Giovani detenuti e declino cognitivo

di Miriam Miraldi

L’intervento CBT e mindfulness sulla popolazione giovanile carceraria

La letteratura scientifica documenta bene quali siano alcuni degli effetti negativi della detenzione, come maggiori livelli di comportamento deviante nei figli, problemi di salute mentale e fisica, traumi, dipendenza da sostanze, recidiva. La maggior parte della ricerca si è concentrata sugli effetti psicologici e sociali, mentre sono pochi gli studi che indagano gli effetti della detenzione sul funzionamento cognitivo e neuropsicologico. La privazione dell’autodeterminazione e dell’autonomia, lo stress psicofisico sostenuto, la mancanza di stimoli, la vittimizzazione (fisica o psicologica) e la privazione del sonno sono potenziali mediatori in un percorso causale che collega l’esperienza detentiva al declino delle abilità cognitive.

Attraverso uno studio longitudinale svolto a New York su un campione di 197 giovani detenuti maschi, di età compresa fra i 16 e i 18 anni, Umbach e colleghi hanno dimostrato l’impatto negativo della detenzione su specifiche funzioni esecutive considerate, la cui compromissione sappiamo essere fattore di rischio per il comportamento antisociale. Le funzioni esecutive consistono, infatti, in abilità di decision making, pianificazione e controllo, tutte competenze che sono processi chiave del comportamento antisociale, e che correlano positivamente con la messa in atto di comportamenti prosociali.

Nello studio, in particolare, sono state prese in analisi le seguenti funzioni esecutive:

a) Controllo cognitivo. Scarsa inibizione e basso autocontrollo sono funzioni esecutive ben conosciute dalla letteratura sul comportamento antisociale. La teoria generale della criminalità di Gottfredson e Hirschi sostiene che il basso autocontrollo sia il principale predittore della devianza, sebbene vadano sempre incluse anche caratteristiche situazionali e di contesto;

b) Regolazione emotiva. La compromissione della capacità di gestire e modificare le proprie reazioni in modo appropriato è associata al comportamento antisociale;

c) Riconoscimento emotivo. Vi è un forte corpus di evidenze a sostegno di una relazione tra capacità di riconoscimento delle emozioni facciali e comportamento antisociale. L’ipotesi prevalente è che lo scarso riconoscimento di emozioni negative (in particolare dell’emozione di paura) si associ a uno svantaggio dello sviluppo empatico e quindi a una maggiore predisposizione al comportamento antisociale.

È stato somministrato a tutti un compito cognitivo pre-trattamento: si tratta della versione emotiva del classico compito “go/no-go”, in cui si richiedeva ai partecipanti di premere un pulsante quando veniva visualizzata una determinata espressione facciale (ad esempio, rabbia) e di astenersi dal premere se si vedevano altre espressioni (l’espressione “no go” o distrattore). Successivamente, gli adolescenti del campione sono stati assegnati casualmente a un programma CBT/MT (Cognitive behavioral therapy/mindfulness training) o a una condizione di controllo attivo (un altro tipo di trattamento evidence-based), per consentire di studiare gli effetti di un intervento di gruppo CBT/MT e comprendere se questo tipo di protocollo possa avere benefici sul funzionamento cognitivo, giacché il mantenimento di un buon funzionamento cognitivo in questi giovani sembra essere una variabile favorente la riduzione della recidiva.

La mindfulness coinvolge l’autoregolazione dell’attenzione e l’auto-osservazione del momento presente in un modo non giudicante e accettante; per quanto riguarda la cognizione, essa si associa a un miglior funzionamento esecutivo e ciò è supportato da studi di imaging cerebrale che trovano maggiore attivazione della corteccia prefrontale. Delle tre funzioni cognitive misurate nello studio qui presentato, è stato dimostrato che la pratica mindfulness influisce specificatamente sulla regolazione delle emozioni e sul controllo cognitivo; al contrario, non si è evidenziato alcun supporto per un effetto positivo della mindfulness sul riconoscimento emotivo. Un dato degno di nota è proprio questo declino nel tempo del riconoscimento delle emozioni, indicativo per entrambi i gruppi di adolescenti presi in esame, e la mancanza di effetti di buffering, anche marginali, della mindfulness per questa specifica abilità cognitiva. Una delle ragioni potrebbe essere relativa a quanto riportano alcuni studi qualitativi che suggeriscono che i detenuti utilizzino meccanismi di coping per adattarsi al “codice” informale praticato in carcere, si autoisolano o diventano emotivamente “anestetizzati” (emotional numbing) anche per evitare di mostrare debolezza o vulnerabilità ad altri detenuti; inoltre, se i detenuti sono esposti a una gamma limitata di emozioni per lunghi periodi di tempo, la loro capacità di identificare le emozioni può essere ridotta.

Questo studio ha intenzionalmente incorporato elementi sia della CBT che della mindfulness, entrambi con forti corpus letterari che suggeriscono effetti positivi su vari esiti nella popolazione carceraria (p.es. recidiva, autostima); tuttavia, la fusione dei due interventi limita la possibilità di attribuire i risultati principalmente alla CBT o, viceversa, al mindfulness training.

Umbach e colleghi hanno dimostrato, empiricamente e longitudinalmente, gli effetti deleteri della detenzione sul funzionamento cognitivo e gli effetti positivi del trattamento CBT/MT; tali evidenze relative al fatto che la reclusione dei giovani alteri negativamente oltre che funzionamento psicosociale, anche quello più strettamente cognitivo (il cui declino – come detto – costituisce fattore di rischio per la recidiva futura), devono stimolare la possibilità di incrementare interventi preventivi rivolti alla popolazione giovanile carceraria, ma dovrebbero anche spingerci a continuare riflettere sui possibili benefici di forme alternative di giustizia, compresi gli approcci della giustizia riparativa.
Per approfondimenti

Umbach, R., Raine, A., & Leonard, N. R. (2018). Cognitive Decline as a Result of Incarceration and the Effects of a CBT/MT Intervention: A Cluster-Randomized Controlled Trial. Criminal justice and behavior, 45(1), 31-55.

Ogilvie JM, Stewart AL, Chan RC, Shum DH. Neuropsychological measures of executive function and antisocial behavior: A meta-analysis*. Criminology. 2011; 49(4):1063–1107.

Mind over mood, se la mente vince l’umore

di Miriam Miraldi

La terapia di gruppo e le competenze cognitive che alleviano la depressione

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è altamente efficace per la depressione e un elemento essenziale che la contraddistingue è l’acquisizione e l’utilizzo di specifiche skills o competenze da parte del paziente. Uno dei manuali CBT strutturati per la depressione è il “Mind Over Mood” di Dennis Greenberger e Christine A. Padesky: il volume mira a stimolare le persone a implementare strategie CBT basate sull’evidenza, come esercizi di attivazione comportamentale, ristrutturazione cognitiva e analisi delle core beliefs, anche mediante assegnazione di homework tra una sessione terapeutica a l’altra. A tal proposito, diverse metanalisi dimostrano che vi è una correlazione positiva tra l’ammontare di homework svolti nel percorso sia con l’esito trattamentale sia con la prevenzione delle ricadute depressive.

In un recente studio, Hawley e colleghi hanno indagato 356 pazienti ambulatoriali con diagnosi di disturbo primario dell’umore, cui hanno fornito 14 sessioni di gruppo di due ore di CBT per la depressione, utilizzando il protocollo Mind Over Mood. In ogni sessione, i pazienti hanno completato il Beck Depression Inventory e durante la settimana hanno tenuto un diario (Homework Practice Questionnaire, HPQ) relativo all’uso di attivazione comportamentale (BA), ristrutturazione cognitiva (CR) e strategie di core belief (CB). Lo scopo dello studio era esaminare se la frequenza d’uso di queste tre abilità CBT sia differentemente associata con il successivo cambiamento dei sintomi depressivi e se la gravità dei suddetti sintomi sia un moderatore longitudinale tra l’uso delle abilità CBT e il cambiamento atteso.

I risultati indicano che la tipologia di abilità CBT utilizzata nel corso del trattamento terapeutico in setting gruppale è associata al differente successivo cambiamento dei sintomi. Un maggiore uso di attivazione comportamentale correla con una conseguente diminuzione dei punteggi della depressione durante il trattamento CBT, soprattutto per quei pazienti che mostravano sintomi depressivi iniziali da lievi a moderati; anche l’utilizzo più massivo della ristrutturazione cognitiva è stato associato a un miglioramento dei sintomi, in relazione alla gravità iniziale della depressione. Al contrario, invece, i risultati delle analisi sulle core belief sono stati inattesi, in quanto l’aumento dei livelli di intervento su tali credenze profonde e nucleari sembrerebbe correlare con un inasprimento sintomatologico, sempre comunque in relazione alla gravità iniziale.

Hawley e colleghi sostengono che i clinici spesso scelgono di affrontare le core beliefs (CB) nel trattamento della depressione, centrando quindi il lavoro su quelle strutture organizzative del pensiero, tendenzialmente globali e rigide, con cui la persona rappresenta se stessa e gli altri. A seguito dei risultati dello studio presentato, che ricordiamo si riferisce a un trattamento di gruppo, gli autori suggeriscono che concentrarsi sulle credenze profonde negative potrebbe invece implicare un successivo incremento dei sintomi depressivi; il terapeuta dovrebbe tenere in considerazione che il passaggio dal lavoro sulla riattivazione comportamentale e sulla ristrutturazione cognitiva (che portano generalmente a un miglioramento delle credenze nucleari positive) a quello diretto sulle credenze nucleari negative potrebbe portare la persona a “stare peggio”, almeno all’interno di un intervento psicoterapico breve e gruppale. Evidentemente gli autori non stanno suggerendo che le strategie CB siano rimosse dal trattamento CBT, piuttosto che, per alcuni pazienti, potrebbe essere più utile un intervento che li aiuti a rivedere le credenze disfunzionali profonde in un arco di tempo più lungo di quello che è tipico della terapia di gruppo di breve durata.

Questi risultati hanno potenziali implicazioni per la pratica clinica, in quanto suggeriscono che incoraggiare pazienti a impegnarsi su skills di attivazione comportamentale e ristrutturazione cognitiva possa portare a una graduale ma decisa riduzione dei sintomi. Inoltre, sempre secondo gli autori, l’efficacia del trattamento breve e di gruppo per la depressione potrebbe essere migliorata concentrandosi, appunto, sui cambiamenti comportamentali attuali e utilizzando strategie di ristrutturazione cognitiva per testare i pensieri automatici negativi contestuali, piuttosto che affrontare core beliefs di lunga data.
Per approfondimenti:

Hawley, L. L., Padesky, C. A., Hollon, S. D., Mancuso, E., Laposa, J. M., Brozina, K., & Segal, Z. V. (2017). Cognitive-behavioral therapy for depression using mind over mood: CBT skill use and differential symptom alleviation. Behavior therapy, 48(1), 29-44.

Greenberger, D., & Padesky, C. A. (1995). Mind over Mood: a cognitive therapy treatment manual for clients. Guilford press.