Sensi di colpa e auto-perdono

di Antonella d’Innocenzo

La Compassion Focused Therapy per ridurre il timore di colpa nei pazienti ossessivi

È di recente pubblicazione sulla rivista Frontiers in Psychiatry il lavoro dal titolo “Compassion-Focused Group Therapy for Treatment-Resistant OCD: Initial Evaluation Using a Multiple Baseline Design”. Lo studio, condotto presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC), diretta dallo psichiatra e psicoterapeuta Francesco Mancini, ha avuto come obiettivo quello di verificare se promuovere lo sviluppo e la coltivazione di un atteggiamento compassionevole nei confronti di sé e di auto-perdono in un gruppo di pazienti con Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), porterebbe alla riduzione della sintomatologia ossessiva, in particolare del timore di colpa, delle compulsioni messe in atto per prevenirlo e della tendenza a criticarsi per questo.

Numerosi studi e osservazioni cliniche hanno evidenziato come il timore di colpa e di essere disprezzati moralmente per la propria condotta sia un aspetto centrale nella genesi e nel mantenimento del disturbo. Le esperienze precoci di rimprovero, da parte delle figure significative, potrebbero aver contribuito in questi pazienti alla formazione di credenze secondo cui commettere un errore significa essere una persona poco degna, meritevole di umiliazione e di disprezzo. Da qui, oltre allo sviluppo di un’attitudine a prevenire le colpe catastrofiche e imperdonabili, attraverso le compulsioni, lo sviluppo di una forte tendenza a criticarsi per il comportamento attuato e per la propria sofferenza, atteggiamento che mantiene e aggrava il problema principale.

L’intervento si è avvalso dell’utilizzo della Compassion Focused Therapy (CFT), terapia cognitivo- comportamentale sviluppata dallo psicologo clinico Paul Gilbert per il trattamento dell’autocritica, la cui efficacia è stata ampiamente dimostrata per svariate condizioni psicopatologiche: disturbi alimentari, Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), ansia, depressione e psicosi. Le tecniche proposte da quest’approccio terapeutico mirano allo sviluppo di una motivazione di cura e supporto nei confronti di sé e degli altri (la compassione), che passa attraverso la comprensione empatica delle proprie difficoltà e il desiderio di prendersene cura, sviluppando abilità e attributi volti a raggiungere questa finalità (consapevolezza; empatia; calore; tolleranza del giudizio; interesse per il benessere).

Per lo studio è stato utilizzato un protocollo di gruppo di CFT su un campione di otto partecipanti con diagnosi di Doc, resistenti al trattamento cognitivo-comportamentale standard, che per otto incontri settimanali sono stati guidati nella pratica clinica da due terapeuti formati in CFT. Le sessioni hanno previsto momenti di psicoeducazione, pratiche meditative e d’immaginazione per lo sviluppo della compassione verso sé e verso gli altri, condivisione di gruppo e assegnazione di homework. I risultati dello studio pilota hanno mostrato che al post-intervento il 100% dei pazienti ha ottenuto riduzione significativa dei sintomi rispetto alla baseline e che gli effetti sono mantenuti al follow-up per sei degli otto pazienti. Per molti si è osservata, inoltre, una riduzione dei sintomi della depressione, del timore di colpa e della tendenza ad autocriticarsi. Sembrerebbe dunque che promuovere una maggiore accettazione delle proprie sofferenze e imperfezioni, considerandole esperienze connaturate alla condizione umana, aiuterebbe i pazienti a essere più disposti ad accettare la minaccia di colpa, i dubbi ossessivi, ad astenersi dalle compulsioni e a criticarsi di meno per esse (“Sono solo un essere umano e, come tutti, non posso evitare di commettere errori: quando succederà, mi prenderò cura di me, perdonandomi e facendo qualcosa di utile per stare meglio”). Ulteriori studi saranno necessari per verificare l’effetto specifico della terapia utilizzata e per migliorare l’implementazione della stessa.

Per approfondimenti:

http://journal.frontiersin.org/article/10.3389/fpsyg.2020.594277/full?&utm_source=Email_to_authors_&utm_medium=Email&utm_content=T1_11.5e1_author&utm_campaign=Email_publication&field=&journalName=Frontiers_in_Psychology&id=594277

Il costrutto dell’assertività

di Doriana Chirico
a cura di Olga IIriti

Tra pensiero, comportamento ed emozione

L’assertività è la capacità di esprimere opinioni personali, bisogni e desideri, tenendo conto e rispettando quelli altrui (Rakus, 1991). Questo stile di comunicazione permette di stabilire relazioni interpersonali positive, costanti nel tempo e reciprocamente gratificanti, attraverso 4 abilità fondamentali:

    • Espressione di sentimenti negativi;
    • Espressione e gestione dei limiti personali;
    • Prendere l’iniziativa;
    • Espressione di sentimenti positivi.

Al contrario, lo stile di comunicazione aggressivo (tendenza a considerare sé stessi, i propri bisogni e diritti come più importanti di quelli altrui) e lo stile di comunicazione passivo (tendenza ad evitare i conflitti interpersonali, di esprimere le proprie idee e sperimentare disagio emotivo) rappresentano condizioni di anassertività.

Obiettivo di questo lavoro è la presentazione del primo studio sperimentale sulla correlazione tra gli schemi cognitivi assertivi ed il comportamento assertivo negli adolescenti.

Vagos e Pereira (2010) hanno proposto il primo modello cognitivo dell’assertività, secondo il quale esisterebbero degli schemi cognitivi responsabili del comportamento assertivo. A partire da questi assunti, nel 2019 si sono occupati della valutazione empirica di:

    • effetti diretti e indiretti (attraverso lo studio del disagio) degli schemi cognitivi assertivi sul comportamento assertivo;
    • effetti diretti delle varie forme di disagio legate all’assertività sulla stessa espressione del comportamento assertivo.

Sono stati somministrati a 679 adolescenti (di età compresa tra i 15 e i 20 anni) l’Assertive Interpersonal Schema Questionnaire (AISQ, Vagos and Pereira, 2010) e la Short Scale for Interpersonal Behavior (s-SIB, Vagos et al., 2014).

Alla luce dei risultati ottenuti, sembrerebbe che gli schemi assertivi siano in grado di predire in maniera diretta la presenza di disagio e di espressioni comportamentali dell’assertività. Nello specifico sono implicati due schemi cognitivi assertivi: Controllo interpersonale e Abilità personale affettiva.

Lo schema del Controllo Interpersonale sarebbe rilevante nel sentirsi meno a disagio e comportarsi in modo assertivo: mostrando sentimenti negativi o positivi, esprimendo e gestendo i limiti personali e prendendo l’iniziativa. Se il soggetto si sente in grado di gestire i problemi interpersonali, probabilmente comprenderà il valore di selezionare un giusta modalità espressiva di comportamento assertivo in base alla richiesta sociale. Questo schema assume una particolare rilevanza in quanto è in linea con il concetto di assertività empatica (Rakus, 1991), secondo il quale le relazioni sarebbero caratterizzate da una reciproca soddisfazione emotiva e strumentale.

L’Abilità Affettiva Personale predice in modo significativo la frequenza di esprimere sentimenti positivi e di sentirsi meno a disagio nel farlo. Questo è in linea con gli assunti della Compassion Focused Therapy, secondo cui si tende a considerare sé stessi come persone degne e di valore nonostante le imperfezioni individuali. Questo concetto potrebbe essere generalizzato anche agli altri, considerandoli allo stesso modo.

Provare un’emozione negativa, infine, avrebbe un effetto inibitorio sul comportamento assertivo, riducendone la frequenza in futuro.

In conclusione, lo studio di Vagos e Pereira ribadisce l’importanza di schemi cognitivi assertivi nell’adottare uno stile assertivo, verificandone la presenza in un campione di adolescenti.

Riferimenti bibliografici

Vagos, P., & Pereira, A. (2019). Towards a cognitive-behavioral understanding of assertiveness: effects of cognition and distress on different expressions of assertive behavior. Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy, 37(2), 133-148.

Vagos, P., & Pereira, A. (2016). A cognitive perspective for understanding and training assertiveness. European Psychologist.

Vagos, P., & Pereira, A. (2010). A proposal for evaluating cognition in assertiveness. Psychological Assessment, 22(3), 657.

W.A Arrindell, R Sanderman, W.J.J.M Hageman, M.J Pickersgill, M.G.T Kwee, H.T Van der Molen, M.M Lingsma (1990). Correlates of assertiveness in normal and clinical samples: A multidimensional approach, Advances in Behaviour Research and Therapy, Volume 12, Issue 4, 1990, Pages 153-282, ISSN 0146-6402, https://doi.org/10.1016/0146-6402(90)90004-A.

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Essere compassionevoli

di Antonella D’Innocenzo

La Compassion Focused Therapy applicata in un contesto di gruppo

La CFT (Compassion Focused Therapy) è un approccio psicoterapeutico nato nell’ambito delle terapie cognitivo-comportamentali della terza generazione, grazie al lavoro di Paul Gilbert, che conferisce particolare centralità al fenomeno dell’autocritica e alla necessità di sviluppare una relazione accudente e benevola nei propri confronti. Quel dialogo interiore che continuamente svaluta, denigra e commenta in tono sprezzante e freddo le esperienze del soggetto rappresenta una modalità tesa al monitorare e punire eventuali errori piuttosto che al validarsi, accudirsi e incoraggiarsi, e sembra rivestire un ruolo chiave nello sviluppo e nel mantenimento di diverse condizioni psicopatologiche. L’incapacità o la difficoltà di alcune persone di attivare verso sé o verso gli altri una motivazione compassionevole dipenderebbe da un peggiore funzionamento del soothing system (sistema calmante), un sistema di regolazione emotiva responsabile di emozioni di calma, tranquillità e appagamento che si sperimentano quando non ci si deve difendere da qualche minaccia, lottare per acquisire risorse o raggiungere standard e che, al livello fisiologico, deriverebbe dall’attivazione del sistema parasimpatico e del sistema delle endorfine e dell’ossitocina. Segnali affiliativi di sicurezza (inclusi il tono di voce, la velocità dell’eloquio, lo sguardo, la vicinanza fisica) avrebbero la capacità stimolare il soothing system, quando emessi verso altri, quando rilevati nell’ambiente, e quando prodotti a livello endogeno e rivolti a noi stessi. Il compassionate mind training (CMT) rappresenta dunque un training volto a riattivare il funzionamento di un sistema emotivo compromesso, attraverso l’insegnamento e la pratica di specifiche skills. Ogni sessione comprende: elementi di psico-educazione sul modello evoluzionistico e sul razionale delle varie pratiche; lo svolgimento di pratiche di mindfulness volte a coltivare la consapevolezza e la presenza mentale; lo svolgimento di esercizi, pratiche meditative e immaginative allo scopo di attivare e sviluppare i tre principali “flussi” della compassione (quella degli altri verso di noi, quella che scaturisce da noi, indirizzata verso gli altri e quella verso noi stessi); momenti di discussione e condivisione di gruppo, in un clima di scoperta condivisa e di mutua validazione, cruciale nel costruire le abilità target del training. In particolare, nella prima parte del training, la stimolazione del sistema calmante avviene attraverso pratiche che coinvolgono più direttamente il corpo (ritmo del respiro calmante, postura) e attraverso la produzione intenzionale di segnali affiliativi nei confronti di se stessi e degli altri (tecnica del mezzo sorriso, del tono di voce “interiore”); successivamente si procede esplorando come l’attivazione volontaria di un particolare sistema motivazionale, la compassione, possa “accendere” il soothing system in modo più stabile. A queste pratiche si affianca, inoltre, un lavoro specifico volto a comprendere l’origine e la funzione dell’autocritica e ad allenare una modalità alternativa di rapporto con se stessi. Un gruppo di CMT è implementabile in gruppi di pazienti che, pur avendo differenti diagnosi, presentano alti livelli di autocritica e vergogna. Il terapeuta conduttore, oltre ad avere un’esperienza personale di pratica mindfulness e delle diverse pratiche della CMT, deve sviluppare l’abilità di cogliere l’attivazione dei sistemi motivazionali nei partecipanti e in se stesso, in modo da poterli validare ed eventualmente ri-orientare verso una motivazione compassionevole.

 

Abbi cura di te

di Sonia Di Munno

La Compassion Focused Therapy, un nuovo approccio psicoterapeutico per combattere la vulnerabilità alla psicopatologia

Negli ultimi anni, studi sperimentali hanno evidenziato come l’attitudine della persona ad autocriticarsi in maniera disprezzante e invalidante contribuisca al mantenimento della psicopatologia. Una terapia che si focalizza su questa attitudine, verso se stessi e verso gli altri, è la Compassion Focused Therapy (CFT). Tutto nasce da uno studio di Gilbert che aveva notato la resistenza dei pazienti depressi alle tecniche di ristrutturazione cognitiva e della persistenza di pensieri disfunzionali di disvalore, non amabilità e disprezzanti verso se stessi. Questi pazienti, benché razionalmente riuscissero a formulare dei pensieri alternativi a queste credenze nucleari, non riuscivano emotivamente a sentirli veri e autentici e non cambiava la loro sensazione di solitudine e indegnità che li caratterizzava. Gilbert scoprì un sistema di regolazione affettiva particolarmente deficitario in questi pazienti, il soothing system (sistema calmante). Questo sistema raggruppa emozioni positive di sicurezza, tranquillità e appagamento che si sperimentano durante le interazioni affiliative con gli altri. La CFT suggerisce che esperienze infantili di accudimento disfunzionale hanno reso più funzionale, per questi pazienti, un iper-sviluppo del sistema di protezione della minaccia, il threath system (il sistema della paura) di cui il comportamento auto-critico sarebbe una manifestazione a discapito di un normale sviluppo del soothing system.  L’autocritica, secondo Gilbert, non è altro che una strategia di coping (ovvero la modalità di adattamento con la quale si fronteggiano le situazioni stressanti) disfunzionale, che ha avuto origine in un ambiente di sviluppo percepito come imprevedibile, minaccioso, o in cui la sensazione di amabilità viene difficilmente sperimentata. Questa regolazione emotiva tesa a monitorare e punire aspramente gli errori connessi, invece che di incoraggiarsi e di accudirsi, avrebbe il ruolo di mantenere il locus of control interno, cioè la percezione di controllare gli eventi esterni negativi, essendo più attenti a questi, con l’effetto collaterale di darsi la colpa e responsabilità per l’accaduto. Per questo motivo l’autocritica servirebbe come difesa parossistica rispetto alla sensazione di immodificabilità degli eventi negativi esterni accaduti.

L’idea di Gilbert fu proprio di riattivare il soothing system ipostimolato attraverso dei training specifici, conosciuti come “compassionate mind training” (CMT); in questi training si riattiva la capacità motivazionale della compassione, intesa come capacità fisiologica di provare empatia e benevolenza verso le sofferenze di sé e degli altri.

Diversi studi hanno evidenziato che le persone che riescono ad avere verso se stessi un atteggiamento più cordiale, gentile, tollerante, benevolo e compassionevole tendono ad avere migliori rapporti sociali e soffrire meno di ansia, depressione, vergogna e paura di fallire. Inoltre questo faciliterebbe la regolazione emotiva di fronte alle situazioni difficili e diminuirebbe significativamente la ruminazione negativa.

L’auto-compassione è un costrutto psicologico auto-correlato, riferendosi alla capacità di trattare i propri problemi personali, i sentimenti di inadeguatezza e sofferenza con un senso di calore, connessione ed equilibrio. Secondo Neff, l’autocompassione si compone di tre elementi principali: l’auto-gentilezza, che si riferisce alla tendenza a essere premuroso e comprensivo con se stesso quando ci si trova a fronteggiare fallimenti personali, problemi e stress; sorte umana comune, cioè l’inclinazione a riconoscere il fallimento, i problemi e lo stress come normali condizioni umane; infine, la consapevolezza,  la capacità di non essere troppo assorbiti dalle proprie difficoltà e dai sentimenti negativi associati, così da poter mantenere un sano equilibrio tra gli eventi negativi e positivi. Questo costrutto contribuisce alla resilienza e all’adattamento umano di fronte alle avversità ed è correlato con il benessere, in quanto gli individui con livelli più elevati di autocompassione generalmente mostrano livelli più bassi di stress e sintomi psicopatologici. Dal punto di vista fisiologico, è associato a un aumento dell’ossitocina, neuropeptide che fornisce una sensazione di calma e tranquillità e inibisce l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (circuito cerebrale associato alla paura). L’attivazione di questo sistema, inoltre, non solo favorisce una migliore regolazione emotiva ma migliora anche le funzioni immunitarie e la longevità.

 

Per approfondimenti:

Barnard, L. K., & Curry, J. F. (2011). Self-compassion: Conceptualizations, correlates, and interventions. Review of General Psychology, 15, 289–303.

Gilbert, P., e Irons, C. (2005). Focused therapies and compassionate mind training for shame and self-attacking. In P. Gilbert (ed.), Compassion: Concepzualisations, Research and Use in Psychotherapy (pp. 263-325)

Gilbert, P., McEwan, K., Matos, M., & Rivis, A. (2011). Fears of compassion: Development of three self-report measures. Psychology and Psychotherapy: Theory, Research and Practice, 84, 239–255

Peter Muris e Nicola Petrocchi (2016). Protection or Vulnerability? A Meta-Analysis ofthe Relations Between the Positive and Negative Components of Self-Compassion and Psychopathology. Clinical Psychology and Psychotherapy Clin. Psychol. Psychother.

Zak PG (2012). The moral molecule. Penguin Group, New York

Workshop sulla Compassion Focused Therapy nel trattamento della rabbia problematica.

di Rosita Maglio

Si è conclusa da poco a Manchester la 4ª edizione della Conferenza Internazionale sulla Terapia Focalizzata sulla Compassione (21-23 ottobre, 2015). Il giorno precedente l’inizio della conferenza c’è stata la possibilità di partecipare ad alcuni workshop formativi, tra i quali quello tenuto dal Prof. Russell Kolts dell’Università della Eastern Washington, centrato sull’applicazione della Compassion Focused Therapy (CFT) nel trattamento della rabbia problematica.

Il Prof. Kolts svolge anche attività clinica in ambito forense, lavorando nelle prigioni, con pazienti che presentano problematiche legate alla rabbia. Il modello da lui proposto si basa sull’approccio sviluppato dal Prof. Paul Gilbert e ruota intorno all’idea di promuovere nel soggetto meccanismi più funzionali di controllo della rabbia, partendo dal presupposto che il soggetto agisce ponendo in essere strategie maladattive che però non sceglie consapevolmente di mettere in atto. Strutturalmente, il workshop ha visto una prima parte introduttiva, dove è stata presentata l’emozione della rabbia nell’ottica della CFT ed il motivo per il quale sarebbe auspicabile utilizzare un approccio compassionevole nel trattamento della rabbia problematica. La seconda parte ha riguardato l’applicazione della CFT nel trattamento della rabbia. Leggi tutto “Workshop sulla Compassion Focused Therapy nel trattamento della rabbia problematica.”

Cos’è la Terapia Focalizzata sulla Compassione (Compassion Focused Therapy) – parte prima

di Nicola Petrocchi

Come anticipato nello scorso post, inizierei a descrivere, a “puntate”, alcuni elementi interessanti della Compassion Focused Therapy ovvero la Terapia Focalizzata sulla Compassione (TFC). La TFC è una terapia sviluppata dallo psicoterapeuta e ricercatore Paul Gilbert, professore di Psicologia Clinica all’Università di Derby (UK) che da circa 20 anni studia dal punto di vista evoluzionistico la psicologia umana (è stato presidente della British Association for Cognitive and Behavioural Psychotherapy). Leggi tutto “Cos’è la Terapia Focalizzata sulla Compassione (Compassion Focused Therapy) – parte prima”

La compassione di sé e la voglia di imparare

di Nicola Petrocchi

Continuo in questo post il discorso (che avevo lasciato un po’ in sospeso, esame di specializzazione alle porte, sorry!) sui vari aspetti della compassione (in questo caso, verso se stessi) e sulla sua possibile utilità in ambito psicologico. Visto il clima d’esame ho trovato interessante un articolo di Kristin Neff (creatrice del costrutto della Self-Compassion che ho descritto nello scorso post) di un po’ di tempo fa (2005… non il post, l’articolo!) che mette in relazione un atteggiamento compassionevole verso sé stessi con alcune variabili cognitive che agitano i sonni e i risvegli all’alba di molti di noi che (ancora!) studiano: gli scopi relativi alle performance accademiche e le strategie di coping rispetto a (ipotetici….) fallimenti accademici. Leggi tutto “La compassione di sé e la voglia di imparare”