A.A.A. Cercasi felicità

di Benedetto Astiaso Garcia

I più ondeggiano infelici tra il timore della morte e le angosce della vita. Lucio Anneo Seneca

L’essere umano è l’unica creatura per la quale la propria esistenza, in quanto limitata, costituisce un problema. Una simile condizione determina in maniera totalizzante la vita: come si può essere felici con questa ombra oscura dalla quale non ci separiamo mai? In che maniera la società post moderna supporta l’individuo nella gestione di tale consapevolezza?

Vivere ogni istante con la cognizione di dover morire non è cosa facile, è come tentare di fissare il sole, un atto destinato a poter durare solamente pochi istanti: “Né il sole né la morte si possono guardare fisso”, diceva Rochefoucauld. L’autocoscienza, dono supremo quanto la vita, viene spesso annichilita attraverso la promozione di autoinganni negazionistici, al fine di liberare l’individuo da un costrittivo senso di impotenza con cui egli è obbligato quotidianamente a confrontarsi. L’Io dell’uomo, tuttavia, nasce proprio davanti all’idea della morte: privare dunque l’individuo di tale consapevolezza significa rilegarlo a un’esistenza fantasmatica.

Il mondo all’interno del quale viviamo, pur di non guardare in faccia la morte, innalza muri e scava fossati, fondandosi su un illusorio e pervertito hic et nunc, inteso quale effimero desiderio di immortalità. Come maldestri pattinatori su un ghiaccio sottile, riteniamo che la velocità sia la nostra unica speranza di salvezza, così facendo, però, ci condanniamo da soli a una realtà tanto narcotizzante quanto fallacemente infinita. Un’inutile attività frenetica incarna, infatti, un goffo evitamento della sofferenza: il memento mori induce l’uomo a rifiutare il prestito della vita per eludere il pagamento del debito della morte. L’idea che nessuno debba soffrire, incapace di partorire martiri o eroi, induce a un’assenza di confronto esistenziale, ponendo l’individuo nella condizione di accontentarsi di false certezze. 

Come in un quadro di Turner, l’uomo è naufrago in un mare in tempesta, spolpando avidamente il razionalismo cartesiano senza però riuscire a saziarsi cogliendo l’ineffabile. Rinnegando l’intuizione, il marinaio affaticato perde anche l’intelletto e discende in un buio esistenziale più scuro e profondo dell’abisso stesso. Intuizione e intelletto, infatti, rappresentano due direzioni, opposte e indispensabili, dell’attività cosciente: sacrificare l’intuizione per l’intelletto non permette di rompere la cupezza della notte in cui l’uomo viene lasciato solo.

Così come i rapaci di una felicità immediata cercano invano di rendere unico ogni attimo, sprofondando inesorabilmente nella noia, coloro che invece incarnano “l’uomo etico” di Kierkegaard si illudono che il proprio benessere risieda nella costruzione, nella progettualità, nelle “doverizzazioni” e nel perseguimento del Sé ideale, finendo presto in un labirinto di specchi. 

Per quietare l’anima è dunque necessario, ma non sufficiente, riflettere sulla morte: come afferma lo psichiatra statunitense Irvin Yalom, infatti, “quattro questioni ultime sono attinenti alla pratica psicoterapica: la morte, l’isolamento, il significato della vita e la libertà”.

La cultura occidentale odierna dovrebbe insegnare ai propri figli a fissare maggiormente il sole, analizzando, contemplando e dissezionando tematiche di natura esistenziale. Evitare ciò significa rendere impossibile, per dirlo con le parole di Abram, “l’atto rivoluzionario di scegliere la gioia in un’epoca di disperazione” e offrire soluzioni infantili, terrificanti o, peggio ancora, che favoriscano la negazione della morte. Freud sosteneva che nel momento in cui l’uomo incomincia a porsi domande sul significato della vita si ammala: se tale affermazione fosse vera, vivremmo in una società completamente sana. Parlare della morte vuol dire cessare di dissetare con acqua di mare la mente umana: significa aprire l’armadio della camera del bambino, all’interno del quale, nel cuore della notte, è nascosto il peggiore dei mostri. 

Accettare la gratuità della vita, condividere e riflettere, pur rendendo meno gravoso l’onere/onore dell’esistenza, non significa perseguire l’utopico desiderio di eliminare definitivamente i timori connessi alla nostra vita mortale. Lo riassume bene Woody Allen in una frase: “Io non ho paura della morte, solo che non vorrei essere lì quando accade”.

Per approfondimenti

Irvin Yalom, “Fissando il sole”, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2008

Zygmunt Bauman, “Vita Liquida”, Laterza, Bari, 2018

Un simposio sulla felicità

di Maurizio Brasini

Dalla tradizione edonica a una prospettiva eudaimonica del benessere

Una riflessione cruciale sul rapporto tra felicità e virtù ha dato inizio al simposio proposto dalla dr.ssa Claudia Perdighe durante l’ultimo congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) a Verona. Se in una prospettiva clinica generalmente ci si concentra sull’eliminazione della sofferenza e nella tradizione psicodinamica si insiste sul conflitto tra la ricerca del piacere e i limiti imposti dalla realtà (morale compresa), esiste una solida tradizione filosofica secondo la quale la felicità invece coincide con la virtù.
I risultati preliminari dello studio della Perdighe, esposti nella sua relazione, mostrano che impegnarsi in azioni che corrispondono ai propri valori morali aumenta il senso di benessere, più che dedicarsi ad atti di altruismo o ad attività di svago.
La dr.ssa Marzia Albanese ha presentato, inoltre,  una ricerca svolta su un ampio campione internazionale, volta a indagare il rapporto tra la felicità (intesa come distanza percepita tra uno stato desiderato e la propria condizione attuale) e la soddisfazione rispetto ai propri standard morali, suddivisi in aspetti prosociali (l’altruismo) e aspetti più squisitamente morali (l’adesione ai principi morali): i risultati confermano che sentirsi in linea con i propri valori influisce positivamente sulla felicità.
La dr.ssa Teresa Cosentino ha aggiunto una riflessione sull’assertività, come strumento terapeutico che consente di creare le condizioni affinché il paziente riesca a vivere la propria esistenza in linea con le proprie preferenze, valori e scopi. In particolare, ha evidenziato come l’assertività non sia semplicemente un metodo per “farsi valere” né tantomeno per imporsi o avere successo, ma un modo per conquistare la propria autonomia attraverso una disciplina alla responsabilità e alla negoziazione.
La dr.ssa Caterina Villirillo, infine, si è soffermata sulla felicità in età evolutiva. Attraverso una rassegna degli studi sull’argomento, ha individuato alcuni fattori comuni che incidono sulla felicità nei bambini e negli adolescenti: oltre a un effetto generico e trasversale della socializzazione (avere rapporti soddisfacenti con gli altri), si può notare uno spostamento da aspetti più concretamente legati al piacere/divertimento nei bambini più piccoli, verso aspetti più valoriali in adolescenza. Una progressione, in altri termini, da una prospettiva più edonica verso una prospettiva più eudaimonica. Inoltre, la sensazione di essere riconosciuti come individui e la conquista dell’autonomia sono, a tutte le età, fondamentali per la felicità.
Nell’insieme, questo simposio invita a un cambiamento di prospettiva con importanti ricadute sulla clinica. A parere di chi scrive, la dr.ssa Perdighe e i suoi collaboratori hanno individuato una dimensione differente da quelle più comunemente adottate per orientarsi con pazienti: dolore/piacere o malessere/benessere o persino tristezza/felicità. Perché la felicità eudaimonica, di cui ci parlano queste riflessioni, somiglia molto alla gioia e la strada che ci invitano a perseguire è quella dell’autonomia intesa come capacità di accettazione, impegno costante e azione responsabile che restituisce senso e valore alla vita delle persone.

SITCC 2018 – La felicità è morale?

di Claudia Perdighe

Quanto la felicità è legata alla percezione soggettiva di essere in linea con i propri valori morali e quanto, invece, è legata alla messa in atto di comportamenti prosociali?

Qualche tempo fa, confrontandomi con Francesco Mancini, notoriamente esperto di senso di colpa, sul mio interesse per il tema della felicità, lui concluse dicendo: “Io credo che, visto come va il mondo, non sia morale avere come scopo di vita la ricerca della felicità in quanto tale ”.
Con un gruppo di colleghi abbiamo portato avanti una serie di studi sul tema della felicità e, infatti, al recente convegno SITCC di Verona abbiamo presentato un simposio dal titolo “Felicità e psicoterapia: psicoterapia come costruzione di condotte funzionali”.
Marzia Albanese ha presentato una ricerca, su un campione di oltre 1200 soggetti, il cui scopo era rispondere essenzialmente a due domande: quanto la felicità è legata alla percezione soggettiva di essere in linea con i propri valori morali? Quanto la felicità è legata alla messa in atto di comportamenti prosociali?
Differentemente dalle ricerche finora elaborate (ad esempio quelle di Tsang o Jans-Beken), dal nostro studio emerge che il fattore che più pesa sul senso di felicità soggettiva è la percezione di fare bene, vale a dire di essere guidato nei propri comportamenti dai propri principi morali. La soddisfazione di sé in senso morale pesa più dell’impegno in comportamenti di tipo prosociale (che, comunque, rimangono fattori predittivi di felicità).
Abbiamo presentato i risultati preliminari di una ricerca nella quale abbiamo provato a manipolare la variabile orgoglio morale, al fine di capire se impegnarsi in comportamenti in linea con i propri valori morali aumentasse il senso di felicità e benessere globale più dell’impegno in comportamenti prosociali o in generiche attività di svago. Anche se ancora preliminari (il campione non è completo), le prime analisi indicano che le persone a cui abbiamo chiesto di impegnarsi in una direzione di orgoglio morale, vedono aumentare in modo stabile il senso di felicità nelle cinque settimane dell’esperimento. Non succede la stessa cosa nelle altre due condizioni: il senso di felicità riferito è più basso e più soggetto a oscillazioni.
Gli ultimi due lavori presentati erano di applicazione clinica: una rassegna su come il training assertivo possa essere usato come strumento di promozione del senso di benessere soggettivo (presentata da Teresa Cosentino) e una relazione sui fattori che promuovono la felicità in età evolutiva. In quest’ultima relazione, Caterina Villirillo ha presentato, attraverso un caso clinico, un protocollo sperimentale di otto incontri, focalizzato sull’aumento della quantità e qualità delle relazioni sociali (principale fattore di felicità nei bambini). Manipolare la sola variabile relazioni ha prodotto effetti sul senso di benessere, sull’autostima e anche sull’andamento scolastico in aree in cui era presente un disturbo specifico dell’apprendimento, dopo due anni di risultati modesti ottenuti attraverso riabilitazione neuropsicologica.
Quali conclusioni? Intanto questi dati ci ricordano che se è vero, come asserisce Mancini, che i disturbi emotivi sono concettualizzabili come un problema di non accettazione e che il cuore della psicoterapia è facilitare l’accettazione, è fondamentale non solo aiutare i pazienti a disinvestire da scopi non ottenibili, ma anche a investire su scopi che sono nel potere del paziente. Ed è vero che i due processi possono procedere parallelamente e favorirsi a vicenda. In particolare, quando la sintomatologia è regolata da un antiscopo, può essere utile aiutare il paziente non solo a disinvestire dall’antiscopo (ad esempio imparare a tollerare di più la possibilità di essere colpevole), ma anche a investire su scopi positivi (ad esempio impegnarsi nei propri valori morali in modo concreto). Del resto, l’accettazione in ultimo non è altro che assumere la corrispondenza tra ordine naturale delle cose ed eventi: accettare è comprendere che la morte, gli abbandoni, le bocciature fanno parte dell’ordine naturale delle cose, piuttosto che una violazione di esso. Accettare e sentirsi felici sono entrambi in questo senso due stati profondamente regolati dalla percezione di essere a posto con i propri diritti e i propri doveri.
Una seconda osservazione, anche se forse un po’ prematura, è che in psicoterapia può essere utile avere degli indicatori che non siano solo il buon senso, su quali sono scopi e obiettivi che più facilmente garantiscono un senso di benessere stabile e con locus of control interno (cosa che può essere inquadrata in termini di prevenzione delle ricadute in senso lato).
Un’ultima conclusione, più attinente al tema, è che non solo non è vero che essere felici è poco morale ma, al contrario, è l’impegno nel bene morale che garantisce un senso di felicità e benessere stabile, d’accordo con una buona parte della tradizione filosofica che va da Socrate e Aristotele a Kant al contemporaneo Zygmunt Bauman. Chiaramente, questa conclusione è connessa strettamente al concetto di felicità che si assume: noi facciamo riferimento a un tipo di felicità concettualizzabile come eudamonica che, semplificando, corrisponde all’essere soddisfatti di sé e della propria vita, contrapposta alla cosiddetta felicità edonistica (una felicità più transitoria, che fa riferimento al provare emozioni positive o non provare emozioni negative).Ritornando a Mancini, è proprio l’impegno morale che sembra dare un senso di felicità stabile. In realtà, ciò che può essere poco morale è la ricerca edonistica di una felicità qui e ora, quando questa sacrifica la dimensione dei doveri e della morale.

 

Per approfondimenti:

Jans-Beken, L., Lataster, J., Peels, D. et al. (2018). Gratitude, Psychopathology and Subjective Well-Being: Results from a 7.5-Month Prospective General Population Study J Happiness Stud, 19: 1673.

Mancini F. (2018). Quali significati cambiare e come? Relazione convegno Società Italiana Terapia Cognitivo-Comportamentale, 20-23 settembre 2018, Verona.

Mancini F., Perdighe C. (2012). Perché si soffre? Il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotiva. Cognitivismo Clinico, 9, 95-115.

Tsang, J.-A. (2006). Gratitude and prosocial behaviour: An experimental test of gratitude. Cognition and Emotion, 20(1), 138-148

Millennial al Fast Food della felicità

di Benedetto Astiaso Garcia

 Di tanto in tanto è bene fare una pausa nella nostra ricerca della felicità ed essere semplicemente felici. Guillaume Apollinaire

Con il termine “Millennial” si indicano gli individui appartenenti alla generazione del mondo occidentale, nati tra i primi anni ’80 ed il 2000, caratterizzata da una maggiore familiarità con la tecnologia, la comunicazione e la realtà virtuale.

Costantemente rinforzati nei loro limiti e cresciuti con l’idea di essere speciali ed unici, essi rappresentano una generazione estremamente difficile da gestire in termini di scarsa sopportazione del dolore, tolleranza alla noia e capacità di accettazione del limite. Il mondo esterno, rappresentato mentalmente come una realtà con cui essere costantemente in credito, risulta dunque perennemente inadeguato in termini di offerte, stimoli e possibilità, generando frustrazione, apatia, ricerca di gratificazioni istantanee ed una sensazione di mancato  apprezzamento del proprio valore.

Tutto questo fa sì che, all’interno di questa generazione, il desiderio di poter essere felici, diritto a cui tutti gli esseri umani non devono rinunciare, è molto spesso destinato a deragliare in un’ossessiva bramosia di appagamento ed egoistica soddisfazione, che costringe il “Millennial” a sperimentare sentimenti cronici di vuoto, insoddisfazione e solitudine.

La ricerca compulsiva di una qualsiasi emozione che finalmente possa farli sentire vivi, riempiendo per pochi istanti un caotico vuoto autodistruttivo, diviene dunque l’unico confusionario desiderio verso il quale dirigere la propria esistenza.

Sono, infatti, proprio i crampi dell’anima a favorire la ricerca di una felicità tanto “fast”  quanto deludente, lasciando nell’IO più profondo un’abissale voragine destinata a fagocitare qualsiasi cosa o persona vi graviti attorno, distruggendola ed annientandola.

Partendo dalla perversione di un sano desiderio di soddisfazione e gratificazione, questa periodica “abbuffata” di una felicità tossica e nauseante genera rigurgiti psichici destinati ad imprigionare l’uomo all’interno di una caverna platonica, luogo psicologico in cui l’altro viene percepito solamente come un’ombra, con cui diviene spesso impossibile interagire. L’altro, infatti, si trasforma in un ostacolo al proprio appagamento.

Le relazioni, la vita di coppia, i rapporti familiari e la vita sociale divengono dunque modalità narcisistiche ed autoreferenziali finalizzate ad ammutolire l’assordante grido di insoddisfazione, tristezza, dolore, sofferenza ed angoscia che accompagnano da tempo il “Millennial”, il cui IO comincia a trasudare insoddisfazione, delusione, impazienza, irrequietezza ed inquietudine destinate ad acquietarsi momentaneamente soltanto in seguito ad una nuova abbuffata di (in)felicità.

Siamo di fronte ad una triste conseguenza della modernità: privare la società di una frontiera di senso, infatti, significa partorire una generazione incapace di stabilire relazioni profonde e durature, tollerare la frustrazione, accettare il dolore e sviluppare resilienza, favorendo tacitamente una visione “usa e getta” dei rapporti interpersonali, all’interno della quale regna sovrano un senso di atemporalità. Cancellare un passato da poter ricordare e promettere un futuro tanto illusorio quanto privo di significato promuove la sola esistenza di un fraudolento e narcisistico presente, destinato a tradire presto un’irreale promessa di felicità.

Indifferenza, disinteresse, assenza di motivazione, mancanza di progettualità, disillusione verso il futuro, impazienza ed insoddisfazione divengono, di conseguenza, i sette vizi capitali della società postmoderna, madre procreatrice di figli tanto desiderosi di essere felici, riconosciuti e gratificati, quanto incapaci di orientare i loro pensieri e comportamenti in modo strategico verso il raggiungimento di tale obiettivo.

Al fine di “riempire” il vuoto interiore del “Millennial”, l’unica modalità offerta dalla deriva genitoriale e pedagogica in atto risulta essere quella di continuare a “scavare”: è stata rubata una risposta al senso stesso della vita e non è stato ancora arrestato il ladro.

Per approfondimenti:

Sinek S., “Together in Better”, Portfolio Penguin, London, 2016

Perché piacere e felicità non sono la stessa cosa

di Maurizio Brasini

In cosa consiste la felicità? In quale direzione bisogna procedere per andarla a cercare?

Nel VII Forum sulla formazione in psicoterapia, tenutosi ad Assisi a metà ottobre, un gruppo di allievi del secondo anno della SPC (Scuola di Psicoterapia Cognitiva) di Roma, coordinato dalla dr.ssa Claudia Perdighe, ha affrontato un tema di ampio respiro filosofico, con importanti ricadute sul modo di concepire gli obiettivi della terapia: il tema della felicità.

La ricerca della felicità nella cultura occidentale è considerata un diritto inalienabile (è persino citata nella costituzione degli USA). E non vi è dubbio che chi si rivolge ad uno psicoterapeuta nutra l’aspettativa di uscire da una condizione soggettiva di sofferenza e possibilmente essere più felice. Ma in cosa consiste la felicità? In quale direzione bisogna procedere per andarla a cercare? Leggi tutto “Perché piacere e felicità non sono la stessa cosa”