Droplet, la goccia che livellò il mondo

di Gabriella Riccardi 

Vacillano le certezze, si soverchiano gli equilibri del mondo, come se tutto il pianeta rotolasse

La chiamano “droplet”, che tradotto in italiano significa “goccia”, la stessa goccia che ha fatto traboccare il vaso di Pandora. La goccia che, tanto per intenderci, si trascina dietro un grosso peso: quello della responsabilità di trasmissione interumana del virus. Sì, perché queste piccole particelle, le cui dimensioni possono variare dai 200 a meno di 5 micron di diametro, si distribuiscono spaiate nell’aria a una velocità che può variare a seconda delle dimensioni e alcune, le più leggere, restano anche sospese nello spazio per un tempo più o meno indefinito, con all’interno una carica virale che gli scienziati ritengono pari alla velocità di trasmissione del virus.
Il virus. Un’entità non propriamente definibile come organismo, a cavallo tra la vita e la non vita. Potremmo immaginarlo come il nulla che avanza silenziosamente, defilandosi serrato, tra la gente. Qualcosa che, per continuare a esistere, necessita di un corpo in cui adattarsi e giocarsi la sua carta da parassita, per poi replicarsi a una velocità che è proporzionale all’attitudine dello stesso a diffondersi. La velocità di trasmissione del virus dipende, infatti, dalla sua stessa virulenza: il Sars-CoV-2, un invisibile involucro tondeggiante, ha trovato un modo per affermarsi nel mondo e sfidare l’umanità intera privandola di ogni difesa e minandone l’esistenza. Sovversivo propaga, come fosse dotato di uno spirito cospirazionista, distruzione e disperazione. Si muove entro un mondo che non può osservarlo se non attraverso gli occhi dell’avvilimento e lo sguardo della paura. Riempie vuoti, colma spazi, svuota contenuti, restituisce significati, qualche volta risignifica, destruttura ciò che un attimo prima risuonava come ovvietà… Poi di nuovo tiene tutti sospesi come in un fermo immagine. Sembra la metafora di qualcosa che ancora non si sa ben rappresentare. Perché quando le menti sono attive nel “qui e ora”, impegnate nel tentativo di comprendere la vertigine rotante che le investe, spesso peccano di consapevolezza e metacognizione. Vacillano le certezze, si soverchiano gli equilibri del mondo, come se tutto il pianeta rotolasse incapsulato in qualcosa che si muove e che esercita a poco a poco pressione dopo pressione, una richiesta alla quale non si sa ben rispondere. E poi ci sono gli altri! Proprio nell’era in cui finanche quelle che riconosciamo come le massime autorità lanciano il grido della spiritualità, pronto a tradursi nella logica morale del “nessuno può salvarsi da solo”: ci troviamo a dover fare i conti con la solitudine che si incarna e si nutre della distanza dall’altro. Coartati nei nostri spazi, imprigionati nell’isolamento emotivo, impotenti e impossibilitati di fronte al desiderio di poterci stringere e mescolarci nel dolore dell’altro e con l’altro. L’abbraccio, le coccole emotive, consolazione per le nostre anime e per le nostre menti, scarseggiano. Le riserve denunciano una carenza di ossitocina, comunemente conosciuto come l’ormone dell’amore, dell’affettività, dell’empatia. Tutti allo stesso punto, tutti connessi, tutti dispersi, tutti distanti, tutti uguali, tutti carenti e tutti esposti. Tutti potenziali perdenti in un mondo livellato da un droplet, fermo dentro come fuori da noi, ma che prima o dopo ripartirà.

Fame emotiva ai tempi del Coronavirus

di Rossella Cascone

L’ emotional eating è un comportamento alimentare che rappresenta una delle principali cause dell’instaurarsi di una relazione conflittuale con il cibo

Il cibo desta da sempre molto interesse nelle persone, risulta una fonte di benessere e lo si accomuna spesso a eventi sociali ed emotivi che esulano dalla fame.

In particolare, il “confort food” è un cibo consolatorio che si associa a momenti piacevoli del passato o che permette di affrontare un momento difficile: le persone lo consumano perché ritengono possa aiutarle a gestire delle situazioni critiche, come ridurre lo stress o emozioni di noia, rabbia, ansia. In questo modo, si mangia senza realmente essere affamati.

A causa dell’attuale emergenza sanitaria, ogni individuo sperimenta differenti emozioni, fondamentali per il suo funzionamento ma che lo rendono più vulnerabile.

Ansia e angoscia per l’imprevedibilità della minaccia, solitudine e tristezza per le ridotte, se non inesistenti, relazioni sociali, sono tra le principali emozioni provate, ma anche senso di colpa per un possibile contagio dei cari (pensiamo, ad esempio, al personale sanitario), o semplicemente noia perché non si sa come occupare le giornate.

Uno dei rischi che si corre in questi giorni in cui si è costretti a restare in casa per l’emergenza Coronavirus, è proprio quello di consolarsi con il cibo, ricercando un conforto in esso.

Il mangiare spinti da “cause” emotive o in relazione a stati emotivi (emotional eating) è un comportamento alimentare che rappresenta una delle principali cause dell’instaurarsi di una relazione conflittuale con il cibo, che può dare luogo, in casi più gravi, al disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder).

Questo comportamento spesso viene messo in atto in modo automatico, senza averne consapevolezza, e non risolve i problemi emotivi ma, al contrario, li aggrava, poiché alle emozioni negative si associa il senso di colpa per aver mangiato “troppo” o cibi non necessari e dannosi. In questo modo si tende a peggiorare lo stato psicofisico della persona.

Al contrario della fame fisica, ovvero lo stimolo che avverte della necessità dell’organismo di ricevere nutrienti, la fame emotiva arriva quando processi cognitivi, di pensiero, fanno venire la voglia di un determinato cibo. Per tale ragione, risulta essere improvvisa e urgente, anche se si è finito di mangiare da poco tempo, si manifesta con insistenza ed è molto specifica (“ho proprio voglia di gelato”), e non si frena quando il senso di pienezza è stato raggiunto.

La fame emotiva viene avvertita nella testa e non nello stomaco, pensando al sapore e all’odore del cibo di cui si ha voglia, ed è caratterizzata da un mangiare inconsapevole che porta a finire una scatola di biscotti o una busta di caramelle senza averle assaporate.

Inevitabilmente, questo comportamento genera un senso di colpa che può essere seguito, in alcuni casi, da un’emozione di vergogna.

È chiaro che non è sempre sbagliato utilizzare il cibo come mezzo per sentirsi meglio, lo diventa se ogni volta che si è stanchi, arrabbiati o delusi si fa ricorso al cibo per sentirsi meglio.

Succede spesso che le persone non sappiano definire bene il sentimento negativo che provano e che tendano a mangiare quando l’emozione non è “etichettata”. Inoltre, all’interno del mondo dei “mangiatori emotivi”, si incontrano persone consapevoli di esserlo ma che, incastrati in questo circolo vizioso, non riescono a uscirne. Vi sono poi i “mangiatori emotivi” inconsapevoli, che rappresentano la maggioranza del gruppo, i quali associano le problematiche legate al peso a credenze erronee come metabolismo lento, problemi ormonali o problemi alla tiroide, i quali credono che un medicinale o un intervento risolva il problema. Anche in questo caso, oltre a un atteggiamento deresponsabilizzante, vi è una scarsa consapevolezza.

Per spezzare il circolo doloroso dell’emotional eating è di fondamentale importanza conoscere e saper identificare le proprie emozioni ed esprimerle. Di fatto, imparare a riconoscere l’emozione che scatena la fame emotiva è un passo importante per imparare a gestire la dipendenza dal cibo e quindi per cambiare le abitudini.

In questo momento di emergenza, una delle attività ricreative o di “distrazione” è inevitabilmente mettersi ai fornelli e cucinare.

Uno dei modi per contrastare la fame emotiva è puntare alla qualità del cibo, riducendo le quantità, e impegnando il proprio tempo nella preparazione di piatti particolari ed elaborati, evitando di mangiare in piedi e correre in dispensa quando si ha un attacco di fame.

Bisogna però ricordare che nei momenti critici non vi è solo il cibo: concentrarsi su attività di svago o passioni accantonate, condividere le proprie emozioni con persone di fiducia sono valide alternative che possono essere d’aiuto.

Per approfondimenti

American Psychiatric Association (2013), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Tr. It. Masson, Milano 2004.

Beck  J.S. “Dimagrire con il metodo Beck: impara a pensare magro”, Trento, Edizioni Centro Studi Erickson, 2008.

Medde P., Reposati A. “Psicologia e alimentazione: 5 passi per controllare la “fame emotiva”, . Roma, 2014, https://www.ordinepsicologilazio.it/risorse/psicologia-e-alimentazione/ (consultato il 29 marzo 2020).

Smith M., Segal J., Segal R. “Emotional Eating and How to Stop It”, 2019, https://www.helpguide.org/articles/diet-weight-loss/emotional-eating.htm

 

Covid-19: è utile parlare di trauma?

 di Claudia Perdighe

Un evento nuovo e negativo non deve necessariamente produrre malessere psicologico

Stamattina un paziente con disturbo ossessivo mi ha detto: “Stavo bene da qualche giorno con i miei sintomi, poi ho letto un articolo in cui venivano descritti i rischi per la salute mentale dell’isolamento in casa. Da quel momento, ho avuto l’immagine del protagonista di Shining e mi sono visto impazzire e fare cose orribili ai miei famigliari”. Mi ha chiesto se davvero è cosi dannoso per la psiche stare in questa condizione.

Per me è stato uno spunto di riflessione sul tema. Nel confronto con i colleghi, che come me continuano a vedere pazienti in videochiamate, ho riscontrato alcune cose tutto sommato rassicuranti: la gran parte non sta peggio di prima dell’isolamento, al netto delle preoccupazioni per gli effetti sulla salute generale e sull’economia della pandemia.

Qualcuno sta meglio. Stanno meglio i pazienti che prima già stavano piuttosto male e che, nello stare a casa in modo forzato, hanno il beneficio di evitare le situazioni che normalmente sono più attivanti in senso psicologico (andare all’università, se questo è un fatto ansiogeno; prendere i mezzi pubblici, se si soffre di panico o agorafobia; non essere esposti a stimoli fuori casa che attivano le preoccupazioni ossessive). Stanno anche meglio i pazienti che, per i loro problemi, trascorrevano tanto tempo a casa e ora si sentono meno soli. Stanno meglio i pazienti che si sentivano molto “diversi” nella loro patologia e ora sentono di più la comunanza con il resto degli esseri umani, uniti dallo stesso nemico.

Nell’osservazione clinica condivisa con i colleghi, abbiamo anche notato che le prime settimane stavano peggio le persone con ansia da malattie, gli ipocondriaci. È facile immaginare come ogni sintomo fosse interpretato come segnale dell’infezione da Covid-19 e che questo attivasse l’ansia.

È del tutto evidente che non si tratta di un’osservazione sistematica, scientifica. Tuttavia si possono porre alcuni quesiti: reagiscono meglio i pazienti dei non pazienti? O forse la norma è non essere traumatizzati dalla pandemia e distanziamento (almeno in questa fase)?

E ancora: perché aspettarsi che le persone reagiscano con un aumento di malessere a una situazione di distanziamento, sapendo che è a termine? Abbiamo dati per prevederlo o siamo influenzati da un bias, una forma di pregiudizio, per cui ogni evento nuovo e in sé negativo deve necessariamente produrre malessere psicologico?

Per esempio, si sta spesso ricorrendo al termine “trauma” a proposito di questo evento, che invece è un termine che si dovrebbe usare solo per le persone direttamente esposte alla minaccia (come operatori sanitari, malati e parenti di malati).

Mi sembra che sia poco utile e forse dannoso parlare di trauma ed enfatizzare i danni psicologici, per almeno due ragioni. Come il mio paziente, altre persone possono iniziare a guardare con sospetto alle proprie reazioni e chiedersi: “Non è che adesso inizio a stare male psicologicamente?”. Oppure porsi il problema contrario: “Come mai sto bene in questa situazione? Sono anormale?”.

In secondo luogo, si rischia di spostare l’attenzione dal fatto che è un evento eccezionale – in cui è utile usare tutte le proprie risorse per fronteggiarlo e viverlo al meglio – al proteggersi da una minaccia indefinita come: “Che mi succederà se durerà ancora un mese?”; “Cosa può accadere a un bambino se non esce per due mesi? Sarà un disadattato?”, e cosi via.

Tutto questo al netto della preoccupazione e del rispetto per chi davvero si confronta da vicino con la malattia e con le difficoltà economiche immediate o future implicate. E dell’attenzione a chi, invece, è effettivamente scompensato dalla pandemia.

Per approfondimenti:

Samantha K Brooks, Rebecca K Webster, Louise E Smith, Lisa Woodland, Simon Wessely, Neil Greenberg, Gideon James Rubin (2020). The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence, Lancet, n. 14.

2 aprile 2020: autismo in quarantena

di Giulia Giovagnoli

Oggi ricorre la Giornata Mondiale dell’autismo. Non siamo tutti uguali in questo straordinario momento di isolamento e di paura

Passa una pubblicità: una famiglia sorridente si gode la quarantena, condivide momenti di gioia ritrovata per la coatta possibilità di vivere insieme giornate altrimenti trascorse dietro a mille impegni. Con una musica che ormai ci nausea, la televisione consiglia come trascorrere le giornate. Il Coronavirus ci sta regalando ciò che avevamo perso: il tempo con i nostri cari.

Questo vale, però, solo per alcune famiglie, quelle dove il tempo trascorso a casa è prezioso, ricco, da raccontare nei Natali che verranno.

Tuttavia, esiste anche un’altra realtà, ben diversa, dove la quarantena non regala tempo, ma lo sottrae: è il tempo della terapia, della riabilitazione e della socializzazione.

In Italia, le persone che presentano un disturbo dello spettro autistico sono migliaia e ora, come tutti, sono costrette a rimanere a casa. La situazione allora è molto diversa dalla pubblicità.

I genitori che ancora hanno un impiego sono occupati nello smart working e il lavoro non fa sconti nemmeno se si ha nella stanza accanto un bambino che ha bisogno di attenzioni e stimoli costanti. Madri e padri si alternano nel cercare di intrattenerli, ma non è semplice. Gli interessi non sono quelli dei loro coetanei neurotipici, spesso non si può semplicemente fare un puzzle o un disegno. Bisogna inventarsi attività a misura del bambino, tenere conto dei suoi interessi, delle sue capacità e rispettare tempi di attenzione spesso brevi. Se il figlio è grande, intrattenerlo è forse ancora più dura. D’altra parte, lasciarlo da solo significa sapere che penserà ai suoi interessi stereotipati, ripeterà frasi apparentemente senza senso, camminerà avanti e indietro senza uno scopo preciso. I dispositivi elettronici arrivano in soccorso intrattenendolo più a lungo, ma spesso con la conseguenza di aumentare quel soliloquio senza senso. Il genitore lo sa: gli deve lasciare quel tempo da solo, è inevitabile. Intanto, il telefono squilla, il capo chiama, c’è una scadenza da rispettare, un lavoro da mantenere.

Il costo da pagare è il conto emotivo che si presenta quando il genitore si chiede se tutto quel tempo da solo gli abbia fatto male; quando si angoscia pensando alle ore di terapia perse, alle occasioni di socializzazione ormai inesistenti, alla paura di veder svanire le conquiste faticosamente raggiunte; quando si rimprovera per non aver avuto pazienza, si sente in colpa e si rinnova la sofferenza e il senso di impotenza.

Certo, la salute fisica è un bene più grande. Lo sanno perfettamente questi genitori che dal giorno della diagnosi si chiedono: “Cosa succederà quando non ci sarò più?”. Chissà, allora, quanta paura si prova per il contagio, per la morte, quanto timore si può provare di lasciare un bambino o un ragazzo senza aver avuto il tempo per programmare il suo futuro. Chissà come può essere angosciante il pensiero di vedersi sottrarre un posto in terapia intensiva riservato a qualcuno “sano”, qualora il proprio figlio venisse contagiato.

Il disturbo dello spettro autistico ci impone di considerare che l’uguaglianza non è giustizia e che “tutti” è una parola che fa rabbia. Non siamo “tutti uguali” nella vita quotidiana, quando i pomeriggi sono scanditi dagli orari delle terapie, i pasti dai gusti selettivi dei bambini, lo stipendio dal pagamento delle terapie spesso private, la scuola dai programmi differenziati e dagli insegnanti di sostegno. Non siamo “tutti uguali” quando i genitori devono imparare da specialisti come interagire con i loro figli, come stimolarli, come gestirli. Non siamo allora “tutti uguali” adesso, in questo straordinario momento mondiale di isolamento e di paura.

Oggi, 2 aprile, ricorre la Giornata Mondiale per la consapevolezza dell’autismo e forse i palazzi della politica e della cultura verranno illuminati di blu. Forse “tutti gli altri” ricorderanno che esiste anche questa realtà e che ha diritto di essere ascoltata soprattutto adesso. Se non siamo “tutti uguali” nelle difficoltà, non dobbiamo esserlo nemmeno nel riconoscimento dei diritti: il diritto di uscire di casa, di avere un sostegno economico per proseguire le terapie, di avere degli esoneri prolungati dal lavoro, di usufruire di una didattica specializzata e individualizzata.

Forse le luci blu serviranno a ricordare a tutti che il disturbo dello spettro autistico non è il problema di pochi ma una responsabilità comune e, come diceva Fabrizio De André: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

Con il dolore sospeso dal virus

di Daniela Petrilli

Quando il peggio sarà passato e lo stress calerà, potremo percepirci cambiati al punto da sentire di aver perso i nostri punti di riferimento

Una pandemia è un trauma collettivo ma, prima di tutto, può avere la forza di uno tsunami che travolge direttamente ogni individuo sommerso dalla sua onda. È a quegli individui che dedichiamo la nostra attenzione, perché ogni trauma spezza violentemente la nostra comune rappresentazione degli eventi e può lasciare impronte indelebili sulla nostra vita. Scattiamo un’istantanea e, come pezzi di un puzzle, proviamo a ricostruire alcuni frammenti di quello che è stato l’evento più imprevedibile e ingovernabile di questo secolo.

Si pensava a una semplice influenza non a un’epidemia così devastante: l’ondata cresce con i problemi respiratori e la necessità di allestire posti letto nelle ex lavanderie, c’è allarme e siamo allo stremo delle forze, l’assenza di mascherine rompe anche le ultime speranze di protezione da un nemico invisibile e subdolo che ci lascia disarmati, stremati a contare i nostri morti, in coda senza un saluto dignitoso, senza una mano da stringere nell’ultimo respiro. Nessun funerale, solo una benedizione prima della tumulazione. È tutto così surreale e anche il dolore è strano, come sospeso, rimandato. Ma l’onda non si arresta e anche dopo tante morti, si sentono ambulanze ogni ora, le cremazioni ogni trenta minuti e i cimiteri chiudono.

Sappiamo che l’epidemia è anche una formula matematica ed è ai numeri che ci affidiamo, nella speranza che la curva prima o poi smetta di salire così vertiginosamente; ma i numeri non ci salveranno, anzi: sono destinati ad aumentare senza nessuna clemenza, senza pausa, senza respiro. È una lotta contro il tempo e intanto la solitudine emotiva, la fatica, lo stress, la disperazione aumentano.

Se proviamo a immedesimarci nella condizione di tanti tra malati, amici, parenti, medici e infermieri o di chiunque si sia trovato direttamente coinvolto nelle zone più colpite, è palpabile lo stress e la sofferenza emotiva che questa emergenza ha creato.

Molti sono i risvolti psicologici che esperienze così devastanti possono determinare. Ognuna di esse sarà, come sempre, un caso specifico: da chi ha perso un proprio caro in un lutto spezzato dall’isolamento senza un rituale che dignitosamente lo accompagni alla fine; a chi nelle retrovie di un ospedale ha guardato negli occhi il dolore, la paura e la morte, senza tregua, né sonno, né fame; a chi ha vissuto l’esperienza della rianimazione, considerandosi fortunato di poterla raccontare, ma continua a vivere con angoscia quegli interminabili giorni di isolamento sospeso tra la vita e la morte, lontano dai propri cari. Per questi e altri casi possiamo ipotizzare un ritorno difficile alla normalità con possibili strascichi emotivi e post traumatici, perché di questo si tratta. Quella semplice influenza ci ha colto impreparati, ci ha reso impotenti e ci ha condotto sotto stress, a una resistenza psicofisica, spesso oltre le nostre possibilità.

È bene sapere che quando il peggio sarà passato e lo stress calerà, potremo percepirci profondamente cambiati al punto da sentire di aver perso i nostri punti di riferimento e la sensazione di continuità con ciò che ci era più familiare, non riconoscerci nelle nostre reazioni più abituali e nel nostro solito modo di essere. Potremo sentirci depressi o inspiegabilmente arrabbiati, confusi come tra il sonno e la veglia, o ancora improvvisamente travolti dalla paura e da reazioni neurovegetative all’apparenza immotivate: l’emergenza è finita, il pericolo è passato, ma il nostro corpo non lo sa e continua a reagire anche a stimoli innocui come se fosse ancora minacciato. I lividi non sono solo sotto le mascherine ma anche nell’anima di chi è sopravvissuto e possono guarire con difficoltà, se non visti o sottovalutati.