Gli occhiali dei bambini

Verso una visione bambino-centrica

A cura di Elena Cirimbilla

“Mio figlio non vuole andare a scuola, dice che ha paura. Io ho cercato in tutti i modi di trasmettergli che la scuola è divertente e non deve aver paura, che è un posto bello, dove si imparano tante cose… ma non cambia nulla! Non può farmi tutte quelle storie al mattino, siamo troppo di corsa!”

Sarà semplice per il lettore immaginare la frustrazione e il dispiacere provati dal genitore che, nonostante gli sforzi, non riesce a “mandar via” la paura nel figlio, che continua ad opporsi all’idea di andare a scuola. E nemmeno suonerà strano pensare che abbia sperimentato rabbia, nel momento in cui si sarà innescata una lotta fra i due per uscire finalmente di casa. Chissà se magari, una volta entrato in questo circolo arriverà anche rimproverarlo, sperimentando poi, una volta calmo, senso di colpa.

Un’insalata di emozioni negative e contrastanti: frustrazione, tristezza, rabbia e senso di colpa…Ma cosa accade in questi momenti e che cosa può aiutare il genitore a sintonizzarsi al meglio sul proprio figlio?

La difficoltà del genitore è probabilmente quella di “mettersi nei panni” del bimbo, mettendo i suoi stessi occhiali e spostando la visione da adulto-centrica a una più bambino-centrica.

Sarebbe “facile” se l’adulto riuscisse a ricordare di quando era bambino, di quando aveva paura, di quanto era difficile leggersi dentro e capire “com’erano fatte” le emozioni che sperimentava: riuscirebbe certamente a indossare quegli occhiali da bambino e a connettersi con il proprio figlio. Ma non è semplice né tantomeno immediato, sull’onda dell’urgenza e della gestione della situazione “problematica”, mettere da parte le proprie emozioni e spostare il proprio focus sul bambino.

Ma se è vero che non è semplice è anche vero che, come tutte le cose difficili, è possibile fare esercizio: mettersi nei panni del bambino e “capire” davvero di cosa ha bisogno (e cosa no!) quando sperimenta una determinata emozione/situazione. Ad esempio, tornando all’estratto di conversazione iniziale, se l’adulto immaginasse di dover entrare ogni mattina in un bosco dove ci sono i lupi, per cui avesse (giustamente) paura di andare e qualcuno gli rispondesse: “Nessun problema, il bosco è molto divertente, è un posto bello e farai tante esperienze”, come si sentirebbe?

Probabilmente non si sentirebbe compreso e supportato. E, allo stesso tempo, probabilmente riuscirebbe a capire cosa non desidera suo figlio. Occorre però trovare una strategia, perché purtroppo nel bosco è necessario andarci, non è possibile evitarlo (l’evitamento è la strategia che con molta probabilità quell’adulto avrebbe messo in campo, come il bambino quando chiede di non andare a scuola). È il momento di chiedersi: cosa vorrebbe sentirsi dire quell’adulto spaventato?

Forse che si è dispiaciuti che provi questa paura, che qualcuno lo accompagnerà, o che ha le risorse per fare quell’esperienza. Certo non risolverebbe il problema, ma probabilmente aiuterebbe. Quell’adulto sarebbe sollevato nel percepire che l’altro comprende e rispetta la sua paura.

A questo punto, la maggior parte dei lettori avrà pensato che non è pensabile mettere a paragone un bosco con i lupi e la paura della scuola. E probabilmente avrà ragione. Ma qui, l’intento è quello di proporre “un trucco” che permetta di ribaltare la propria prospettiva e adottare una visione bambino-centrica. L’adulto potrà provare a mettersi nei panni del bambino, immaginando di provare la stessa emozione.

Cosa vorrebbe sentirsi dire? Vorrebbe un abbraccio? Una soluzione strategica?

Applicare questo trucco, con l’idea di comprendere e validare le emozioni del bambino permetterà di sentirsi genitori efficaci, comprensivi e sintonizzati e al contempo il bambino potrà percepirsi compreso e accettato nei suoi vissuti.

Si potrà partire quindi dal riconoscere l’emozione del bambino, comprenderne la motivazione e accettarla. Si tratta di un allenamento quotidiano, tenendo a mente che magari, la maestra che urla è al pari di un lupo in un bosco.

Riferimenti bibliografici

Di Pietro M. (2014). L’ABC delle mie emozioni 4-7 anni, corso di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT, Edizioni Erickson, Trento

Faber A., Mazlish E. (2020). Come parlare perché i bambini ti ascoltino e come ascoltare perché ti parlino. Mondadori

 

Foto di Anna Shvets: https://www.pexels.com/it-it/foto/carino-cappello-verde-sorridente-3876542/

A me gli occhi, please

di Monica Mercuriu

Il contatto di sguardo è essenziale perché il bambino e l’adulto comunichino e decodifichino le emozioni

Molti teorici interessati alle prime forme di comunicazione, allo sviluppo del linguaggio e alla psicopatologia dello sviluppo hanno sottolineato che i primi vis à vis costituiscono la culla di tutte le successive abilità sociali che un bambino può sviluppare nel corso della sua vita.

Il contatto di sguardo, l’osservazione del volto e delle espressioni del caregiver regolano l’impegno reciproco nell’interazione, l’attenzione coordinata e congiunta dei processi intenzionali di comunicazione che portano all’uso della lingua.

Lo psicologo neozelandese Clowyn Trevarthen, con il costrutto di “intersoggettività primaria”, definisce un’innata capacità di condivisione del bambino, che nasce con i mezzi per ottenere una comprensione intima di un partner attento. Secondo questo approccio, il bambino nasce con un interesse per le emozioni e le motivazioni del suo caregiver e s’impegna, fin dall’inizio, in un immediato contatto emotivo con gli altri, acquisisce abilità comunicative e conoscenze su persone e oggetti.

Numerosi studi che hanno utilizzato lo “Still Face Experiment” in cui, durante un’interazione tra madre e bambino, la madre assume l’espressione del “volto immobile”, hanno messo in evidenza come  il bambino tenti di sollecitare, quasi immediatamente, l’attenzione della madre, mostrando una serie di tipici gesti di segnalazione, come sorridere, vocalizzare, gesti di risposta o altri segnali gestuali. Finché persiste l’episodio di Still-Faced e i  tentativi dei bambini falliscono per sollecitare la risposta materna, i bambini si impegneranno anche nel modificare la propria autoregolazione, distoglieranno lo sguardo per evitare lo stimolo stressante, si fermeranno, protesteranno o si mostreranno tristi e arrabbiati.

La pronta riparazione dell’interazione, da parte della madre, ristabilisce l’equilibrio e fornisce supporto e nuovo stimolo alla comunicazione. Il contatto di sguardo è quindi essenziale perché il bambino e l’adulto comunichino e decodifichino le emozioni, costruendo significati nella relazione via via sempre più complessi ed articolati.

Alcune condizioni di rischio presenti nei caregiver e nel bambino possono influenzare lo sviluppo di questa capacità e portare a una deviazione rispetto al normale processo di sviluppo delle capacità comunicative nel bambino. La presenza di condizioni psichiatriche nei genitori portano inevitabilmente alla costruzione di modelli interattivi disadattivi. Ad esempio, la mancanza di risposta riparativa da parte del caregiver (come negli esperimenti still face), può avere effetti a lungo termine sullo sviluppo del bambino, a causa della sua reiterazione cronica che porta inevitabilmente a una loro auto-amplificazione.

La ricerca sulla depressione post partum ha provato che i bambini di madri depresse mostrano alte probabilità di mostrare maggiori comportamenti autoconsolatori nonché utilizzare comportamenti meno interattivi. Deviazioni dai tipici schemi interattivi sono state osservate anche nella diade con madri associate ad alto rischio, esposte a farmaci, alti livelli di stress genitoriale e fattori di rischio parentale. I modelli di scambi affettivi negativi sono stati osservati anche in diade con madri che facevano uso di droghe e questi rappresentano i livelli più alti d’impegno negativo del careviger nell’interazione con il proprio bambino.

In psicopatologia dello sviluppo, alcuni bambini presentano una difficoltà specifica nel riuscire a decodificare lo stato mentale dell’altro, e/o lo stato emotivo. Il costrutto dell’empatia, da sempre d’interesse per i clinici, può essere descritto come un insieme di  diversi sistemi neurocognitivi tra loro connessi che si sviluppa nel bambino grazie all’interazione con l’ambiente e al supporto dei genitori. Le figure genitoriali lo aiutano a creare uno “stato sanzionatorio interno”, teso a sviluppare l’emozione della colpa e dell’empatia, che lo guiderà nel comportarsi in modo adeguato seguendo le regole della famiglia e degli altri ambienti di vita del bambino. In maniera sintetica, sia può distinguere l’empatia cognitiva, legata alla comprensione esplicita dello stato mentale altrui, dall’empatia emotiva, legata alla condivisione dello stato emotivo dell’altro attraverso la decodifica dei segnali facciali o corporei dell’interlocutore, dall’empatia motoria, che implica l’assunzione di risposte motorie dell’altro.

All’interno dei Disturbi dello spettro dell’autismo e dei disturbi del comportamento in età evolutiva, è possibile rintracciare una precisa difficoltà a entrare in relazione attraverso il canale visivo, in modo particolare sostenere lo sguardo dell’altro non è sempre possibile. Molti interventi terapeutici hanno come obiettivo proprio quello di allenare i bambini a prestare attenzione allo sguardo, promuovendo un aumento della loro sensibilità alle risposte emotive e cognitive dell’altro.

In tempo di pandemia da Covid-19 ci viene chiesto di limitare le nostre interazioni fisiche e sociali, il volto è coperto dalla mascherina ma gli occhi sono rimasti liberi dalla minaccia del virus, possiamo impegnarci ancora di più a comunicare attraverso lo sguardo, aiutando i bambini ad allenare questa importante abilità.

Per approfondimenti

I disturbi del comportamento in età evolutiva, Muratori  P. Lambruschi F., 2020

 

 

Comportamenti devianti in adolescenza

di Miriam Miraldi

Empatia e ragionamento morale prosociale nei giovani offenders e non-offenders

I comportamenti devianti in adolescenza sono da sempre oggetto di studio delle scienze sociali. Tuttavia, se si considerano unicamente i fattori sociali (es. stili genitoriali, contesto socio-culturale, ecc.), si riesce a spiegare solo in parte il comportamento aggressivo. Senza dimenticare tali variabili sociali, appare dunque più opportuno includere anche i processi cognitivi ed emotivi coinvolti.

In un recente studio spagnolo, Llorca-Mestre e colleghi sono partiti da un punto di vista teorico nel considerare quegli studi che evidenziano come l’emotività negativa e la bassa regolazione emotiva predicano comportamenti antisociali e disadattivi. Tra le loro premesse teoriche, gli autori includono anche gli studi sull’empatia e sul ragionamento prosociale. Per quanto concerne l’empatia, essi la considerano una risposta interpersonale che include sia componenti cognitive che affettive: l’empatia cognitiva, o capacità di “mettersi nei panni di”, rappresenta la capacità di comprendere lo stato interiore dell’altro, mentre l’empatia affettiva, o preoccupazione empatica, implica il condividere le emozioni osservate nell’altra persona. Le persone con una maggiore empatia rispondono meglio alle espressioni emotive degli altri; in particolare, la componente affettiva ha un ruolo importante nel controllare/inibire i comportamenti aggressivi e devianti, mentre bassi livelli di empatia correlano con la difficoltà di pensare in astratto e di comprendere la relazione tra causa ed effetto di un evento. Nella ricerca che indaga il rapporto tra empatia e comportamenti devianti, Llorca-Mestre si riferisce a quegli autori, come Eisenberg, che hanno sostenuto l’importanza di includere il ragionamento morale prosociale, definito come il ragionamento che precede la presa di una decisione quando dobbiamo stabilire se attivare o meno un comportamento di aiuto, soprattutto qualora vi sia un conflitto tra l’interesse personale e quello altruistico. Eisenberg ha definito cinque livelli nel ragionamento morale prosociale che si sviluppa durante l’infanzia e l’adolescenza: edonistico, orientato ai bisogni, orientato all’approvazione, stereotipato e interiorizzato (il più “evoluto”, che include il ragionamento basato sull’empatia). I primi sono presenti nella prima infanzia, mentre gli ultimi si sviluppano più tardi, durante l’adolescenza. In generale, il comportamento morale prosociale (aiutare senza la ricerca immediata di una ricompensa) è concettualmente correlato alle emozioni morali, come l’empatia. La ricerca sul ragionamento morale e la devianza sono state per lo più focalizzate sullo sviluppo e sulle diverse fasi del ragionamento morale: i risultati sottolineano che la competenza nel giudizio morale, intesa come livello di ragionamento morale, non è di per sé un fattore predittivo significativo del comportamento deviante in adolescenza; si rivelano più efficaci quegli studi che integrano la componente cognitiva morale (giudizio morale) e quella affettiva morale (empatia), e che analizzano come le componenti empatiche e l’impulsività (o la mancanza di autocontrollo) interagiscano con i diversi tipi di ragionamento prosociale nel predire comportamenti aggressivi o, viceversa, prosociali.

In questa ricerca sperimentale, di natura cross-sezionale, Llorca-Mestre e colleghi, confrontando un gruppo di adolescenti (n=220) con un altro gruppo di adolescenti autori di reato o offenders (n=220), hanno analizzato come processi cognitivi (ragionamento morale prosociale, perspective taking) e processi emotivi (preoccupazione empatica, instabilità emotiva, rabbia di stato e di tratto) interagiscono nell’influenzare le condotte. I risultati mostrano che non ci sono differenze di genere in nessuno dei livelli del ragionamento morale prosociale; tuttavia, come previsto, le ragazze risultano più empatiche dei ragazzi. Analizzando le differenze globali tra i due gruppi, gli offenders mostrano – sebbene in maniera marginale da un punto di vista statistico – livelli più elevati nel ragionamento morale edonistico (mosso dal beneficio personale) e orientato all’approvazione, quando devono decidere se attivare un comportamento di aiuto. Le variabili nelle quali le differenze risultano invece più marcate sono la disregolazione emotiva, la rabbia (stato e tratto) e l’aggressività (fisica e verbale), che sono maggiori nel gruppo dei giovani devianti. Gli adolescenti non-offenders mostrano più alti livelli di empatia (sia cognitiva che emotiva) e di comportamento prosociale. In entrambi i gruppi, il ragionamento morale prosociale ha poco peso nella previsione del comportamento, mentre la rabbia di stato è significativamente associata al comportamento aggressivo negli offenders e l’empatia correla positivamente col comportamento prosociale e negativamente con quello aggressivo; tuttavia, mentre nei non-offenders giocano un ruolo sia la componente affettiva che quella cognitiva dell’empatia, nei devianti, solo la perspective taking (e non la preoccupazione empatica per l’altro), sembrerebbe avere un ruolo protettivo rispetto alla messa in atto di comportamenti aggressivi.

In sintesi, la regolazione della rabbia e lo sviluppo dell’empatia possono essere elementi di rilievo nell’intervento psicoeducativo rivolto ai giovani devianti, atto a favorirne il benessere psicologico e una migliore inclusione sociale.

 

Per approfondimenti

Llorca-Mestre, A., Malonda-Vidal, E., & Samper-García, P. (2017). Prosocial reasoning and emotions in young offenders and non-offenders. The European Journal of Psychology Applied to Legal Context, 9(2), 65-73.

Caprara, G. V., Gerbino, M., Paciello, M., Di Giunta, L., & Pastorelli, C. (2010). Counteracting depression and delinquency in late adolescence. The Role of Regulatory Emotional and Interpersonal Self-Efficacy Beliefs. European Psychologist.

Eisenberg, N. (1986). Altruistic cognition, emotion, and behavior. Hillsdale, Lawrence Erlbaum Associates.

Sentirsi alla pari

di Chiara Casali, Francesca Mira e Maurizio Brasini

Il miglior modo di incentivare la prosocialità

“Fairness is a more effective interpersonal motive than care for sustaining prosocial behaviour” [link]. In questo recente studio, condotto dal gruppo di ricerca della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC), sono stati adottati i metodi e la cornice teorica di riferimento della psicologia sociale per affrontare un tema fondamentale anche per la psicoterapia: quali motivazioni conviene promuovere per stabilire una solida relazione di alleanza? Meglio far uso di motivazioni squisitamente altruistiche, basate sull’empatia e sulla sollecitudine verso i bisogni dell’altro, o di motivazioni collaborative, basate sul senso di equità e di reciprocità? Una precedente ricerca comparsa su Nature [link] ha mostrato che è possibile distinguere funzionalmente i circuiti neurali attivi nei comportamenti prosociali (cioè orientati a vantaggio degli altri) basati sull’empatia da quelli basati su equità e reciprocità; inoltre, i circuiti basati su motivazioni di reciprocità risultavano più “evoluti” di quelli basati sull’empatia; infine, l’induzione di motivazioni empatiche aumentava i comportamenti pro-sociali nei soggetti con un orientamento di base più “egoista” mentre l’induzione di motivazioni orientate alla reciprocità era particolarmente efficace sui soggetti con un orientamento più prosociale. Nel presente esperimento, è stato adottato il paradigma del Dictator Game (DG), per cui i partecipanti dovevano decidere quale parte di una somma di 30 euro concedere a un (fittizio) altro partecipante in due differenti situazioni-tipo: in una bisognava dividersi una vincita, nell’altra ripartire una spesa (ripagare un danno). Nelle due diverse situazioni, l’altro poteva mostrarsi “egoista” (ad esempio dichiarandosi intenzionato a tenersi tutta la vincita), oppure equo (ad esempio proponendo di dividere a metà), oppure altruista (ad esempio offrendo l’intera vincita all’altro); in ogni caso, la decisione finale sarebbe spettata ai partecipanti. In aggiunta, per ciascuna decisione presa sono state considerate le motivazioni sottese, in particolare le motivazioni alla cura (care) e all’equità (fairness). Si è osservato che, nella condizione in cui bisogna suddividere un costo, quando l’altro si mostra altruista, i soggetti a orientamento più “egoista” tendono a ridurre la somma elargita, come se accettassero la generosità altrui o ne approfittassero. In questa condizione più critica, l’analisi delle motivazioni mostra che solo una mentalità orientata all’equità e alla reciprocità è in grado di sostenere un’equa ripartizione di un costo con una persona che si mostra altruista. Questi risultati sono in linea con la teoria dello psichiatra Giovanni Liotti, secondo il quale, in chiave evoluzionista, il senso di equità, che è una caratteristica distintiva del sistema motivazionale della collaborazione tra pari, fornisce un contesto interpersonale più favorevole al mantenimento di un assetto prosociale rispetto all’altruismo basato sull’empatia, che è invece indicativo di motivazioni di accudimento e invita l’altro a rispondere in termini di attaccamento (lasciarsi accudire) oppure di rango (impossessarsi di una risorsa limitata quando l’altro lo consente). Per concludere, cosa ci dicono questi risultati riguardo l’alleanza terapeutica e, in particolare, i momenti di rottura della relazione? Da una parte che in questi momenti risulta più difficile mantenere una mentalità prosociale, di condivisione e dall’altra che il senso di equità, e quindi il sistema motivazionale collaborativo-paritetico, è più efficace nel mantenere un comportamento di prosociale rispetto all’altruismo e quindi rispetto al sistema motivazionale dell’accudimento, in cui chi è oggetto dell’accudimento può esimersi dal sostenere un costo e dall’impegnare le sue risorse.

Il lato oscuro dell’altruismo

di Maurizio Brasini

Quando i buoni sono ingiusti

Nel libro “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino, quando il Visconte Medardo di Terralba viene diviso in due da un colpo di cannone, inizialmente sembra sia sopravvissuta solo la parte cattiva: il “Gramo”. Il Gramo è privo di empatia, crudele e spietato, e getta la popolazione di Terralba nel terrore. Ma quando ricompare l’altra metà del Visconte, il “Buono”, si scopre che questa parte animata da intenti compassionevoli e altruistici finisce per fare altrettanti danni della sua metà crudele.

Alcune recenti ricerche sembrano dare ragione all’intuizione di Italo Calvino e suggerire che un’attitudine altruista ed empatica non sempre ci conduca alle decisioni migliori per il bene del nostro prossimo. Uno dei possibili motivi è che bontà d’animo e giustizia non sempre coincidono.

Vediamo come affrontano la questione gli studiosi. Il metodo forse più utilizzato dai ricercatori per valutare i comportamenti altruistici si chiama “gioco del dittatore”: si assegna una certa somma di denaro a un individuo e gli si dice che può suddividerla come vuole con un altro partecipante, che non potrà fare altro se non accettare la sua decisione; la somma assegnata all’altro può essere considerata una misura dell’altruismo di quell’individuo. Grazie a esperimenti come questo, l’idea che gli uomini agiscano esclusivamente in base al proprio interesse è stata sorpassata a favore di una visione in cui gli uomini tengono conto dei propri simili. Più complicato è stabilire quali motivazioni, quali leve spingano gli esseri umani a tener conto delle esigenze degli altri. Nel gioco del dittatore, per esempio, un individuo potrebbe cedere una parte del denaro perché gli sembra una cosa più equa, o perché si dispiace che l’altro rimanga senza niente, o perché donare una parte della somma lo fa sentire d’animo più nobile, solo per fare alcuni esempi di differenti leve morali sottostanti ai comportamenti altruistici.

Consideriamo ora una variante del gioco del dittatore, in cui prima di chiedere al nostro partecipante di suddividere la somma, facciamo in modo che si senta in colpa nei confronti dell’altro partecipante (che in genere è un complice dello sperimentatore). È stato dimostrato che, prevedibilmente, il senso di colpa fa aumentare la somma di denaro concessa all’altro, per una sorta di effetto di risarcimento. Ma facciamo ancora un passo avanti: cosa succede se il nostro soggetto sperimentale deve suddividere la somma con altri due partecipanti e si sente in colpa verso uno dei due? Anche questo è prevedibile, ed è stato dimostrato: si tenderà a favorire la persona verso la quale ci sentiamo in colpa, a discapito dell’altro. Ecco un chiaro esempio di come si possa essere buoni e ingiusti al tempo stesso.

È stato anche dimostrato che nelle persone animate da motivazioni di tipo empatico (la sensibilità alla sofferenza della “vittima” verso cui siamo colpevoli) aumenta questo effetto di distribuzione iniqua del denaro, mentre le persone motivate più in senso egalitario (sensibili a temi di equità e giustizia) tendono a bilanciare maggiormente le somme assegnate agli altri partecipanti.

Un’ipotesi esplicativa di questo fenomeno può essere ricavata dalla teoria evoluzionistica. La sensibilità alla sofferenza dei nostri simili è la base su cui sono fondati i comportamenti di cura della prole, ed è probabile che su questa stessa base si costruiscano forme più articolate e raffinate di moralità; per citare Darwin: “Qualunque animale, dotato di pronunciati istinti sociali, ivi inclusi i sentimenti parentali e filiali, acquisirà inevitabilmente un senso morale ovvero una coscienza non appena le sue facoltà intellettive si saranno sviluppate come nell’uomo”. D’altro canto, è naturale che questa forma di attenzione ai bisogni degli altri sia selettiva e non equamente distribuita: mentre il senso di giustizia e di equità ci invita a porre tutti gli altri sullo stesso piano, l’empatia ci porta a fare distinzioni a favore dei “nostri”.

 

Per approfondimenti:

Darwin, “The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex”, 1871 cap. IV. Trad. it.. Newton Compton Editori, 2011).

De Hooge, I. E., Nelissen, R., Breugelmans, S. M., & Zeelenberg, M. (2011). What is moral about guilt? Acting “prosocially” at the disadvantage of others. Journal of Personality and Social Psychology, 100, 462–473.

Feng, Q., Xu, Y., Xu, R., Zhang, E. (2017). Moral foundations tell us why guilt induces unfair allocation in multi‐party interactions. Asian Journal of Social Psychology, 20(3-4), 191-200.

Harry Potter: un maghetto contro gli stereotipi

di Mauro Giacomantonio

La lettura dei libri non influenza solo la cultura delle persone, ma anche i loro processi psicologici

Nel mondo circolano più di 450 milioni di copie dei libri che narrano le storie di Harry Potter, un giovane mago frutto della fantasia di J.K. Rowling.
Si sa che leggere un libro è un arricchimento culturale e personale e quindi, sin dalla più tenera età, i bambini sono incoraggiati a confrontarsi con la lettura. Ma, oltre ad un piacevole intrattenimento, quale può essere l’utilità di leggere le avventure di un maghetto che insieme ai suoi compagni affronta le insidie della magia nera?

Secondo alcuni ricercatori Italiani, chi legge Harry Potter, soprattutto se si identifica con il protagonista, tende ad avere meno pregiudizi nei confronti di gruppi che sono solitamente oggetto di stigma sociale come immigrati, omosessuali e rifugiati. Leggi tutto “Harry Potter: un maghetto contro gli stereotipi”

Sant’Agostino e l’interruttore dell’empatia

                                                                                                                               di Maurizio Brasini

Il male deriva da una mancanza di empatia?

Perché gli uomini a volte fanno cose malvagie contro i propri simili? Quello del male è sempre stato un autentico rompicapo. È un paradosso da un punto di vista religioso, perché incompatibile con l’assunto che tutto ciò che è creato provenga da una Divinità buona e debba quindi necessariamente essere buono. Infatti, se da una parte siamo abituati a considerare il male e il bene come forze opposte in conflitto tra loro, d’altro canto, in una visione religiosa, il male esiste solo per difetto, come assenza di bene. Sant’Agostino, nel suo saggio sulla “Natura del Bene”, sostiene che “il male non è altro che corruzione: della misura, della forma o dell’ordine naturale”, e difatti Lucifero è un Angelo corrotto.

Ma quello del male è un paradosso anche da un punto di vista evoluzionistico, perché la distruttività intra-specifica è evidentemente svantaggiosa per la sopravvivenza della specie. Leggi tutto “Sant’Agostino e l’interruttore dell’empatia”

Sex offender: un problema di empatia

di Alessandra Nachira

Le tecniche di imagery guidano il paziente nel ricordo dell’evento, acquisendo consapevolezza della motivazione interiore che precede l’azione e delle conseguenze dei propri comportamenti

 Con la categoria “sex offenders” si definisce un comportamento psicopatologico e insieme legalmente perseguibile, in cui rientrano stupratori, pedofili e stalkers. Se si tiene conto del rapporto tra detenuti per reati sessuali nei confronti di minori con la popolazione più generale dei detenuti condannati per reati sessuali, le regioni che registrano più alti numeri sono l’Abruzzo, le Marche, la Sicilia e la Liguria, con percentuali che variano tra il 55 ed il 65%.

Come è noto dalla letteratura, nello sviluppo delle manifestazioni aggressive del sex offender, la rabbia costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente a spiegarli. Lo stesso vale per la cecità verso l’elaborazione cognitivo-affettiva che può impedire al sex offender di collegare adeguatamente le sue risposte emotive agli stimoli esterni e interpersonali. Proprio per questo, l’atto aggressivo rappresenta la scarica di sensazioni di rabbia non comprese che, associate ad un deficit di comunicazione e di identificazione delle emozioni (alessitimia), caratterizzano la vita interiore dell’offender. Leggi tutto “Sex offender: un problema di empatia”

Che cos’è la commozione? Un’ipotesi cognitivo-evoluzionista

di Maurizio Brasini

La compartecipazione e la condivisione del significato dell’esperienza soggettiva. Un’opportunità di incontrare anche noi stessi: la commozione annuncia un’occasione di “sintesi personale”
Partiamo da una definizione di commozione (dal lat. muovere con, muovere insieme): è un sentimento intenso benevolo e amorevole di compassione, tenerezza, pietà o ammirazione, che può suscitare il pianto. La peculiarità della commozione è che le lacrime possono affiorare anche in situazioni che non sono tristi o dolorose. A volte, abbiamo gli occhi lucidi per la gioia o proviamo un sentimento misto di tristezza e felicità. Spesso, infatti, non sappiamo distinguere perché stiamo piangendo.
Se è vero che si piange quando si soffre o quando condividiamo empaticamente la sofferenza di qualcun altro, perché mai ci commuoviamo anche osservando qualcuno che sta bene o che è felice? Perché sentiamo un fondo di contentezza mentre ci si inumidiscono gli occhi?
Bisogna tenere presente che, fin dalla nascita, è parte della nostra natura ricercare la vicinanza protettiva dei nostri simili quando versiamo in condizioni di bisogno, ad esempio quando abbiamo paura, o proviamo un qualche tipo di sofferenza sia fisica sia emotiva. Questa propensione si chiama “attaccamento” ed è presente in tutte le specie che si prendono cura della prole. Il pianto è un comportamento innato che serve come segnale per i nostri simili, una specie di messaggio universale che significa: “Stammi vicino”. Leggi tutto “Che cos’è la commozione? Un’ipotesi cognitivo-evoluzionista”