Regolazione emotiva e autolesionismo

di Emanuela Pidri

Dalla diagnosi al trattamento dell’autolesionismo non suicidario

L’autolesionismo è una pratica diffusa tra gli adolescenti e i giovani adulti. L’incidenza di tale fenomeno oscilla tra il 15 e il 20%, mentre l’epoca di esordio si aggira intorno ai 13-14 anni, con una prevalenza del 22% nelle donne. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V) inserisce tra i disturbi psicopatologici due categorie diagnostiche: autolesionismo non suicidario e autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato. La condotta autolesiva deve essere preceduta da una o più delle seguenti aspettative: ottenere sollievo da una sensazione/stato cognitivo negativo; risolvere una situazione relazionale; indurre una sensazione positiva. Inoltre, il comportamento autolesivo deve essere associato ad almeno uno dei seguenti sintomi: difficoltà interpersonali o sensazioni/pensieri/sentimenti negativi precedenti al gesto autolesivo; preoccupazione incontrollabile per il gesto; frequenti pensieri autolesivi. Le motivazioni sottostanti la messa in atto dell’autolesionismo sono in genere relative la necessità di uscire da uno stato mentale di vuoto per riconnettersi alla realtà, spostando così l’attenzione dal dolore emotivo a quello fisico, vissuto come più tollerabile. Non c’è una singola causa ma una concatenazione di fattori e di eventi, il più delle volte traumatici (abusi di tipo fisico, psicologico o sessuale, bullismo, problemi familiari di negligenza e conflitti). Attraverso la messa in atto di un comportamento autolesivo, il soggetto solitamente prova a: gestire o ridurre l’ansia e lo stress alla ricerca di un senso di sollievo; scaricare la rabbia, la frustrazione, la colpa e la vergogna; riacquisire il controllo del proprio corpo, delle proprie emozioni e sensazioni; comunicare il proprio malessere interiore; ricercare attenzione o attuazione di punizioni. Alcuni fattori sono in grado di aumentare il rischio di mettere in atto condotte autolesive: età, avere amici o partner autolesionisti, soffrire di altre patologie psichiatriche; tratti temperamentali (perdita di controllo, impulsività e disregolazione emotiva); insoddisfazione e vergogna del proprio corpo; bassa autostima. Nonostante gli atti autolesionistici abbiano una natura diversa rispetto ai tentativi di suicidio, esiste un forte legame predittivo. Dal punto di vista neuroscientifico, uno studio coordinato dallo psichiatra tedesco Hanfried Helmchen nel 2006 ha rilevato che le aree del cervello che codificano l’intensità del dolore non differenziano tra stimoli dolorosi generati dal contesto esterno e quelli autoprodotti. Alla luce di tali risultati, è possibile ipotizzare, da un punto di vista psicologico, che l’autolesionismo porti il corpo/la mente a preferire un dolore proveniente dal corpo, al fine di evitare un dolore più intenso proveniente dal mondo emotivo/relazionale. In questo modo, anche a livello fisiologico, emerge come l’evitare il contatto con le proprie emozioni, attraverso l’autoinfliggersi dolore, abbia un effetto meno doloroso rispetto al venire in contatto con le emozioni stesse. Infine, le ricerche hanno evidenziato una disfunzione del sistema serotoninergico nelle persone che compiono atti autolesivi, che costituisce il correlato biologico dei comportamenti impulsivi e aggressivi. Ciò spiegherebbe l’impiego di antidepressivi per la riduzione della compulsione a ferirsi e, nei casi più severi, l’opportunità di un periodo di osservazione in ospedale.  L’approccio cognitivo-comportamentale prevede l’utilizzo di tecniche utili  ad aiutare gli adolescenti e i giovani adulti ad affrontare eventuali situazioni elicitanti l’autolesionismo. Strumenti cognitivo-comportamentali, quali l’analisi funzionale, potrebbero essere preziosi al fine di identificare gli antecedenti e le conseguenze situazionali, cognitive ed emotive dell’atto autolesivo. La Dialectical Behavior Therapy prevede il ricorso a setting multipli di trattamento: individuale, gruppo di skill training, coaching telefonico e gestione del caso in équipe. Appare fondamentale la gestione della regolazione emotiva che richiede l’abilità di sentire ed etichettare le emozioni provate e l’abilità di ridurre gli stimoli emotivamente rilevanti, che potrebbero causare la riattivazione di emozioni negative/positive oppure risposte emotive secondarie. Di notevole importanza, in tali casi è l’incremento delle abilità psicosociali e l’aumento della motivazione al cambiamento.

Per approfondimenti:

American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5. Arlington, VA. (Tr. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014).

Kiekens, G., Hasking, P., Bruffaerts, R., Claes, L., Baetens, I., Boyes, M., Mortier, P., Demyttenaere, K., Whitlock, J. (2017). What predicts Ongoing Nonsuicidal Self-Injury?: A Comparison Between Persistent and Ceased Self-Injury in Emerging Adults. Journal of Nervous & Mental Disease.

Linhean, M. (2011). Trattamento cognitivo comportamentale del disturb borderline. Raffaello Cortina Editore.

Porr, V. (2020). Superare il disturbo borderline di personalità. Guida pratica per familiari, partner e clinici. Trento: Centro Studi Erickson

Foto di cottonbro da Pexels

Tu chiamale, se vuoi, emozioni

di Manuel Petrucci

L’importanza di trovare le parole per descrivere l’esperienza emotiva

«Spesso canta il lupo nel mio sangue

e allora l’anima mia si apre

in una lingua straniera».

Mariella Mehr (Ognuno incatenato alla sua ora)

 

Cercano di tenerci lontano dai pericoli, ci invitano a ribellarci ai torti subiti, ci fanno sorridere dei successi e degli incontri felici, sferzano il nostro corpo con energie, brividi, vampate, impulsi, dolori. Le emozioni ci guidano nelle nostre imprese con la loro conoscenza di ciò che per noi è importante, segnalando valori e implicazioni, suggerendo azioni, possibili soluzioni. Eppure, nel momento in cui ci troviamo a riflettere su di esse, o a raccontarle, spesso ci troviamo disorientati: potremmo non sapere quando si sono attivate, le cause, e nemmeno riuscire a dar loro un nome, esprimendo solo un generico “sto bene/male”. Questo perché l’emozione, per svolgere quella essenziale funzione di “bussola”, non ha bisogno della nostra consapevolezza, non completa almeno. E, non di secondario rilievo, spesso non siamo allenati a essere consapevoli e a riconoscere le emozioni, non abbiamo le coordinate, le abilità per farlo. Abilità che si rendono indispensabili quando vi è necessità di regolare o tollerare gli stati emotivi ad alta intensità. Il punto di partenza cruciale a tale scopo è proprio quello di trovare parole per definire, “etichettare” (labeling) l’emozione provata o che si sta provando. Gli approcci cognitivisti alla psicoterapia offrono numerosi strumenti per lo sviluppo di questa capacità, a partire da una delle colonne portanti, il modello ABC, che una volta appreso diviene per il paziente risorsa agevole e preziosa di comprensione non solo dell’emozione esperita, ma anche dei nessi tra eventi (A), valutazioni (B) ed emozioni (C). La Dialectical Behavior Therapy (DBT), specificamente disegnata per la costruzione di abilità di regolazione emotiva, prevede un modulo sulla denominazione delle emozioni, con schede da presentare al paziente in cui, oltre agli eventi attivanti, le credenze, le espressioni e le tendenze alle azioni tipiche, vi è per ciascuna emozione una “famiglia” di parole che afferiscono a tale emozione e ne descrivono variazioni e sfaccettature. L’attenzione alle parole per definire le emozioni nella DBT si inserisce all’interno di un più ampio approccio in cui la descrizione, intesa appunto come capacità di mettere in parola, costituisce una delle abilità nucleari della Mindfulness, supportando quindi in maniera fondamentale la possibilità di stare consapevolmente nel momento presente.

Identificare un’emozione rappresenta già di per sé un atto di regolazione emotiva, come mostrano diversi dati di ricerca. Secondo la ricercatrice californiana Lisa Burklund, gli effetti del labeling affettivo sull’attivazione di aree cerebrali coinvolte nell’elicitazione e nella regolazione delle emozioni, come la corteccia prefrontale e l’amigdala, sono comparabili a quelli di altre strategie di regolazione, come la ristrutturazione cognitiva. Altri studi coordinati dallo statunitense Jason Lee mostrano, inoltre, che l’abilità di riconoscere e descrivere le emozioni in maniera dettagliata, differenziando non solo le diverse emozioni, ma anche le sfumature all’interno della stessa emozione (granularità emozionale) si associa a una migliore capacità di regolazione, come indicato dalla modulazione delle attivazioni neurali che segnalano l’allocazione dell’attenzione e il controllo cognitivo in risposta a stimoli emozionali.

Perché una semplice “etichetta”, senza alcun intervento concreto, senza alcuna strategia di problem solving ancora attuata, riesce di per sé a modificare un’emozione? La portata di questa influenza è spiegata dal fatto che le parole non possono essere considerate dei semplici input o output percettivi, né meri mezzi di trasmissione di informazioni. Mentre la percezione di un oggetto, ad esempio un libro, è sempre una percezione specifica, di quel libro in quel particolare momento, e la parola “libro” ha il potere di essere categoriale. Ad ogni livello di astrazione, la parola trascende la percezione, divenendo contesto, cornice all’interno della quale l’elaborazione delle informazioni è orientata. Le parole rappresentano dunque categorie dell’esperienza, lenti di significato attraverso cui leggere e vivere frammenti della complessa realtà che ci circonda, o di quella che portiamo dentro di noi come esseri pensanti e senzienti. Dare un nome all’emozione ne favorisce quindi l’accoglienza come qualcosa di comprensibile, accettabile e gestibile, contrastando una tendenza potente all’evitamento o alla soppressione che è innescata soprattutto dalle emozioni negative ad alta intensità, e che può condurre ad adottare strategie di regolazione con esiti molto dannosi sia per la salute psicologica che fisica. Per citare ancora la poetessa Mariella Mehr, “il linguaggio dell’inverno porta in giro le gemme”: della consapevolezza, della conoscenza, della padronanza.

 

Per approfondimenti

Burklund, L.J., Creswell, J.D., Irwin, M.R., & Lieberman, M.D. (2014). The common and distinct neural bases of affect labeling and reappraisal in healthy adults. Frontiers in Psychology, 5:221.

Lee, J.Y., Lindquist, K.A., & Nam, C.S. (2017). Emotional granularity effects on event-related brain potentials during affective picture processing. Frontiers in Human Neuroscience, 11:133

Lupyan, G., & Clark, A. (2015). Words and the world: predictive coding and the language-perception-cognition interface. Current Directions in Psychological Science, 24(4), 279-284.

SITCC 2018 – La relazione terapeutica nella Terza Onda: nuove generazioni a confronto

di Maurizio Brasini

Lo scopo di questo simposio, realizzato nella giornata di sabato all’interno del XIX Congresso Sitcc di Verona, nelle intenzioni dei suoi promotori (il dr. Giuseppe Romano e il dr. Maurizio Brasini), era duplice: da una parte stimolare una riflessione sul ruolo della relazione terapeutica nell’ambito di quel variegato insieme di nuovi indirizzi epistemologici, metodi, tecniche e protocolli di intervento che viene denominato “terza onda” del cognitivismo; d’altro canto consentire uno scambio tra gli esponenti dell’attuale generazione di terapeuti cognitivi cresciuta all’interno di questo movimento per certi versi frastagliato e frammentario, nella auspicabile prospettiva di una integrazione.
La dr.ssa Elena Bilotta ha presentato una rassegna degli studi esistenti (non molto numerosi) sulla relazione terapeutica nei protocolli di Mindfulness. Al di là dei risultati non conclusivi circa il ruolo della relazione terapeutica nei protocolli di mindfulness (alcuni studi per esempio suggeriscono che l’effetto principale riguardi il committment piuttosto che l’esito), la dr.ssa Bilotta ha sottolineato un aspetto di notevole interesse riflettendo sul duplice ruolo del terapeuta/insegnante di Mindfulness: da una parte depositario di un sapere codificato di tipo tecnico/scientifico, dall’altra esempio incarnato di un modo di intendere la vita (il “Maestro”). Nel superamento di questa antinomia, profondamente radicata nella storia di tutta la psicoterapia, si intravede la strada per la conciliazione di metodi e relazione in psicoterapia.
Il dr. Emanuele Rossi ha illustrato i principi fondamentali della Acceptance and Commitment Therapy. Nell’individuare le matrici scientifiche e culturali su cui Ë sviluppato questo nuovo approccio, il dr. Rossi ha invitato a considerare l’ACT nella cornice più ampia dell’incontro tra il contestualismo funzionale (compatibile con l’approccio tradizionalmente comportamensita, ma non riducibile ad esse), la Relational Frame Theory, ed alcuni fondamenti degli orientamenti umanisti. A parere di chi scrive è proprio nel recupero di questa tradizione, preziosa ma non sempre riconociuta e valorizzata nell’ambito del cognitivismo, che risiede la chiave per comprendere la reale innovatività di questo approccio ed anche il suo ampio respiro in termini relazionali. L’importanza attribuita al modo di stare nella relazione e le caratteristiche del terapeuta (paritetico, equo, vulnerabile, compassionevole, genuino, rispettoso, aperto) ricordano molto da vicino l’approccio Rogersiano.
La dr.ssa Monica Dalla Valle ha introdotto alcuni principi di base della schema therapy ed ha mostrato con un esempio clinico le implicazioni del modello sulla relazione terapeutica. La dr.ssa Dalla Valle ha mostrato da una parte come alcuni costrutti centrali nella schema therapy, quali ad esempio i concetti di “bisogno emotivo”, di “schema” e “mode”, siano riferiti essenzialmente al mondo interpersonale del paziente; d’altra parte, il modello di intervento è fortemente basato sull’uso che il terapeuta fa della relazione (per esempio nel confronto empatico o nel reparenting) per “mettere in gioco” le dinamiche interpersonali del paziente. A parere di chi scrive, l’ispirazione transazionale della schema therapy contribuisce in modo decisivo a declinarla in senso relazionale. Inoltre, come evidenzia la dr.ssa Dalla Valle, il terapeuta informato alla schema therapy è chiamato ad un continuo monitoraggio di come i propri schemi entrano in gioco con il paziente, quello che Safran e Segal chiamerebbero “cicli interpersonali”.
La dr.ssa Ilaria Martelli Venturi ha mostrato, attraverso alcune tranches cliniche, la tensione dialettica propria della relazione terapeutica nel modello della dialectical behavior therapy (DBT), in cui il delicato equilibrio dinamico tra accettazione e cambiamento comporta che il terapeuta danzi insieme al paziente tra questi due poli opposti, con una costante attenzione al cambiamento degli stati dolorosi entro una sostanziale accettazione dei limiti imposti dalla realtà. Il terapeuta è dunque focalizzato primariamente sulla relazione, terapeutica, che gestisce integrando strategie e tecniche cognitivo-comportamentali con la pratica della mindfulness e dell’accettazione radicale, bilanciando interventi di reciprocità comunicativa propri della validazione emotiva e interventi di comunicazione irriverente, orientati al cambiamento.
Nell’insieme, i relatori di questo simposio sembrano offrire una incoraggiante risposta alla dibattuta questione se la terza onda apra la strada ad un cambiamento di paradigma o al contrario, per parafrasare il Vangelo, sia un po’ come “vino vecchio in otri nuove”. La sensazione è che la nuova generazione di terapeuti non si soffermi sulla patina “new age” né su altri aspetti della confezione dei modelli presentati, evidenziando invece connessioni ramificate non solo con il cognitivismo di prima e seconda generazione, ma anche con altri orientamenti esterni al cognitivismo (si vedano ad esempio le terapie di area umanista), la cui eredità era forse stata poco valorizzata dalle prime ondate. Questo fa ben sperare per un futuro in cui si potranno considerare parte dell’azione terapeutica aspetti quali ad esempio l’accettazione della condizione umana, la consapevolezza del presente, l’impegno orientato ai valori, e – naturalmente – la centralità della relazione con l’altro, all’interno di una cornice di riferimento forse meno esotica ma più radicata nella nostra cultura di riferimento: quella dell’umanesimo. D’altro canto, a recitare “Signore dammi la forza di cambiare le cose che posso modificare e la pazienza di accettare quelle che non posso cambiare e la saggezza per distinguere la differenza tra le une e le altre” è una preghiera di Tommaso Moro, anche se potrebbe sembrare un mantra tibetano!

Chiedilo a Kurt Cobain

di Caterina Parisio

 Solitudine e stati di vuoto: la disregolazione emotiva da Kurt Cobain a Marylin Monroe, passando per le canzoni di Brunori Sas

 Immaginate quanto sia sfiancante dover cercare costantemente l’altro per evitare di sentire affiorare quel profondo senso di solitudine e abbandono di fondo. Convivere con l’esperienza soggettiva di continua autoinvalidazione di fronte ad un sé vissuto come indegno, sentimenti di rabbia e disprezzo verso se stessi, comportamenti autodistruttivi, stati di vuoto e anestesia emotiva: una vita priva di relazioni affettive intime autentiche, dove non c’è spazio per le proprie passioni e i propri desideri, se non vissuti con la sensazione di “giostra emotiva”, in cui la disregolazione fa da padrone alla gestione di ogni stato.

“Andare a scoprire se è vero che non sei soltanto una scatola vuota o l’ultima ruota del carro più grande che c’è”: così canta Dario Brunori, meglio conosciuto come Brunori Sas, nel brano “Kurt Cobain”. Facendo luce su ciò che succede una volta scesi dal “palcoscenico”, la corazza apparentemente luccicante si riduce a una crosta. La verità è che l’esperienza più intima che a volte si prova è un’esperienza di vuoto, di annichilimento, fragilità, terrore, mancanza di senso, spegnimento, inconsistenza. Quante volte, appena rotto l’incantesimo, che sia una relazione o un’esibizione, tutto si spegne, inizia l’era della stasi, del tempo arrestato, della profonda solitudine?

La storia di Kurt Cobain è ricca di aspetti psichiatrici e psicopatologici, culminati con il gesto estremo. Rabbia e disperazione sembrano essere gli stati d’animo che maggiormente lo caratterizzano: proprio come un prigioniero chiuso in una gabbia per tanti anni che grida la sua voglia di uscire.

Oltre a periodi di depressione ricorrente, Kurt Cobain soffriva cronicamente di gravi dolori addominali, che sosteneva di riuscire a curare solamente attraverso l’effetto analgesico degli oppiacei, nella fattispecie l’eroina, di cui è stato dipendente per diversi periodi della sua vita.

In un’intervista alla rivista Rolling Stone dichiarò che i dolori erano così forti che lo portarono ad avere seri problemi di alimentazione, fino a sviluppare un’ideazione autolesiva: “Avrei voluto uccidermi ogni giorno. – ha detto – Ci sono andato vicino diverse volte. Mi sono trovato in tour, steso sul pavimento a vomitare aria, perché non andava giù neanche l’acqua…”.
“Chiedilo a Kurt Cobain come ci si sente a stare sopra un piedistallo e a non cadere”, canta oggi Brunori: Kurt Cobain si suicidò all’età di ventisette anni nel 1994 con un colpo di fucile nella sua casa di Seattle.
Accanto al corpo c’era una lunga nota in cui Kurt raccontava il personale e profondissimo disagio che provava da una vita (“Penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste.”).

“Ma chiedilo a Marylin di quanto l’apparenza inganna e quanto ci si può sentire soli”, incalza Brunori Sas, lucidamente consapevole di essere divisa in due: da un lato la stella del cinema, oggetto perenne di attrazione maschile; dall’altro, indicata sempre col vero nome di battesimo, Norma Jean, la bambina vissuta in ben nove famiglie affidatarie, affamata di cibo e d’amore. “Un fenomeno da circo”, “un ninnolo smarrito”, “un gatto randagio”: lei si descrive così, in un misto di pietà e rabbia sottile. Marilyn Monroe è una donna che ha dovuto sopportare enormi sofferenze: non ha mai conosciuto il padre, che l’ha abbandonata prima della sua nascita, ha avuto una madre assente e affetta da gravi disturbi psichici, ha dovuto affrontare la povertà, il susseguirsi degli affidi, l’orfanotrofio, e addirittura uno stupro. Tutti questi terribili eventi l’hanno resa molto fragile, ansiosa e priva di basi solide su cui costruire la propria vita. Il terrore dell’abbandono, dovuto alle esperienze negative vissute durante l’infanzia, la seguirà sempre. Non aveva mai voluto affezionarsi a bambini o animali: “Ho paura che se comincio a voler loro bene – diceva – si stancheranno di me e mi abbandoneranno. Dio, non posso sopportare l’idea che qualcuno mi lasci!”.
Marylin transitò dalla diagnosi di schizofrenia, a quella di disturbo bipolare a grave personalità Borderline; di Kurt si dirà parimenti a livello diagnostico, oltre a un evidente disturbo dell’umore e un importante abuso di sostanze, si rileveranno dalla biografia dell’artista diversi criteri diagnostici tipici del disturbo di personalità Borderline: impulsività, disturbi dell’alimentazione (anche se legati al dolore cronico), instabilità nelle relazioni, tentativi di suicidio.

Entrambi probabilmente ad oggi sarebbero stati due pazienti di elezione della dottoressa Marsha Linehan, inseriti in gruppi DBT. Ma assumendo sicuramente una posizione meno tecnica, Dario Brunori suggerisce nella sua canzone: “Vivere come volare ci si può riuscire soltanto poggiando su cose leggere. […] Vivere come nuotare ci si può riuscire soltanto restando sul pelo del mare”.

Adolescenza: capire se tollerare o preoccuparsi

di Ilaria Martelli Venturi

Cosa può fare un genitore per aiutare il figlio a canalizzare al meglio le sue risorse in questa fase delicata della vita?

Non di rado capita che arrivino nello studio di uno psicoterapeuta genitori preoccupatissimi per alcuni comportamenti messi in atto dai figli adolescenti. Le lamentele più comuni riguardano l’eccesso di disordine, il vivere la casa “come un albergo”, il chiudersi in camera senza raccontare mai nulla, non rispettare gli orari di rientro, rispondere male ai genitori, passare ore sui social, stare con la testa tra le nuvole e perdere tempo, fare uso sporadico di cannabis e alcool.

Si assiste a un conflitto acceso in cui il genitore vorrebbe che il figlio si comportasse in modo diverso e l’adolescente che reclama a gran voce i propri bisogni. Da questo conflitto molto spesso ne consegue un effetto paradossale: più il genitore diventa critico e invalidante, più l’adolescente  aumenta la frequenza proprio di quei comportamenti che per il genitore sono intollerabili alimentando il clima conflittuale all’interno della famiglia. Leggi tutto “Adolescenza: capire se tollerare o preoccuparsi”