Essere compassionevoli

di Antonella D’Innocenzo

La Compassion Focused Therapy applicata in un contesto di gruppo

La CFT (Compassion Focused Therapy) è un approccio psicoterapeutico nato nell’ambito delle terapie cognitivo-comportamentali della terza generazione, grazie al lavoro di Paul Gilbert, che conferisce particolare centralità al fenomeno dell’autocritica e alla necessità di sviluppare una relazione accudente e benevola nei propri confronti. Quel dialogo interiore che continuamente svaluta, denigra e commenta in tono sprezzante e freddo le esperienze del soggetto rappresenta una modalità tesa al monitorare e punire eventuali errori piuttosto che al validarsi, accudirsi e incoraggiarsi, e sembra rivestire un ruolo chiave nello sviluppo e nel mantenimento di diverse condizioni psicopatologiche. L’incapacità o la difficoltà di alcune persone di attivare verso sé o verso gli altri una motivazione compassionevole dipenderebbe da un peggiore funzionamento del soothing system (sistema calmante), un sistema di regolazione emotiva responsabile di emozioni di calma, tranquillità e appagamento che si sperimentano quando non ci si deve difendere da qualche minaccia, lottare per acquisire risorse o raggiungere standard e che, al livello fisiologico, deriverebbe dall’attivazione del sistema parasimpatico e del sistema delle endorfine e dell’ossitocina. Segnali affiliativi di sicurezza (inclusi il tono di voce, la velocità dell’eloquio, lo sguardo, la vicinanza fisica) avrebbero la capacità stimolare il soothing system, quando emessi verso altri, quando rilevati nell’ambiente, e quando prodotti a livello endogeno e rivolti a noi stessi. Il compassionate mind training (CMT) rappresenta dunque un training volto a riattivare il funzionamento di un sistema emotivo compromesso, attraverso l’insegnamento e la pratica di specifiche skills. Ogni sessione comprende: elementi di psico-educazione sul modello evoluzionistico e sul razionale delle varie pratiche; lo svolgimento di pratiche di mindfulness volte a coltivare la consapevolezza e la presenza mentale; lo svolgimento di esercizi, pratiche meditative e immaginative allo scopo di attivare e sviluppare i tre principali “flussi” della compassione (quella degli altri verso di noi, quella che scaturisce da noi, indirizzata verso gli altri e quella verso noi stessi); momenti di discussione e condivisione di gruppo, in un clima di scoperta condivisa e di mutua validazione, cruciale nel costruire le abilità target del training. In particolare, nella prima parte del training, la stimolazione del sistema calmante avviene attraverso pratiche che coinvolgono più direttamente il corpo (ritmo del respiro calmante, postura) e attraverso la produzione intenzionale di segnali affiliativi nei confronti di se stessi e degli altri (tecnica del mezzo sorriso, del tono di voce “interiore”); successivamente si procede esplorando come l’attivazione volontaria di un particolare sistema motivazionale, la compassione, possa “accendere” il soothing system in modo più stabile. A queste pratiche si affianca, inoltre, un lavoro specifico volto a comprendere l’origine e la funzione dell’autocritica e ad allenare una modalità alternativa di rapporto con se stessi. Un gruppo di CMT è implementabile in gruppi di pazienti che, pur avendo differenti diagnosi, presentano alti livelli di autocritica e vergogna. Il terapeuta conduttore, oltre ad avere un’esperienza personale di pratica mindfulness e delle diverse pratiche della CMT, deve sviluppare l’abilità di cogliere l’attivazione dei sistemi motivazionali nei partecipanti e in se stesso, in modo da poterli validare ed eventualmente ri-orientare verso una motivazione compassionevole.

 

Abbi cura di te

di Sonia Di Munno

La Compassion Focused Therapy, un nuovo approccio psicoterapeutico per combattere la vulnerabilità alla psicopatologia

Negli ultimi anni, studi sperimentali hanno evidenziato come l’attitudine della persona ad autocriticarsi in maniera disprezzante e invalidante contribuisca al mantenimento della psicopatologia. Una terapia che si focalizza su questa attitudine, verso se stessi e verso gli altri, è la Compassion Focused Therapy (CFT). Tutto nasce da uno studio di Gilbert che aveva notato la resistenza dei pazienti depressi alle tecniche di ristrutturazione cognitiva e della persistenza di pensieri disfunzionali di disvalore, non amabilità e disprezzanti verso se stessi. Questi pazienti, benché razionalmente riuscissero a formulare dei pensieri alternativi a queste credenze nucleari, non riuscivano emotivamente a sentirli veri e autentici e non cambiava la loro sensazione di solitudine e indegnità che li caratterizzava. Gilbert scoprì un sistema di regolazione affettiva particolarmente deficitario in questi pazienti, il soothing system (sistema calmante). Questo sistema raggruppa emozioni positive di sicurezza, tranquillità e appagamento che si sperimentano durante le interazioni affiliative con gli altri. La CFT suggerisce che esperienze infantili di accudimento disfunzionale hanno reso più funzionale, per questi pazienti, un iper-sviluppo del sistema di protezione della minaccia, il threath system (il sistema della paura) di cui il comportamento auto-critico sarebbe una manifestazione a discapito di un normale sviluppo del soothing system.  L’autocritica, secondo Gilbert, non è altro che una strategia di coping (ovvero la modalità di adattamento con la quale si fronteggiano le situazioni stressanti) disfunzionale, che ha avuto origine in un ambiente di sviluppo percepito come imprevedibile, minaccioso, o in cui la sensazione di amabilità viene difficilmente sperimentata. Questa regolazione emotiva tesa a monitorare e punire aspramente gli errori connessi, invece che di incoraggiarsi e di accudirsi, avrebbe il ruolo di mantenere il locus of control interno, cioè la percezione di controllare gli eventi esterni negativi, essendo più attenti a questi, con l’effetto collaterale di darsi la colpa e responsabilità per l’accaduto. Per questo motivo l’autocritica servirebbe come difesa parossistica rispetto alla sensazione di immodificabilità degli eventi negativi esterni accaduti.

L’idea di Gilbert fu proprio di riattivare il soothing system ipostimolato attraverso dei training specifici, conosciuti come “compassionate mind training” (CMT); in questi training si riattiva la capacità motivazionale della compassione, intesa come capacità fisiologica di provare empatia e benevolenza verso le sofferenze di sé e degli altri.

Diversi studi hanno evidenziato che le persone che riescono ad avere verso se stessi un atteggiamento più cordiale, gentile, tollerante, benevolo e compassionevole tendono ad avere migliori rapporti sociali e soffrire meno di ansia, depressione, vergogna e paura di fallire. Inoltre questo faciliterebbe la regolazione emotiva di fronte alle situazioni difficili e diminuirebbe significativamente la ruminazione negativa.

L’auto-compassione è un costrutto psicologico auto-correlato, riferendosi alla capacità di trattare i propri problemi personali, i sentimenti di inadeguatezza e sofferenza con un senso di calore, connessione ed equilibrio. Secondo Neff, l’autocompassione si compone di tre elementi principali: l’auto-gentilezza, che si riferisce alla tendenza a essere premuroso e comprensivo con se stesso quando ci si trova a fronteggiare fallimenti personali, problemi e stress; sorte umana comune, cioè l’inclinazione a riconoscere il fallimento, i problemi e lo stress come normali condizioni umane; infine, la consapevolezza,  la capacità di non essere troppo assorbiti dalle proprie difficoltà e dai sentimenti negativi associati, così da poter mantenere un sano equilibrio tra gli eventi negativi e positivi. Questo costrutto contribuisce alla resilienza e all’adattamento umano di fronte alle avversità ed è correlato con il benessere, in quanto gli individui con livelli più elevati di autocompassione generalmente mostrano livelli più bassi di stress e sintomi psicopatologici. Dal punto di vista fisiologico, è associato a un aumento dell’ossitocina, neuropeptide che fornisce una sensazione di calma e tranquillità e inibisce l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (circuito cerebrale associato alla paura). L’attivazione di questo sistema, inoltre, non solo favorisce una migliore regolazione emotiva ma migliora anche le funzioni immunitarie e la longevità.

 

Per approfondimenti:

Barnard, L. K., & Curry, J. F. (2011). Self-compassion: Conceptualizations, correlates, and interventions. Review of General Psychology, 15, 289–303.

Gilbert, P., e Irons, C. (2005). Focused therapies and compassionate mind training for shame and self-attacking. In P. Gilbert (ed.), Compassion: Concepzualisations, Research and Use in Psychotherapy (pp. 263-325)

Gilbert, P., McEwan, K., Matos, M., & Rivis, A. (2011). Fears of compassion: Development of three self-report measures. Psychology and Psychotherapy: Theory, Research and Practice, 84, 239–255

Peter Muris e Nicola Petrocchi (2016). Protection or Vulnerability? A Meta-Analysis ofthe Relations Between the Positive and Negative Components of Self-Compassion and Psychopathology. Clinical Psychology and Psychotherapy Clin. Psychol. Psychother.

Zak PG (2012). The moral molecule. Penguin Group, New York

La compassione di sé e la voglia di imparare

di Nicola Petrocchi

Continuo in questo post il discorso (che avevo lasciato un po’ in sospeso, esame di specializzazione alle porte, sorry!) sui vari aspetti della compassione (in questo caso, verso se stessi) e sulla sua possibile utilità in ambito psicologico. Visto il clima d’esame ho trovato interessante un articolo di Kristin Neff (creatrice del costrutto della Self-Compassion che ho descritto nello scorso post) di un po’ di tempo fa (2005… non il post, l’articolo!) che mette in relazione un atteggiamento compassionevole verso sé stessi con alcune variabili cognitive che agitano i sonni e i risvegli all’alba di molti di noi che (ancora!) studiano: gli scopi relativi alle performance accademiche e le strategie di coping rispetto a (ipotetici….) fallimenti accademici. Leggi tutto “La compassione di sé e la voglia di imparare”

Utilità della Self-Compassion e della Compassion-Focused Therapy nella terapia Cognitivo Comportamentale

di Nicola Petrocchi

Ci accorgiamo tutti di quanto sia cresciuto, solo negli ultimi anni, l’interesse verso i benefici della mindfulness, una componente centrale della filosofia e della pratica di meditazione di origine buddista. C’è un altro costrutto essenziale di questa filosofia che sta recentemente attirando l’interesse di clinici e ricercatori e che può, a mio parere, essere uno strumento molto potente in psicoterapia: è la pratica della compassione, in particolare della compassione di sé. La compassione è “una particolare sensibilità alla sofferenza di noi stessi e degli altri, unita al vissuto del desiderio di alleviarla”; rivolgerla a noi stessi vuol dire essere consapevoli e “toccati” dalla nostra stessa sofferenza e sperimentare un desiderio di benessere nei nostri confronti. In sintesi, è la disponibilità a dare a se stessi, soprattutto in momenti di sofferenza, lo stesso tipo di attenzione, cura e gentilezza che saremmo soliti riservare alle persone amate che si trovano in una condizione simile. Nel 2003, Kristin Neff, una psicologa e ricercatrice americana dell’università del Texas, ad Austin, ha introdotto il costrutto della Self-Compassion che descrive questa attitudine come la risultante di tre abilità di base: 1) la capacità di trattarsi con gentilezza, comprensione e perdono (ad esempio con un cambiamento intenzionale del proprio self-talk) piuttosto che con severa auto-critica; 2) la capacità di vedere le proprie esperienze negative e i propri difetti come aspetti condivisi dell’esperienza umana piuttosto che come elementi “anormali”, di separazione ed isolamento dagli altri; 3) la capacità di affrontare e contenere le proprie emozioni e pensieri dolorosi con consapevolezza piuttosto che iper-coinvolgimento ed identificazione (abilità di mindfulness). La Neff ha inoltre costruito uno strumento, la Self-Compassion Scale che è attualmente utilizzato in numerose ricerche internazionali e i dati ci dicono che correla con la maggior parte delle misure di benessere psicologico ben più di quanto possa fare un costrutto apparentemente simile, ma profondamente diverso, che è l’autostima. Di quest’ultima garantirebbe i benefici senza però gli ormai noti “effetti collaterali” tra cui aumento delle tendenze narcisistiche, chiusura cognitiva, tendenza a negare o accusare gli altri per i propri fallimenti ed ad esibire quello che è stato definito il better-than-average effect: il bisogno di sentirsi migliori degli altri come unico modo per sentirsi bene con se stessi.

E’ di Gilbert, un altro noto psicoterapeuta e ricercatore sul tema della compassione, il merito di aver strutturato un intervento per rendere le abilità della compassione utilizzabili in ambito psicoterapeutico. Gilbert (2009)  ha creato uno specifico training, il Compassionate Mind Training, che insegna come incrementare la compassione di sé e ridurre la tendenza all’autocritica, soprattutto in pazienti con una spiccata disposizione all’auto-invalidazione, come la definirebbe la Linehan.

Nel gennaio 2011 ho avuto la fortuna (anche perché era in un’assolata isoletta sperduta delle Canarie!) di partecipare a un corso di una settimana con Paul Gilbert dove ho imparato ad applicare il Compassionate Mind Training in terapia: queste idee hanno cambiato il mio modo di fare terapia e penso che possano dare un grande contributo a tutti noi che siamo alle prese con i problemi secondari (dei pazienti e nostri!). La riflessione su come le pratiche della compassione possano giovare ai pazienti continua: al recente forum di Assisi, ho pensato di dare un piccolo contributo allo sviluppo della ricerca in questo campo con un poster sulla validazione italiana della Self-Compassion Scale. I risultati sono stati interessanti e spero che possano essere d’aiuto a sviluppare nuove idee..

Neff, K. D. (2003).  Development and validation of a scale to measure self-compassion. Self and Identity, 2, 223-250.
Gilbert, P. (2009). The Compassionate Mind. London: Constable-Robinson. Oaklands CA.: New Harbinger