di riciclare, tanto non c’è nessuna speranza, è già troppo tardi per fare qualcosa e salvare il mondo, non possiamo più fare nulla”!);
  • agire all’inverso (iper-compensazione), per esempio sfruttando in modo esasperato la Natura e le sue risorse, ridicolizzando e sminuendo la gravità di quanto sta accadendo e pretendendo di prosciugare il pianeta fino alla sua ultima risorsa.

Infine, sempre secondo la cornice della ST, potrebbero innescarsi:

  • una voce critica che si rivolge verso di sé (dicendo cose come: “Ti dovresti vergognare a lasciar morire il nostro pianeta!”), oppure verso gli altri (“Guarda quegli strafottenti che stanno gettando le loro porcherie dal finestrino della macchina!”);
  • dei messaggi colpevolizzanti ed esigenti (es. “È colpa tua se siamo in questa condizione!” o “Non fai abbastanza per salvare l’ambiente”).

In contrasto con queste modalità disfunzionali che spesso interagiscono tra di loro, proprio come si usa fare in psicoterapia, si intende promuovere una modalità adulta, consapevole e sana, che adotti un approccio più funzionale al problema climatico e contrasti i mode più disfunzionali: promuovere la speranza e la possibilità di cambiamento, invece di arrendersi o di farsi schiacciare dalla disperazione o dalla rabbia. Una modalità sana facilita un contatto più diretto con la natura e l’ambiente, promuove emozioni e comportamenti più autentici e responsabili nei loro riguardi, stimola le nostre risposte sensoriali (acuendo l’udito per ascoltare il cinguettio degli uccelli, incentivando l’uso dell’olfatto per sentire l’odore dei fiori o della pioggia, o, ancora, toccare le piante, svolgere attività all’aria aperta, e così via) e favorisce un approccio che consenta di immergersi e contemplare la natura e la sua magnificenza, dalla loro prospettiva.

Anche lo stimabile naturalista e divulgatore scientifico David Attenborough, d’altronde, nel suo intervento alla COP26, incita i governanti di tutti i paesi presenti, non alla paura, bensì alla speranza di poter salvare la nostra terra.

… Per i colleghi che desiderano porsi qualche domanda:

● Di quali nuove pratiche avremo bisogno per lavorare in modo sicuro ed efficace con i nostri clienti, in relazione ai temi del cambiamento climatico?

● Come vogliamo che le nostre categorie professionali ci rispondano e ci sostengano nel nostro lavoro?

● Cosa vorremmo dagli istituti di formazione e dai docenti dei corsi di formazione ai quali partecipiamo?

● Cosa possiamo imparare dalla salute mentale e dai colleghi di tutto il mondo che si occupano di questo tema (da anni)?

● Quali collaborazioni possiamo formare con altri professionisti del nostro settore?

● Che lavoro dobbiamo fare su di noi, sia nell’immediato, che come continua pratica di self-reflection?

● In che modo la nostra professione potrebbe aver bisogno di evolversi o addirittura trasformarsi alla luce di ciò che ci aspetta?

● TU, come e cosa puoi portare come contributo personale?

Per approfondimenti

www.bacp.co.uk/news/news-from-bacp/2020/15-october-mental-health-impact-of-climate- change/

https://schematherapysociety.org/Climate-Change-Awareness-and-Action-Committee

https://www.youtube.com/watch?v=o7EpiXViSIQ

https://www.bacp.co.uk/bacp-journals/therapy-today/2021/november-2021/the-big-issue/

https://schematherapysociety.org/Schema-Therapy-Bulletin

 

Foto di Markus Spiske da Pexels

 

 

 

 

Disturbi alimentari e memorie infantili

di Giulia Signorini

Esplorare le esperienze di vita precoci tramite l’impiego di tecniche immaginative

Restrizione calorica, abbuffate, condotte compensatorie (vomito autoindotto, utilizzo di lassativi, esercizio fisico eccessivo, etc.), pensiero massimamente focalizzato sul peso e sulla forma corporea, emozioni di vergogna, colpa, disgusto, ma anche ansia, rabbia (spesso inespressa) e solitudine… Il tutto accompagnato da una grande ambivalenza nei confronti del trattamento e del cambiamento: questi sono i termini che descrivono solitamente i disturbi del comportamento alimentare (DCA), per lo meno in prima battuta.

Sì perché il comportamento alimentare può essere letto non solo come la chiara espressione di un disagio clinico, ma anche come un modo (e un mondo) attraverso cui l’individuo è riuscito a trovare un equilibrio, per quanto disfunzionale sia nel lungo termine, una soluzione che gli consente di sopravvivere al meglio delle sue attuali consapevolezze e risorse. Sopravvivere a che cosa? Questa è la domanda interessante. E qui entra in gioco l’indagine del terapeuta: “Cosa c’entrano i miei genitori con tutto questo? Io non ho problemi con loro, ma con il cibo!” – plausibile obiezione dei pazienti quando vengono rivolte loro domande relative all’infanzia e alla relazione con le loro figure di accudimento. Accanto, infatti, a fattori temperamentali, fisici e socioculturali, le prime interazioni con le figure di accudimento primarie e l’ambiente familiare giocano un ruolo decisivo nello sviluppo dei disturbi alimentari (e nella psicopatologia in generale). Indagare le memorie infantili ha quindi molto a che fare proprio con l’individuo di oggi e i suoi problemi attuali, con ciò che in tempi “non sospetti” lui/lei ha imparato riguardo sé, il mondo, le relazioni, cosa ha valore e cosa non è importante.

In Schema Therapy, modello teorico e approccio terapeutico appartenente alla cosiddetta “terza ondata” del Cognitivismo, l’esplorazione dei contenuti relativi ai ricordi infantili ha come obiettivo l’identificazione dei bisogni emotivi non soddisfatti, a partire dai quali si formano gli schemi maladattivi precoci, che sottendono al funzionamento psicopatologico del paziente. Per questo tipo di indagine, ci si avvale anche di tecniche immaginative, attraverso le quali il terapeuta può sfruttare il grande potere dell’immaginazione umana e metterlo al servizio della terapia, sia in fase diagnostica (imagery diagnostico) sia in fase di trattamento (imagery with rescripting). Si tratta di tecniche potenti, da utilizzare dopo una specifica formazione, che consentono di bypassare filtri di natura cognitiva/razionale, solitamente attivi durante una narrazione verbale.

Proprio l’impiego dell’imagery diagnostico è stato oggetto dello studio condotto da Barbara Basile e colleghi, recentemente pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology. Il gruppo di ricerca ha coinvolto 49 pazienti affette da DCA (33 con diagnosi di Anoressia Nervosa e 16 di Bulimia Nervosa), ricoverate presso la casa di cura Villa Garda, in provincia di Verona, allo scopo di indagare i bisogni emotivi non soddisfatti legati a ricordi infantili. Gli autori erano interessati a capire, in particolare, se ci fossero dei bisogni infantili associati in modo specifico a particolari schemi (della paziente o del genitore, indagati attraverso specifici questionari self report) e anche a eventuali specificità di schemi o bisogni emotivi nell’Anoressia e nella Bulimia nervosa.

Lo studio ha rivelato che le esperienze negative infantili evocate durante la procedura di imagery riguardavano per la maggior parte dei casi la figura materna, evidenziando prevalentemente il non soddisfacimento dei bisogni di:

  • sicurezza e protezione, tipicamente legato a episodi di abusi fisici/sessuali/psicologici subiti dal paziente o forti litigi tra genitori in presenza del bambino – associato agli schemi di deprivazione e inibizione emotiva di entrambi i genitori e agli schemi di deprivazione emotiva e fallimento dei pazienti;
  • accudimento e cura: in relazione a momenti in cui uno o entrambi i genitori non erano in grado di occuparsi del bambino, abbandonandolo o non riuscendo a gestire una situazione negativa, mancando in stabilità e prevedibilità – associato agli schemi di dipendenza del paziente e pessimismo/negativismo da parte del padre;
  • espressione emotiva: tipico di quando vengono derise, ignorate o punite manifestazioni spontanee, o quando i bisogni altrui o le regole esterne sono considerate più importanti di quelle del bambino – associato allo schema di deprivazione emotiva da parte del padre.

Dalle descrizioni delle pazienti emerge una figura materna vulnerabile ai pericoli, prona all’autosacrificio, più abbandonica e allo stesso tempo più invischiata rispetto alla figura paterna, che, invece, è percepita come più inibita emotivamente e trascurante rispetto quella materna.

Inoltre, gli schemi individuali di invischiamento delle pazienti correlano con quelli materni di invischiamento, sottomissione e punizione. Proprio l’invischiamento, così come la vulnerabilità ai pericoli, potrebbe essere letto, secondo gli autori, come un modo disfunzionale di fornire protezione, limitando e scoraggiando lo sviluppo dell’indipendenza e dell’autonomia del bambino.

Per quanto riguarda le differenze tra gruppi diagnostici, i risultati dello studio hanno rivelato che i bisogni non soddisfatti di cura, accudimento e attaccamento sicuro sono significativamente associati solo alla diagnosi di Bulimia Nervosa, e che le pazienti di questo gruppo riportano maggiormente lo schema di autocontrollo insufficiente rispetto al gruppo di pazienti con Anoressia Nervosa.

Quali implicazioni per la pratica clinica?

I DCA hanno visto un vertiginoso aumento nel corso della pandemia: stando ai dati raccolti dall’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione clinica (ADI), l’incidenza dei casi è salita di oltre il 30% tra febbraio 2020 e febbraio 2021.

L’indagine dei bisogni emotivi non soddisfatti attraverso l’imagery diagnostico può rappresentare un ottimo punto di partenza per esplorare gli schemi degli individui affetti da questo disturbo, a partire proprio dal senso che queste narrazioni hanno permesso di dare a esperienze infantili negative. In altre parole, più che all’evento realmente accaduto, attraverso queste esplorazioni, al terapeuta interessa identificare le storie (schemi) che il paziente ha imparato a raccontarsi per dare un senso a quanto accaduto. Questo permette poi di collegare gli schemi (es. “Sono un peso per gli altri”; “Non sono amabile”; “Quello che provo è sbagliato”) alle strategie di coping disfunzionali che il paziente con DCA mette in atto (restrizione, ipercontrollo, abbuffate, etc.) – per sopravvivere alla sofferenza indotta dagli schemi stessi – e di lavorarci in terapia più consapevolmente.

Come auspicano gli autori dello studio, infine, sarebbe interessante esplorare in future ricerche la possibilità di predire gli esiti del trattamento a partire proprio da specifici schemi individuali o genitoriali.

Per approfondimenti

Basile, B., Novello, C., Calugi, S., Dalle Grave, R., Mancini, F. (2021). Childhood Memories in Eating Disorders: An Explorative Study Using Diagnostic Imagery. Frontiers in Psychology, July (12), https://doi.org/10.3389/fpsyg.2021.685194

Simpson, S., Smith, E. (2020). Schema Therapy for Eating Disorders: Theory and Practice for Individual and Group Settings. Routledge Editore.

Young, J.E., Klosko, J.S.; Weishaar M.E. (2003). Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità. Edizione italiana a cura di A.Carrozza, N. Marsigli e G. Melli. Eclipsi Editore.

/2021/01/24/rescripting-un-metodo-per-intervenire-sulle-esperienze-dolorose-precoci/

/2016/05/06/la-schema-therapy-uno-sguardo-ai-bisogni-e-alle-emozioni-delleta-infantile/

Foto di Alena Darmel da Pexels

Mamma controlla, papà aspetta

di Barbara Basile

Riconoscere e affrontare le dinamiche genitoriali

La madre è comunemente la principale figura di accudimento del bambino, soprattutto nei suoi primi anni di vita. Di conseguenza, la madre è la figura che trascorre più tempo con il bambino e che lo conosce meglio. Sa riconoscere il significato del suo pianto, ne identifica i bisogni e corrisponde le sue esigenze.

La mamma, vicina e presente, rischia così di diventare il “guardiano” di tutto ciò che riguarda il bambino, incluso l’avvicinarsi degli altri. Questo controllo, in parte naturale e in parte giustificato dalle esigenze ambientali, può portare sia al burnout della mamma – dopotutto, se guardi sempre tuo figlio, anche quando è il turno di qualcun altro che si prende cura di lui, ti sentirai presto esausto e esaurito – sia a un crescente conflitto tra i due genitori.

Accanto alle “mamma guardiana” (dall’inglese maternal gatekeeping), infatti, si delinea il “papà che aspetta”. Il papà in attesa del riconoscimento del proprio ruolo di padre e della possibilità di poterlo espletare. Quando il padre rientra a casa e cerca di inserirsi nel nucleo familiare non sempre trova lo spazio o il tempo per esplorare e conoscere i bisogni del piccolo. La mamma è sempre lì, pronta a fornire indicazioni, ad anticipare e spiegare cosa fare e come farlo al meglio, criticando o sbuffando alla prima cosa che non va come secondo lei dovrebbe andare, dalla temperatura del latte del biberon, al giusto abbinamento degli abitini indossati, all’elargizione di premi e punizioni: con diritto o meno, la madre è pronta a giudicare o inibire gli interventi del padre. A questa immagine si associano frasi come “quando saprà parlare…”, “quando lo capirà”, “quando saprà camminare…”. Quando, quando, quando. I vantaggi e i traguardi di cui potrà godere il padre vengono sempre posticipati al futuro, dilatando di anno in anno la possibilità di creare un legame con il figlio e correndo il rischio di non vederli mai arrivare.

Le ragioni per cui una madre si impegna nel gatekeeping variano. Le madri potrebbero avere difficoltà a rinunciare alla responsabilità della cura della prole, potrebbero voler convalidare il loro ruolo ed essere riconosciute per i sacrifici che fanno per le loro famiglie oppure potrebbero considerare il padre come incapace o addirittura un pericolo per i figli. Quest’ultimo punto di vista potrebbe essere basato su prove reali, sui comportamenti passati del padre o sui suoi fallimenti come uomo e padre.
La dinamica della “mamma guardiana” e del “papà che aspetta” si mantiene nel tempo, lasciando spazio a una madre che gira come una trottola attorno ai bisogni e alle necessità dei figli e a un padre assente. Questa dinamica, reiterata, può provocare conflitti e può accrescere la distanza tra i partner, logorandone il legame.

Se come genitori vi riconoscete in questa dinamica non cercatene la causa o l’origine. Per uscirne  non serve trovare il colpevole o individuare chi ha iniziato! Per lui il punto d’inizio potrebbe essere stato: “non mi lasciavi mai prendere in braccio il bambino”, mentre per lei forse era: “non mostravi alcun interesse per lui, non mi hai mai chiesto di poterlo cambiare”.  Seguire questa linea rischia di dare avvio a ulteriori discussioni interminabili, senza realmente offrire una soluzione. Il punto è che entrambi avete bisogno l’uno dell’altro nel percorso di genitorialità e della vostra coppia. Provate ad allontanarvi dal contenuto delle discussioni e spostatevi, invece, sui vostri bisogni. Come donna forse avresti bisogno di avere un partner che si mostri più coinvolto nella cura dei bambini e nella loro gestione quotidiana? E come uomo, invece, forse vorresti che la tua compagna ti consentisse di fare il papà? Provate ad essere più dolci l’uno per l’altro.

Prendiamo un esempio classico: il caricare la lavastoviglie. È il tipico stereotipo che fa sorridere, ma che divide le famiglie da quando hanno inventato la lavapiatti! Ciascuno vuole farla a proprio modo. Capita che quando un partner inserisce le stoviglie a modo suo, l’altro intervenga criticando o imponendo il proprio, più corretto. Come affrontare in modo più sereno questo  gesto di vita di coppia quotidiana?

La prima cosa da fare è prendere le distanze:

  • qual è lo scopo del caricare la lavastoviglie?  Che piatti, posate e bicchieri vengano puliti.
  • è possibile che questo avvenga in diversi modi? Certamente!
  • E ora… Qual è lo scopo dell’educare i figli? Che crescano e diventino adulti e che sappiano perseguire i valori e rispettare le regole che voi trovate importanti nella vita
  • È possibile che questo avvenga in modi diversi? Certamente!

Questo significa che dobbiamo lasciar andare tutto e far fare agli altri quello che gli pare? Oppure, che la lavastoviglie debba girare anche con un piatto e una postata, senza dire nulla in merito se non siamo d’accordo? Certamente no.

Significa, piuttosto, non alimentare una discussione infinita, cercando, invece, di restare nella relazione senza cadere in un circolo di accuse. In un attimo ci si trova a dire “ma cosa stai facendo ora?! Lasci partire la lavastoviglie senza niente dentro?”. Se l’altro partner ha avviato la lavastoviglie con cinque pezzi, forse aveva un buon motivo per farlo? Forse i piatti erano rimasti sporchi e oleosi oppure preferiva giocare con i bambini, invece di sprecare il proprio tempo lavando piatti e, magari, desiderava farti un piacere facendoti trovare tutto pulito al rientro a casa?

I bambini hanno bisogno che i padri abbiano il loro ruolo. I modi diversi di prendersi cura e di gestire le incombenze domestiche rappresentano un arricchimento peri bambini, senza dimenticare che pensare che ci sia una differenza nei modi di assolvere certi ruoli o compiti non implica necessariamente che questa differenza realmente esista!

Per approfondimenti
Nina Mouton (2020). Mild Ouderschap. Zelfs tijdens de woedeaanval in de supermarkt

Foto di Katie E da Pexels

Il ruolo della vergogna nel DOC

di Giuseppe De Santis
a cura di Barbara Basile

Il DSM-5 riconosce il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e disturbi correlati come una recente classificazione diagnostica. La categoria include il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da dismorfismo corporeo, la tricotillomania, la dermatillomania e il disturbo da accumulo.

Gli studi hanno dimostrato come il timore di colpa per irresponsabilità giochi un ruolo chiave nell’esordio e nel mantenimento del DOC. Tuttavia, nel presente articolo l’emozione di senso di colpa non verrà presa in considerazione. Per un approfondimento clinico e scientifico aggiornato si veda “La mente ossessiva” (Mancini, 2016).

In che cosa sono simili tutti i quadri clinici menzionati?

Oltre alle emozioni comunemente considerate come la colpa o l’ansia, diversi autori tra cui Weingarden (2015) suggeriscono che la vergogna potrebbe essere un anello trasversale di congiunzione tra queste diverse condizioni.

Secondo la definizione di Castelfranchi (2017), la vergogna è un’emozione sociale con la funzione di proteggere i nostri scopi di buona immagine, ovvero essere valutati positivamente da noi stessi e dagli altri. Si prova vergogna quando si teme un fallimento personale rispetto a degli standard ideali che ci si è posti, sentendosi quindi inadeguati.

La vergogna motiva al ritiro e all’isolamento sociale, compromettendo il funzionamento. È associata alla depressione, al suicidio e agisce come ostacolo per il trattamento terapeutico.

La vergogna dovuta ai sintomi e la vergogna per il proprio corpo sono particolarmente rilevanti nel DOC. La prima consiste in una valutazione secondaria di inadeguatezza rispetto alla presenza di un disturbo mentale; la seconda è un giudizio di indegnità dovuto alla percezione di difetti fisici.

Consideriamo ora il ruolo della vergogna in maniera più specifica.

La letteratura sul disturbo ossessivo-compulsivo suggerisce che la vergogna si riferisce al contenuto delle ossessioni e ai comportamenti compulsivi. Le ossessioni con contenuti violenti, sessuali o blasfemi potrebbero innescare più di tutte la vergogna dovuta ai sintomi. Successivamente, le compulsioni possono essere eseguite per neutralizzare sia l’ansia che la vergogna.

Nella tricotillomania e nella dermatillomania la vergogna dovuta ai sintomi è in relazione ai comportamenti dello strappare i capelli, stuzzicare la pelle e ai comportamenti post-compulsivi. La vergogna per il corpo, sperimentata in risposta ai danni derivanti dai comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo, insorge come emozione secondaria.

La vergogna dovuta ai sintomi nel disturbo da accumulo potrebbe accompagnare i pensieri sull’essere difettoso, dovuti al convivere con il disordine. La bibliografia sottolinea una variabile cognitiva che può essere correlata alla vergogna: l’insight critico. I soggetti con sintomi ego-distonici possono sperimentare vergogna in modo più pervasivo.

La vergogna per il proprio corpo è stata considerata un’emozione primaria sin dalle prime descrizioni cliniche del disturbo da dismorfismo corporeo. All’interno di un modello cognitivo, si ipotizza che bias cognitivi come l’attenzione selettiva al corpo e la generalizzazione eccessiva dei difetti fisici portino a cognizioni irrazionali sull’immagine corporea che generano vergogna.

L’attenzione alla vergogna potrebbe aumentare l’efficacia dei trattamenti del DOC, considerando alcune proposte critiche.

I clinici dovrebbero fornire una precoce psico-educazione ai pazienti in trattamento. Ricevere informazioni accurate e obiettive sul ruolo delle emozioni ha probabilmente il potenziale di ridurre la vergogna, diminuire i comportamenti protettivi e incoraggiare la ricerca di aiuto.

Le terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione potrebbero inoltre fornire interventi utili sulla vergogna da incorporare all’interno degli attuali trattamenti di ristrutturazione cognitiva, funzionali ad affrontare la vergogna come problema secondario e fattore di mantenimento.

Infine, sono necessarie ulteriori ricerche sulla vergogna come fattore di rischio e barriera al trattamento. I supporti empirici incoraggerebbero ad occuparsi della vergogna, con l’obiettivo di promuovere il miglior benessere psicologico possibile da un punto di vista globale.

Riferimenti bibliografici

Castelfranchi C., Che figura. Emozioni e immagine sociale, Bologna: Il Mulino, 2017.

Del Rosso A., Beber S., Bianco F., Di Gregorio D., Di Paolo M., Lauriola A.L., Morbidelli M., Salvatori C., Silvestri L., Basile B., La vergogna in psicopatologia, Cognitivismo Clinico (2014) 11, 1, 27-61.

Mancini F., La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo, Milano: Raffaello Cortina, 2016.

Weingarden H., Renshaw K.D., Shame in the obsessive compulsive related disorders: a conceptuale review, Journal of Affective Disorders, vol. 171 (2015): 74-84.

Disgusto morale e rabbia

di Roberta Romano
a cura di Barbara Basile

Due emozioni molto studiate sono il disgusto e la rabbia, soprattutto per quanto riguarda questioni etiche. Alcuni studi affermano che sentimenti ostili servono per prendere decisioni morali. Secondo l’ipotesi the community/contempt – autonomy/anger – divinity/disgust (CAD) la rabbia sembra nasca come risposta a violazione dei diritti e dell’autonomia, mentre il disgusto, nella sua accezione più morale, origina da violazioni della divinità o della purezza. In precedenti ricerche è stato ipotizzato che il disgusto possa sorgere quando una persona è vista come cattiva, indipendentemente dalla norma morale infranta, mentre la rabbia sembra essere legata alla valutazione di un’azione come giusta o sbagliata. Per testare queste ipotesi, Ginger-Sorolla e Chapman (2017) hanno svolto tre studi in cui sono state manipolate singolarmente le variabili relative all’azione e all’indole (caratteristiche che definiscono il carattere di un individuo) rispetto a violazioni morali dannose. Nel primo studio si presentano due brani: nel primo c’è John che apprende il tradimento della sua fidanzata e, sopraffatto dalla rabbia, la picchia; nel secondo c’è Robert che, di fronte alla medesima notizia, sfoga la rabbia sul gatto invece che sulla donna. E’ stato chiesto ai partecipanti di valutare il comportamento di John e Robert e di riportare le loro emozioni. I risultati indicano che l’azione rivolta contro il gatto è giudicata meno sbagliata rispetto a quella rivolta contro la donna, mentre il carattere morale di Robert è valutato peggiore rispetto a quello di John. Lo scenario del gatto e quello della donna evocano differentemente scenari di disgusto e rabbia, in particolare alti punteggi di disgusto per lo scenario del gatto e livelli elevati di rabbia per quello della donna. Coerenti con le previsioni, i risultati mostrano che un alto disgusto è associato con una valutazione del personaggio più negativa, rispetto alla rabbia. Il secondo studio ha cercato di separare l’azione dal protagonista: l’informazione riguardo l’azione è variata dalla manipolazione delle conseguenze e dal fatto che l’altra persona è stata danneggiata o meno. Inoltre è stato variato se l’agente credeva che l’azione avrebbe causato danno o meno. Come ci si aspettava, il desiderio dell’agente di provocare danno innalza nei partecipanti il giudizio di personaggio cattivo e ha portato alla scelta del disgusto più spesso rispetto alla rabbia, ancor di più quando non ci sono conseguenze. La rabbia invece predomina sul disgusto quando ci sono conseguenze dannose ma non il desiderio di danneggiare. Nell’ultimo studio gli autori hanno rimosso la manipolazione della credenza, fornendo informazioni solo sul desiderio di danneggiare e sulle conseguenze del danno, ipotizzando che la valutazione della persona mostrerebbe una più forte influenza di disgusto rispetto alla rabbia, mentre la valutazione dell’azione sarebbe legata maggiormente alle conseguenze, mostrando così un’influenza più forte della rabbia rispetto al disgusto. Si è visto che la rabbia è più alta quando accadono conseguenze negative, anche se l’agente non lo desiderava ma, contrariamente all’ipotesi di partenza, solo quando le emozioni sono focalizzate sulla persona piuttosto che sull’atto. I risultati dei tre studi supportano l’ipotesi dei ricercatori che il disgusto sarebbe attivato, in misura maggiore rispetto alla rabbia, come risposta a informazioni riguardanti le caratteristiche dell’agente. Complessivamente, questi risultati suggeriscono che disgusto e rabbia, sotto certe condizioni, sono sensibili alle diverse variabili morali. Sarebbe interessante valutare anche le differenti funzioni sociali di queste due reazioni, considerando anche il loro ruolo in diverse condizioni psicopatologiche (ad esempio, il disturbo ossessivo compulsivo e diversi disturbi di personalità).

Riferimenti bibliografici:

Giner-Sorolla, R., & Chapman, H. A. (2017). Beyond purity: Moral disgust toward bad character. Psychological Science.

Sclerosi Multipla: il lato psicologico

di Barbara Basile

Il modello dell’Acceptance and Committment Therapy (ACT)

La Sclerosi Multipla (SM) rappresenta la principale causa neurologica di disabilità nella popolazione giovane-adulta, con un esordio che si presenta tipicamente tra i 14 e i 40 anni e colpisce più frequentemente le donne. La prevalenza nei Paesi occidentali, dove la patologia si presenta in misura significativamente maggiore rispetto ad altre culture, è di uno su 800. Si tratta di una malattia infiammatoria demielinizzante che colpisce diffusamente la sostanza bianca del Sistema Nervoso Centrale (SNC) sia al livello dell’encefalo che del midollo spinale. La lesione anatomopatologica tipica della SM è la placca demielinizzante, un’area in cui, dopo una fase di infiammazione acuta a carico della sostanza bianca del SNC, si verificano fenomeni di cicatrizzazione e di parziale ricostituzione della guaina mielinica (elemento fondamentale per una buona propagazione degli impulsi elettrici). Le placche presentano una distribuzione variabile e imprevedibile e, di conseguenza, i deficit correlati possono coinvolgere diverse funzioni, tra cui principalmente quelle piramidali, sensitive, cerebellari, visive e cognitive. Comprensibilmente, vista anche l’età di esordio, la malattia è caratterizzata e accompagnata da una sintomatologia di tipo depressivo e ansioso, con manifestazioni che possono includere anche rabbia e labilità emotiva, e che si sommano a uno stato di fatica cronica. La patologia depressiva è presente in una percentuale che varia tra il 25 e il 50% dei pazienti, dove stati emotivi di tristezza e di ansia inficiano notevolmente il loro livello di benessere. 

Gli interventi psicologici sono volti soprattutto a sostenere il paziente nell’accettazione della sua nuova condizione e a gestire gli aspetti emotivi che derivano dalle difficoltà fisiche e dall’imprevedibilità del decorso della malattia. Gli obiettivi del trattamento riguardano anche l’adesione alla terapia farmacologica e ai controlli medici, in modo da favorire l’outcome riabilitativo e il funzionamento psicosociale. Il modello dell’Acceptance and Committment Therapy, meglio noto come ACT, si rende particolarmente utile nei casi di patologie organiche poiché aiuta il paziente a diventare più accettante rispetto alla sua condizione che, nel caso della SM, è imprevedibile a causa della grande variabilità della malattia. 

I protocolli di intervento ACT, la cui efficacia ad oggi è stata studiata negli USA e in Svezia, prevedono un contesto gruppale, in cui si affrontano i sei nuclei di intervento principali dell’ACT. Pur non esistendo ancora un protocollo manualizzato, il trattamento prevede delle fasi specifiche. In una prima fase, si prevede la psicoeducazione sulla malattia, si spiegano ai pazienti sia i possibili sintomi che la loro base organica, con una particolare attenzione all’intrinseca imprevedibilità del suo decorso, spiegandone i diversi fenotipi. La forma più frequente di SM, la recidivante-remittente (relapsing-remitting), rappresenta circa l’85% di tutte le diagnosi e si manifesta con episodi (definite ricadute o recidive) che alterano le funzioni neurologiche a cui segue un recupero funzionale parziale o totale e un periodo di relativa stabilità (fase di remissione) fino all’episodio successivo.Nelle forme primariamente e secondariamente progressive (primary and secondary progressive), si osserva un peggioramento costante della malattia, senza fasi di remissione e di recidive, in un lasso di tempo più o meno variabile. Infine, un ultimo fenotipo di SM presenta un esito di tipo benigno (o Clinically Isolated Syndrome, CSI) ed è caratterizzato da un unico episodio, a cui segue una remissione totale. Vedi la Figura per una rappresentazione grafica dei possibili fenotipi di malattia.

In una seconda fase del trattamento, si aiuta il paziente a identificare i costi che derivano dai tentativi di controllare i pensieri, le emozioni e le reazioni fisiologiche associate alla patologia e alla sua imprevedibile manifestazione. Nelle due fasi successive, si aiuta il paziente a considerare i vantaggi legati all’accettazione della diagnosi e i relativi cambiamenti di vita e in seguito si realizzano degli esercizi esperienziali volti ad identificare i valori centrali del paziente. 

L’individuazione dei valori è un passo fondamentale per aiutare il paziente a identificare quelle azioni o quegli scopi che sono in linea con ciò che dà maggiore senso e ricchezza alla propria vita, indipendentemente dalla sua condizione.  Nella quinta fase, con la pratica della mindfulness e dell’accettazione si cerca di promuovere una maggiore flessibilità, in modo da aiutare il paziente ad adattarsi alle difficoltà e alle barriere poste dalla malattia. Infine, in un ultimo step, si insegnano le tecniche di de-fusione, o distanziamento critico, con lo scopo di ridurre l’impatto di pensieri, immagini ed emozioni negative sulla realizzazione di azioni guidate dai valori. L’applicazione dell’intervento in un contesto di gruppo permette di condividere un’esperienza comune che, nonostante la diversità dei sintomi, articolandosi in piccoli gruppi di lavoro, può incoraggiare maggiore condivisione e supporto reciproco.  Recentemente, lo psicologo australiano Kenneth Pakenham ha messo a punto uno strumento psicometrico, il Multiple Sclerosis Acceptance Questionnaire (MSAQ), volto a misurare la disponibilità e l’apertura all’esperienza emotiva in questa condizione patologica. Questo strumento può rappresentare un valido metodo per valutare l’efficacia dell’intervento ACT nella SM. 

Figura. Fenotipi di Sclerosi Multipla più diffusi.

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recidivante-remittente/primariamente progressiva/secondariamente progressiva

Per approfondimenti:

Minden SL. (1992). Psychotherapy for people with multiple sclerosis. J Neuropsychiatry Clin Neurosci. 4(2):198-213. 

Nordin, L., & Rorsman, I. (2012). Cognitive behavioural therapy in multiple sclerosis: A randomized controlled pilot study of acceptance and commitment therapy. Journal of Rehabilitation Medicine, 44(1), 87–90. http://dx.doi.org/10.2340/16501977-0898. 

Sheppard, S. C., Forsyth, J. P., Hickling, E. J., & Bianchi, J. (2010). A novel application of Acceptance and Commitment Therapy for psychosocial problems associated with multiple sclerosis. International Journal of MS Care, 12(4), 200–206. http://dx.doiorg/10.7224/1537-2073-12.4.200.

http://www.psicoterapia-cognitiva.it/un-progetto-act-per-la-sclerosi-multipla/

Dilemmi morali

di Cinzia Calluso
a cura di Barbara Basile

L’integrazione delle valutazioni emotive e utilitaristiche

Nella vita quotidiana spesso ci troviamo a risolvere dilemmi morali. Ad esempio, è giusto torturare un terrorista al fine di ottenere informazioni che potrebbero aiutare a salvare delle vite? Un sempre maggiore interesse è stato rivolto alla comprensione delle basi psicologiche, neurali e computazionali alla base delle scelte morali.

Uno dei modelli proposti postula il coinvolgimento di due sistemi neurali: uno veloce, intuitivo e largamente basato su giudizi di natura emotiva, ed un secondo sistema più deliberativo, lento e basato sull’analisi delle conseguenze utilitaristiche della scelta. Sebbene esistano prove a supporto dell’esistenza di questi due sistemi, non è completamente chiaro in che modo essi interagiscano al fine di ottenere un giudizio morale complessivo. Una possibilità è che essi competano in parallelo, attraverso un processo di mutua inibizione. Un’altra possibilità è che essi operino un’analisi indipendente delle componenti emotive ed utilitaristiche, che vengono poi integrate in un giudizio unitario.

Un recente studio del team di Antonio Rangel ha tentato di fornire una risposta attraverso l’utilizzo di un paradigma di risonanza magnetica funzionale (fMRI). In un primo compito di valutazione emotiva, i partecipanti erano istruiti a valutare una serie di scenari in relazione alla loro risposta emotiva. In un secondo compito, invece, si richiedeva di giudicare esclusivamente i costi e i benefici complessivi, ignorando le emozioni associate ai vari scenari. Questi primi due compiti sono stati disegnati al fine di studiare le risposte neurali selettivamente associate alla valutazione emotiva ed utilitaristica, e di individuare le regioni cerebrali coinvolte. Infine, il terzo compito, prevedeva la formulazione di un giudizio morale complessivo relativo a scenari costruiti dalla combinazione di cattive azioni e conseguenze positive per il bene comune, valutate nei due compiti precedenti.

I risultati hanno evidenziato che le valutazioni a carattere emotivo vedono il coinvolgimento di regioni cerebrali quali il cingolo anteriore (ACC), l’insula ed il giro temporale superiore (STG), mentre quello utilitaristico coinvolge la giunzione temporo-parietale (TPJ) e la corteccia prefrontale dorso-mediale (dlPFC), e la formulazione di un giudizio morale complessivo ha luogo nella corteccia prefrontale ventro-mediale (vmPFC). L’analisi della connettività funzionale tra queste regioni supporta l’ipotesi secondo cui i valori emotivi ed utilitaristici delle scelte vengano elaborati separatamente, ed integrati successivamente nella vmPFC. Tuttavia, solo ACC e dmPFC hanno mostrato profili di connettività coerenti con il passaggio di informazioni alla vmPFC, suggerendo che possano svolgere una funzione di integrazione rispettivamente di informazioni emotive e utilitaristiche, organizzandole in modo funzionale all’integrazione di più alto livello svolta da vmPFC.

Da un punto di vista comportamentale, l’integrazione delle valutazioni emotive ed utilitaristiche si concretizza nella scelta tra omissione ed azione. Uno studio di Gangemi et al., su questo tema ha suggerito che la scelta dell’omissione sia legata a giustificazioni di tipo deontologico (i.e., non giocare a fare Dio o non interferire con l’ordine naturale delle cose) e di assunzione di responsabilità dell’atto, mentre, la scelta di agire vedrebbe una giustificazione di carattere più utilitaristico/consequenzialista, per il perseguimento del bene comune.

Alla luce di questi risultati, è poi interessante notare come le regioni coinvolte nella formulazione della valutazione emotiva siano anche implicate nell’elaborazione della colpa deontologica – legata alla violazione di norme etiche – e del disgusto morale, offrendo importanti prospettive per applicazioni cliniche, in particolare nella sfera del disturbo ossessivo-compulsivo.

Per approfondimenti:

Basile, B., Mancini, F., Macaluso, E., Caltagirone, C., Frackowiak, R. S. J., & Bozzali, M. (2011). ‘Deontological and altruistic guilt: Evidence for distinct neurobiological substrates’. Human Brain Mapping, 32, 229–239.

Gangemi, A., Mancini, F., Cognitiva, P., & Pretorio, V. C. (1999). ‘Moral choices : The influence of the “ Do not play God ” principle’. CogSci, 2973–2977.

Harrison, B. J., Pujol, J., Soriano-Mas, C., Hernández-Ribas, R., López-Solà, M., Ortiz, H., et al. (2012). ‘Neural correlates of moral sensitivity in obsessive-compulsive disorder’. Archives of General Psychiatry, 69, 741–749.

Hutcherson, C. A., Montaser-Kouhsari, L., Woodward, J., & Rangel, A. (2015). ‘Emotional and Utilitarian Appraisals ofMoral Dilemmas Are Encoded in Separate Areas and Integrated in Ventromedial Prefrontal Cortex’. The Journal of Neuroscience, 35, 12593–12605.

Phillips, M. L., Williams, L. M., Heining, M., Herba, C. M., Russell, T., Andrew, C., et al. (2004). ‘Differential neural responses to overt and covert presentations of facial expressions of fear and disgust’. NeuroImage, 21, 1484–1496.

Wicker, B., Keysers, C., Plailly, J., Royet, J.-P., Gallese, V., & Rizzolatti, G. (2003). ‘Both of Us Disgusted in My Insula: The Common Neural Basis of Seeing and Feeling Disgust’. Neuron, 40, 655–664.

Sono, dunque mangio (troppo)?

di Barbara Basile

 Quasi un terzo della popolazione adulta italiana è in sovrappeso e le cure, efficaci all’inizio, non perdurano nel tempo: come mai?

 In Europa, nel 2016, per una porzione che va tra il 15% e il 30%, la popolazione veniva identificata come obesa, con una percentuale particolarmente elevata in Paesi come la Gran Bretagna, la Repubblica Ceca e l’Ungheria. Nel 2012 in Italia oltre il 31% delle donne in età adulta era in sovrappeso e il 25% presentava una vera e propria obesità. Si parla di sovrappeso quando l’Indice di massa corporea (IMC) dell’individuo, valutato in base al peso in funzione dell’altezza, è tra 25 e 30, mentre si definisce “obeso” chi ha un IMC che supera il valore di 30.

Gli interventi volti a ridurre il sovrappeso e l’obesità includono sia trattamenti chirurgici, come l’inserimento di bypass gastrici, gastrectomie e bendaggio gastrico, sia terapie psicologiche come la cognitivo-comportamentale, affiancata dall’educazione alimentare e dall’incremento dell’attività fisica. Entrambi i tipi di trattamenti, anche combinati, risultano efficaci nel breve termine, ma purtroppo i risultati ottenuti, in termini di diminuzione di peso e modificazioni dello stile alimentare, non perdurano nel tempo. I motivi che spiegano la scarsa stabilità dei risultati iniziali sono poco chiari. Uno dei fattori che sicuramente gioca un ruolo è rappresentato dalla difficoltà dei pazienti a stabilizzare il nuovo regime alimentare, senza ricadere nei soliti circoli viziosi. È ragionevole ipotizzare che nell’individuo obeso o sovrappeso vi siano dei meccanismi di disfunzionali consolidati nel tempo e che questi in qualche modo interferiscano con il consolidamento dei nuovi apprendimenti.

Il modello psicoterapico integrato della Schema Therapy nasce negli USA con Jeffrey Young nel 2003, con lo scopo di curare disturbi emotivi e relazionali radicati nel tempo. Recentemente questo modello è stato usato come base per indagare le caratteristiche di personalità più radicate, definite come “schemi maladattivi precoci”, e le strategie di fronteggiamento alle avversità (definite come “coping mode”) in soggetti in sovrappeso, obesi o in generale in individui con grave dipendenza da cibo. Si è osservato che gli schemi più caratteristici di questi individui includono un profondo senso di isolamento sociale, non appartenenza ed esclusione, anche verso la famiglia, e un’immagine di sé come inadeguati e profondamente sbagliati, accompagnati da un generico senso di fallimento (in ambito scolastico/professionale).

In un recente lavoro di Francesco Mancini e collaboratori, è emerso che, rispetto a persone normopeso, quelle obese presentano schemi di abbandono (associati al timore di poter essere lasciati o alle separazioni in genere), dipendenza e sottomissione agli altri e una pervasiva difficoltà a esercitare l’autocontrollo e a tollerare momenti di frustrazione e stati emotivi negativi. Le strategie di fronteggiamento/coping, solitamente sviluppate negli anni infantili e adolescenziali come risposte adattive all’ambiente, facevano principalmente riferimento all’evitare, presumibilmente tramite il potere auto-consolatore del cibo, i propri vissuti negativi. A confermare questo dato, un’associazione positiva tra la frequenza delle abbuffate, l’intensità dei sintomi bulimici e la tendenza all’evitamento emotivo (definito dalla letteratura come “mode del protettore”), solamente nei soggetti obesi. Un ultimo dato interessante ha rivelato che sembra proprio che siano i comportamenti di evitamento i principali responsabili nel mediare la relazione tra gli schemi disfunzionali (di abbandono, abuso, sia emotivo che fisico, la sottomissione e l’autocontrollo insufficiente) e la frequenza delle abbuffate.

Questo dato è coerente con alcuni studi che hanno indagato l’effetto della strumentalizzazione del cibo (instrumental feeding) usato dai genitori in età infantile. È stato dimostrato come l’utilizzo del cibo come premio o punizione da parte dei genitori verso i bambini sia associato, in età adulta, all’alimentazione emotiva, alla tendenza a spiluccare, alla sovra-alimentazione, alla bulimia e al sovrappeso in genere. Queste evidenze confermano l’utilità di approfondire e intervenire sugli schemi di personalità radicati nel tempo e sulle abitudini alimentari che si sviluppano precocemente sotto forma di strategie di fronteggiamento nei pazienti obesi per incrementare l’efficacia dell’intervento.

Riferimenti

Basile B, Tenore K., Mancini F. “Maladaptive schemas, modes and coping strategies in overweight and obesity”, I Congresso Nazionale di Schema Therapy, Ottobre 2018, Roma

Predire i sottotipi di DOC usando i fattori cognitivi

di Martina Maderloni
a cura di Barbara Basile

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è un disturbo d’ansia caratterizzato da ossessioni, ovvero idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti ed intrusive, che spesso comportano preoccupazione, e dalle quali segue la messa in atto di rituali compulsivi mentali o comportamentali.

Non è il contenuto delle idee intrusive a determinare la psicopatologia bensì la drammaticità con cui questo contenuto viene vissuto. Solitamente quando alcune normali intrusioni sono valutate come importanti ed altamente inaccettabili o immorali esse diventano ossessioni.

Attualmente c’è un crescente consenso circa il fatto che i fattori cognitivi e particolari tipologie di credenze disfunzionali siano correlati ai sintomi del DOC tuttavia pochi studi hanno tentato di determinare quali particolari fattori cognitivi possano specificatamente predire i differenti sottotipi del disturbo ossessivo.

Recentemente i ricercatori dell’Obsessive Compulsive Cognitions Working Group (OCCWG) hanno analizzato 3 domini di credenze rilevanti nell’eziologia e nel mantenimento del DOC: responsabilità/ sovrastima della minaccia; importanza/ controllo del pensiero; perfezionismo/ intolleranza dell’incertezza.

  • L’iper-responsabilità è la credenza di essere responsabile di aver causato o impedito un evento negativo ed i suoi esiti a causa dei pensieri intrusivi;
  • La sovrastima della minaccia è la credenza che eventi negativi siano molto probabili;
  • La sovrastima dell’importanza del pensiero consiste nel credere che i propri pensieri negativi ossessivi possano causare un evento negativo oppure che avere brutti pensieri equivalga moralmente ad agire una cattiva azione;
  • Il controllo del pensiero è la credenza che un completo controllo dei pensieri intrusivi sia necessario e possibile;
  • Il perfezionismo consiste nella credenza che sia necessario essere perfetti e non commettere errori;
  • L’intolleranza dell’incertezza è la credenza di dover essere certi al 100% che eventi negativi non si verifichino.

Ramezani e colleghi (2016) hanno indagato se i fattori cognitivi proposti dall’OCCWG possano specificatamente predire i sottotipi di DOC trovando che la responsabilità/ sovrastima della minaccia è un predittore significativo della maggior parte dei sottotipi del disturbo inclusi i sottotipi “controllo” (checking), “lavaggio” (washing) e “accumulo”. Invece, il sottotipo “ordine e simmetria” è predetto dalle credenze di perfezionismo/intolleranza dell’incertezza e dall’importanza/controllo del pensiero. Il sottotipo “accumulo”, nello specifico, è predetto oltre che dalla responsabilità/sovrastima della minaccia anche dalle credenze di perfezionismo/intolleranza dell’incertezza. A differenza degli altri due domini di credenze, quindi, le credenze di responsabilità/sovrastima della minaccia predicono la maggior parte dei sottotipi di DOC. Anche se emergono correlazioni significative fra le credenze di perfezionismo/ intolleranza dell’incertezza e quelle di importanza/ controllo del pensiero con tutti i sottotipi di DOC questi domini cognitivi, invece, non fungono da predittori distintivi e specifici del disturbo ossessivo. Gli autori suggeriscono che queste ultime due classi di fattori cognitivi siano cruciali anche per altri tipi di disturbi: le credenze di perfezionismo, ad esempio, possono giocare un ruolo chiave nei disturbi dell’alimentazione mentre le credenze di intolleranza dell’incertezza possono essere cruciali nel disturbo d’ansia generalizzata.