Il 28 Febbraio e il 1 Marzo si è svolto a Roma, presso l’Auditorium di Via Rieti, il primo workshop sulla psicopatologia sperimentale, organizzato dalla Associazione di Psicologia Cognitiva APC e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC di Roma, e sponsorizzato dalla Società Italiana Terapia Comportamentale e Cognitiva SITCC, col supporto del Dipartimento di Psicologia della Sapienza Università di Roma. Il programma del workshop ha previsto due giorni di lavoro molto intensi, nei quali diverse sessioni orali si sono alternate a sessioni di poster e agli interventi di cinque Keynote Speakers.
Il workshop è stato aperto da Alessandro Couyoumdjian (Sapienza Università di Roma), membro della Commissione Scientifica e Organizzativa del workshop insieme a Carlo Buonanno (SPC, Roma) Andrea Gragnani (SPC, Roma), Francesco Mancini (SPC, Roma), Cristina Ottaviani (Fondazione Santa Lucia, Roma), Katia Tenore (SPC, Roma), Roberta Trincas (SPC, Roma). Couyoumdjian ha dato il benvenuto ai partecipanti venuti da vari Istituti Universitari e centri di Ricerca nazionali e internazionali, dando così inizio ai lavori. Nel corso delle due giornate, le presentazioni orali – così come i Poster – hanno toccato argomenti che spaziavano dall’analisi dei meccanismi cognitivi di base della psicopatologia (come bias attentivi e interpretativi) a esperimenti più percettivi di stampo neocomportamentista. La maggior parte degli studi era volta ad analizzare sia precise componenti cognitive di determinate psicopatologie (ansia, depressione, DOC, dipendenze da sostanze, ecc.) sia le loro conseguenze misurabili e osservabili nel comportamento. Numerosi sono stati i contributi che hanno riportato anche dati fisiologici a sostegno delle ipotesi sostenute. In generale, le ricerche presentate sono state di livello elevato e i relatori si sono sforzati di presentare una sintesi chiara ed esaustiva del proprio lavoro nei pochi minuti che avevano a disposizione. Questo spesso ha richiesto uno sforzo apprezzabile, specialmente per la complessità di molte procedure e l’interpretazione dei risultati non sempre univoca, che ha alimentato il dibattito nel corso delle presentazioni. I relatori sono stati prettamente ricercatori, dottorandi, terapeuti o specializzandi dei principali centri universitari e di ricerca italiani (tra le altre, Sapienza Università di Roma; Università Campus Biomedico, Roma; Fondazione Santa Lucia, Roma; Università Cattolica, Roma e Milano; ISTC-CNR, Roma e Trento; Università Bicocca di Milano; Seconda Università di Napoli; Studi Cognitivi, Milano; Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Roma, ecc.) e internazionali (tra le altre, Harvard University, USA; Tel-Aviv University, Israele; University of Leuven, Belgio; Erasmus University of Rotterdam, Olanda; Utrecht University, Olanda; University of Oxford, UK; University of Western Australia, Australia; University of Limerick, Irlanda; University of Munich, Germania, ecc.). La forte presenza internazionale ha reso il workshop una importante e preziosa occasione di scambio e confronto, che ha preso vita nei dibattiti al termine delle presentazioni, ma che spesso è continuata nel corso dei coffee break, sfruttati dai partecipanti per approfondire aspetti emersi nelle sessioni o per semplice scambio di informazioni, consigli e suggerimenti per possibili studi futuri.
Gli interventi dei cinque Keynote Speakers hanno toccato argomenti molto differenti tra loro, tutti però caratterizzati da un unico comune denominatore: l’imprescindibilità della ricerca in psicopatologia e l’importanza dell’applicazione di protocolli di trattamento evidence-based in ambito clinico.
Il primo intervento è stato quello di Graham Davey, Professore di Psicologia presso l’Università del Sussex, UK, nonché Editor del Journal of Experimental Psychopathology. Nel corso del suo intervento, dal titolo “10 reasons why clinical psychologist need experimental psychopathology”, il Prof. Davey ha presentato, in maniera semplice, diretta e senza dimenticare qualche battuta di spirito, il “manifesto” della psicopatologia sperimentale. La psicopatologia sperimentale, sostiene Davey, permette di studiare meccanismi psicopatologici in condizioni estremamente controllate, attraverso l’utilizzo di modelli sperimentali che aiutano a simulare processi patologici su campioni non clinici (animali o umani). L’autore ha presentato una lunga serie di evidenze scientifiche raccolte negli ultimi anni, che hanno permesso di fare luce su diversi processi caratteristici, ad esempio, del rimuginio depressivo o ancora del bias interpretativo causato dal disgusto.
Il secondo intervento, ultimo della prima giornata, è stato quello di Reuven Dar, Direttore del corso di specializzazione in Psicologia Clinica presso la Facoltà di Scienze Psicologiche dell’Università di Tel Aviv, Israele. Il Prof. Dar, nella sua interessante presentazione dal titolo “Doubt in obsessive-compulsive disorder: Exploring its scope and underlying mechanism”, ha argomentato l’ipotesi da lui elaborata per la spiegazione del dubbio e dell’uso di rituali nel disturbo ossessivo-compulsivo: l’ipotesi SPIS (Seeking Proxies of Internal States). Secondo Dar, il paziente ossessivo utilizzerebbe regole, rituali e controlli su elementi esterni per avere conferma del proprio stato interno. Le compulsioni sarebbero dunque dei proxies – ossia gli elementi più prossimi – degli stati interni del soggetto. Dar ha presentato una serie di esperimenti condotti dal suo gruppo attraverso l’uso del Biofeedback, i cui risultati suggeriscono una reale e generale difficoltà dell’ossessivo nell’accedere ai propri stati interni, dal quale deriverebbe il bisogno di cercare conferme esterne per eliminare i propri, intollerabili, dubbi.
Il terzo intervento – il primo della seconda giornata di workshop – è stato di David M. Clark, docente di Psicologia Sperimentale presso l’Università di Oxford e autore, tra le altre cose, del modello del disturbo da panico e del modello di trattamento della fobia sociale, insieme ad Adrien Wells. Il Prof. Clark, con una presentazione dal titolo “Developing new psychological treatments: On the interplay between theories, experimental science and clinical innovation”, ha tenuto elevato l’interesse dell’intera platea descrivendo il suo programma di ricerca e i passaggi necessari per l’elaborazione di una teoria, oltre ai test per verificarne l’efficacia, sottolineando più volte l’importanza dei modelli evidence-based nel trattamento dei disturbi psichici. Attraverso la presentazione di dati recenti sull’efficacia del modello di trattamento della fobia sociale, Clark ha illustrato il suo progetto dal titolo “Improving Access to Psychological Therapies (IAPT)”, un programma che (con il supporto del Sistema Sanitario della Gran Bretagna) ha lo scopo di preparare, attraverso un training specifico, oltre 5000 psicologi entro il 2015 e di impiegarli nei principali servizi sanitari per il trattamento di ansia e depressione. Il progetto prevede inoltre lo sviluppo di una versione telematica del trattamento cognitivo, allo scopo di ampliare il più possibile l’accesso alla terapia cognitiva.
A seguire, nel corso del pomeriggio, è stato l’intervento di Ernst Koster, ricercatore presso la Ghent University, Belgio, dal titolo “Experimental psychopathology research into cognitive biases: One size does not fit all”. Koster ha presentato una serie di evidenze riguardanti la ricerca sui bias attentivi nell’ansia e nella depressione, descritti come principali fattori di rischio per un’evoluzione patologica, in quanto: moderatori dell’assegnazione di significato a determinati eventi, responsabili della loro valutazione, estremamente persistenti e spesso difficili da trattare. Koster ha continuato presentando una proposta di procedure di intervento fondamentalmente basata sull’integrazione tra la Terapia Cognitivo-Comportamentale e la recente tecnica di Modificazione dei Bias Attentivi (Cognitive Bias Modification; CBM) per il trattamento dell’ansia e della depressione, sottolineando inoltre l’importanza dell’integrazione tra la concettualizzazione cognitiva del caso clinico e la modificazione dei bias cognitivi del paziente.
L’intervento conclusivo del workshop è stato quello di Francesco Mancini, Direttore della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) e dell’Associazione di Psicologia Cognitiva (APC) di Roma, che ha presentato un lavoro dal titolo “Fear of deontological guilt and disgust in OCD”. Il Prof. Mancini ha illustrato i risultati dei suoi studi sulla distinzione tra senso di colpa deontologico e senso di colpa altruistico nei pazienti ossessivi, riportando inoltre estratti di racconti di pazienti, allo scopo di marcare le differenze tra le due tipologie di senso di colpa anche attraverso le loro parole. Il senso di colpa deontologico, che appare caratterizzato dal timore del soggetto di ”giocare il ruolo di Dio”, ha una componente morale molto accentuata e ha come emozione correlata prevalente il disgusto, mentre quello altruistico, correlato all’emozione di tristezza, è di tipo interpersonale ed è legato alla compromissione di scopi altruistici. Nel corso della presentazione sono stati riportati dati a sostegno dell’indipendenza delle due tipologie di senso di colpa in termini di contenuti, scopi e correlati neurali, mostrando anche il loro differente ruolo nel generare e mantenere i sintomi ossessivi.
Prima di concludere, il Prof. Mancini ha tenuto a ringraziare per il lavoro svolto tutti i membri del comitato scientifico, insieme alla segreteria organizzativa di APC e SPC, gli invited speakers e naturalmente tutti i partecipanti. Il Direttore di APC e SPC ha infine sottolineato come la ricerca in psicopatologia sia irrinunciabile se si vuole comprendere l’eziologia dei disturbi psichici e se si vogliono elaborare teorie e modelli di trattamento efficaci, che siano cioè basati sull’evidenza scientifica. Le parole conclusive sono state quelle di un arrivederci al prossimo anno, augurio che ha lasciato la platea soddisfatta ed entusiasta per quello che è sembrato l’inizio di una promettente occasione d’incontro e di confronto. Se infatti, da una parte, la psicopatologia sperimentale è una disciplina relativamente giovane, dall’altra parte, i grandi passi avanti fatti in questi anni sono sicuramente incoraggianti e riducono sempre di più la distanza tra ricerca e clinica.