I Paradossi della Psicopatologia: spiegazione e soluzione del paradosso nevrotico

a cura di Vittoria Zaccari

Francesco Mancini e Amelia Gangemi, nel libro “I Paradossi della Psicopatologia”, edito recentemente da Raffaello Cortina, affrontano una delle questioni cruciali e ben note a chi è interessato alla comprensione delle sofferenze psicopatologiche: la persistenza paradossale della sofferenza nonostante il cambiamento per il paziente appaia non solo opportuno, ma anche possibile e alla sua portata. Gli autori presentano una soluzione basata sull’idea che le motivazioni orientino automaticamente i processi cognitivi per ridurre il rischio di errori cruciali, rafforzando così le rappresentazioni alla base della sofferenza e contribuendo alla sua persistenza.

Perché continuiamo a soffrire? Come può una persona mantenere una condotta dannosa per sé, nonostante abbia accesso a tutte le informazioni necessarie, disponga delle capacità cognitive adeguate e abbia scopi che suggerirebbero la necessità di un possibile e opportuno cambiamento?

Questi interrogativi, centrali nella storia della psicopatologia, richiamano il concetto di paradosso nevrotico: una condizione in cui la sofferenza psicologica persiste nonostante esistano concrete possibilità di cambiamento.

Francesco Mancini e Amelia Gangemi centrano la loro trattazione sulla spiegazione del paradosso nevrotico offrendo una prospettiva alternativa alla psicopatologia attraverso una riflessione epistemologica che passa in rassegna diverse ipotesi e prospettive teoriche alla base della sofferenza psicopatologica e si pone, attraverso un procedere critico, analitico e riflessivo di analizzare diversi approcci che tentano di spiegare la persistenza della psicopatologia, proponendo soluzioni al paradosso nevrotico al fine di comprendere la psicopatologia, o almeno una parte significativa di essa.

Gli autori hanno identificato diversi limiti e proposto alternative per comprendere perché gli esseri umani sperimentano la sofferenza e continuano a persistere in essa, indagando il motivo per cui i pazienti non cambiano verso un percorso più sano, meno doloroso e più funzionale ai propri scopi, nonostante le informazioni a loro disposizione lo consentirebbero.

Superando i concetti disposizionali e i deficit, secondo gli autori più descrittivi che esplicativi, la loro prospettiva teorica ha identificato il filo conduttore, e quindi la soluzione al paradosso nevrotico, nell’idea che i processi cognitivi siano regolati esclusivamente dalle motivazioni.

La lettura può essere ben compresa attraverso “lenti” cognitiviste ingenue che richiamano in gioco l’importanza delle motivazioni come determinanti prossimi della sofferenza nella psicopatologia superando la concettualizzazione del cognitivismo clinico tradizionale, che attribuisce a credenze disfunzionali e a processi cognitivi irrazionali il ruolo di determinanti psicologici prossimi della psicopatologia o il ricorso a concetti disposizionali o a deficit cognitivi che presentano,  secondo la prospettiva epistemologica degli autori,  numerose critiche, sostenendo dunque l’importanza delle motivazioni nella sofferenza emotiva e la loro paradossale persistenza nella psicopatologia.

Tali premesse rivelano come gli autori affrontino un problema cruciale per la comprensione e il trattamento psicoterapeutico dei disturbi mentali: la sofferenza attribuibile alle motivazioni piuttosto che a danni neurali o deficit. Questa prospettiva illumina i “paradossi” nella psicopatologia, che ha condotto gli autori ad offrire una spiegazione della persistenza paradossale di investimenti fallimentari che caratterizzano i disturbi mentali.

Secondo gli autori il paradosso nevrotico sorge dalla possibilità e dall’opportunità apparente di un cambiamento che rimane inattuato: “Errare humanum est, perseverare autem insanum”. L’aforisma per gli autori coglie l’essenza del paradosso nevrotico vale a dire la persistenza di linee di condotta – definite anche SuperInvestimenti   o “Effetto Cannocchiale” e atteggiamenti cognitivi prudenziali.

Gli autori ci tengono a sottolineare come nel dominio della psicopatologia appare congruo parlare di persistenza paradossale, operando un distinguo con i disturbi in cui il cambiamento autonomo non è nelle possibilità del paziente, come plausibilmente accade nei disturbi del neurosviluppo o nei quadri neurologici.

Il libro si dipana attraverso tre distinte parti, con il paradosso nevrotico come fulcro centrale della trattazione.

Nella prima parte introduttiva, gli autori definiscono il disturbo mentale e il ruolo della sofferenza emotiva e della compromissione della realizzazione personale. Essi enfatizzano come nella comprensione dei disturbi mentali vi sia un accordo condiviso sul concetto di rigidità come resistenza al cambiamento versus la flessibilità vista come possibilità di cambiamento e dunque salute mentale. Tuttavia, la resistenza al cambiamento e la flessibilità sono per gli autori termini descrittivi, utili solo per fini diagnostici e predittivi, ma senza nessun potere esplicativo del paradosso. Pertanto, puntano ad analizzare più approfonditamente le cause della rigidità e della resistenza al cambiamento.

Il libro si sviluppa ulteriormente in due sezioni distinte. La seconda parte, intitolata “pars destruens”, è dedicata è dedicata alla critica delle possibili soluzioni al paradosso nevrotico. Vengono esaminate criticamente alcune delle risposte più note, come il vantaggio secondario e analizzano le ipotesi esistenti e le loro limitazioni, sottolineando come molte di esse non riescano a spiegare adeguatamente la persistenza della sofferenza psicologica.

Nella terza parte, chiamata “pars construens”, gli autori espongono le loro tesi e delineano i presupposti fondamentali che sostengono il loro approccio teorico.

La tesi generale che propongono si basa su alcuni assunti generali.

In primo luogo, gli autori assumono che il piano privilegiato di spiegazione di molti disturbi sia mentale, dove sono rappresentati ed elaborati i significati personali, vale a dire le credenze e gli scopi del paziente versus altri disturbi il cui piano ottimale di spiegazione è considerato come non mentale, ma neurologico o neuropsicologico. Secondo gli autori in questi ultimi casi il paradosso è risolto poiché viene a mancare una delle sue condizioni, vale a dire il potere di cambiare la propria condizione (ad esempio come nel paziente affetto da malattia di Parkinson cambiare i propri sintomi).

Gli autori sottolineano che il piano personale sia da preferire in quei disturbi che sono caratterizzati soprattutto da emozioni qualitativamente appropriate, ma significative per intensità e durata.

In contrasto con la prospettiva processualista sostengono che i contenuti mentali sono indispensabili per comprendere la sofferenza emotiva e che i processi cognitivi sono normalmente regolati dai contenuti della mente, cioè da scopi e credenze in linea con la Motivated Cognition.

Concetto cardine del libro può essere ben compreso nella critica che gli autori pongono al “partizionismo” contestando l’idea che la mente sia composta di parti in interazione fra loro ma indipendenti, ciascuna regolata da propri specifici principi. A tal riguardo riprendono la tradizionale e scontata distinzione fra cognizione/ragione ed emozione/passione posizione ben espressa nella metafora dell’Auriga di Platone, il quale cercava di spiegare la più evidente delle irrazionalità pratiche riscontrabili nella condotta individuale: le akrasie, quei conflitti in cui, pur riconoscendo ciò che è buono, giusto e opportuno e desiderando perseguirlo, ci si dedica invece a ciò che danneggia. Gli autori suggeriscono l’opportunità di una rappresentazione della mente come un sistema strutturalmente e funzionalmente integrato. In particolare, ritengono che la tradizionale distinzione fra cognitivo ed emotivo sia da superare, suggerendo in modo forte che ogni evento emotivo sia anche cognitivo e che gli atti cognitivi non siano davvero neutri, cioè privi di connotazioni motivazionali ed emotive.

Un altro assunto, di particolare importanza per la loro tesi, è che i processi cognitivi siano orientati dalle motivazioni in modo sistematico, e non occasionale, rispettando il principio del pedmin (Primary Error Detection and Minimization). I processi cognitivi, secondo gli autori, al pari del comportamento, sono al servizio delle motivazioni che guiderebbero in modo automatico, non previsto e non intenzionale, a prevenire gli errori che in un dato momento apparirebbero più costosi. Il ricorso al pedmin inoltre, per gli autori, consentirebbe di legare le motivazioni ai processi cognitivi coinvolti nella minimizzazione di errori cruciali per l’individuo senza cadere nei paradossi della teoria standard dell’autoinganno che richiama la partizione funzionale fra coscienza secondaria e coscienza primaria o inconscio cognitivo per dar conto di come le motivazioni agiscano sui processi cognitivi e sulle credenze. Gli autori sostengono e propongono come soluzione che si arriva a credere qualcosa nonostante le informazioni disponibili e le capacità cognitive dell’individuo giustificherebbero credenze opposte illuminando come motivazioni possano influire su ciò che si accetta o si rifiuta di credere, senza cadere nell’autoinganno.

Il nocciolo della loro tesi è che gli investimenti sottesi da forti motivazioni e accompagnati da intensa emotività orientino i processi cognitivi in accordo con il principio del pedmin, vale a dire in modo da evitare di abbandonare erroneamente le credenze che sostengono l’investimento e di assumere erroneamente credenze che sostengono investimenti alternativi. Di conseguenza è più probabile che l’investimento persista, pur se fallimentare e anche se le informazioni disponibili alla persona giustificherebbero un cambiamento.

Inoltre, gli autori focalizzano tali argomentazioni sull’innesco dei processi ricorsivi che rafforzano l’investimento iniziale, facilitati dall’alta motivazione alla base dell’investimento stesso.

La loro tesi è che nei disturbi mentali, o meglio in alcuni di essi, il valore degli investimenti critici sia elevato per la tipologia degli scopi coinvolti e per alcune credenze. Gli scopi in questione, secondo gli autori, sono scopi ad alto valore in tutti perché definiscono il senso della propria identità e della propria esistenza e vengono definiti come scopi prescrittivi o normativi. Questi scopi definiscono ciò che per la persona deve accadere o non accadere, ovvero il livello di frustrazione accettabile, rafforzandone la motivazione. Dunque, gli scopi prescrittivi contribuirebbero al valore di un investimento, soprattutto perché ne definiscono i livelli di compromissione accettabili e dunque le condizioni alle quali si può ridurre o rinunciare a un investimento.

In maniera associata, gli autori sottolineano l’importanza delle valutazioni negative delle emozioni connesse con la compromissione o la minaccia di compromissione dell’investimento stesso, chiamando in gioco l’importante ruolo del problema secondario, che segnala lo stato dei propri investimenti e svolge un ruolo importante nel potenziamento degli investimenti stessi. Infatti, la motivazione al successo dell’investimento aumenta perché si aggiunge ad essa anche lo scopo di disattivare quell’emozione. Gli autori a tal riguardo parlano di “effetto cannocchiale”: maggiore è la motivazione, maggiore è l’investimento.

Infine, gli autori hanno posto attenzione anche ad alcuni fattori transdiagnostici di vulnerabilità alla psicopatologia, come il nevroticismo (inteso come iperreattività alle emozioni o disregolazione delle stesse) e la sfiducia epistemica, intesi come fattori di vulnerabilità che agevolano i disturbi mentali poiché influenzano le cause della persistenza paradossale degli investimenti fallimentari.

La tesi proposta viene ampiamente esemplificata e descritta attraverso diversi casi clinici presentati in diverse sezioni del libro. Questi esempi clinici offrono un interessante spunto di riflessione, permettendo di comprendere più a fondo il paradosso nevrotico.

Sulla scia delle riflessioni e della tesi proposta, gli autori concludono l’opera ponendo l’attenzione alle implicazioni terapeutiche.

Secondo la loro tesi proposta, uscire dai processi ricorsivi che alimentano il paradosso, presuppone la riduzione della motivazione alla base degli investimenti, dunque, l’uscita ottimale dai processi ricorsivi avverrebbe per mezzo dell’accettazione e dunque attraverso la riduzione della motivazione o della rinuncia all’investimento fallimentare. Gli autori considerano l’accettazione uno stato mentale caratterizzato dal riconoscimento che un determinato assetto della realtà, rilevante per l’individuo e di solito negativo, sia congruo con ciò che la persona assume sia giusto che accada o per lo meno non sia in contrasto con esso.

Inoltre, si soffermano sul ruolo cruciale nel trattamento della riduzione degli scopi prescrittivi che porterebbe ad una maggiore accettazione delle minacce da prevenire, dei fallimenti e delle perdite che si cerca di contenere.

Secondo gli autori, la definizione dello stato mentale di chi accetta consiste nel riconoscimento della congruenza, o almeno di una minore incongruenza, fra scopi prescrittivi e la rappresentazione della realtà, in particolare delle proprie emozioni e del rischio di fidarsi degli altri; pertanto, illustrano l’importanza di aiutare il paziente a ridurre “l’effetto cannocchiale” focalizzando la sua motivazione anche su scopi alternativi esistenzialmente importanti.  In questo modo si ridurrebbe il valore relativo dell’investimento fallimentare grazie al confronto con scopi più significativi essenziali per il suo benessere esistenziale.

“I Paradossi della Psicopatologia” è un’opera complessa e articolata che sfida le convenzioni tradizionali della psicopatologia. Rappresenta un contributo fondamentale per la comprensione della sofferenza psicologica e della sua persistenza.  Gli autori offrono una prospettiva innovativa che privilegia le motivazioni come chiave per comprendere la persistenza della sofferenza psicologica fornendo preziose suggestioni per il trattamento terapeutico. Il libro rappresenta una lettura indispensabile per chiunque sia interessato a una comprensione più profonda e integrata della psicopatologia, suggerendo nuove vie per il trattamento e la terapia.

Per approfondimenti

Mancini, F.  Gangemi, A. (2024), I paradossi della psicopatologia, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Nuovo approccio al senso di colpa

di Redazione

La ricerca degli esperti della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) pubblicata sulla rivista dell’International Society for the Study of Individual Differences

Moralità e senso di colpa possono essere visti come due facce della stessa medaglia: la colpa è il risultato emotivo di un conflitto tra il nostro comportamento e la moralità che abbiamo interiorizzato in relazione al contesto e alle esperienze di vita. È quanto emerge da una ricerca condotta nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) diretta dal neuropsichiatra Francesco Mancini. La ricerca è stata coordinata dalla dottoressa Alessandra Mancini e i risultati sono stati pubblicati nell’ultimo numero di Personality and Individual Differences, la rivista accademica ufficiale dell’International Society for the Study of Individual Differences (ISSID), edita da Elsevier.

Secondo il “Modello intuizionista sociale del giudizio morale” dello psicologo statunitense Jonathan Haidt, la moralità è concettualizzata come multidimensionale e costituita da cinque fondamenti morali: danno/cura, che riguarda la sensibilità alla sofferenza e alla crudeltà; imparzialità/reciprocità, che si concentra sulla necessità di giustizia; associazione/lealtà, che implica cooperare e fidarsi del proprio gruppo; autorità/rispetto, che ha a che fare con la valorizzazione dell’obbedienza e del dovere; purezza/santità, che include il disgusto per la contaminazione e riguarda coloro che non riescono a superare i loro impulsi di base.

Le varie culture rispettano questi principi in modo diverso. A un livello più individuale, valori e ideali hanno un ruolo centrale e definiscono l’identità di una persona, motivandola a comportarsi coerentemente con essi. Poiché è accertato che le emozioni negative segnalino la percezione di una discrepanza tra la realtà e le convinzioni e gli obiettivi individuali, le emozioni morali potrebbero funzionare come allarme di una divergenza tra la moralità interiorizzata degli individui e la rappresentazione morale nella società.

In particolare, la colpa è stata definita come “sensazione disforica associata al riconoscimento che si ha violato uno standard morale o sociale personalmente rilevante”. Tuttavia, ci possono essere differenze individuali rispetto a ciò che è “personalmente rilevante”.

Nella convinzione che riconoscere diversi tipi di sensi di colpa rappresenterebbe un passo importante nella ricerca, nello studio Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, gli autori hanno creato uno strumento valido e affidabile – la Moral Orientation Guilt Scale (MOGS) – in grado di misurare in modo indipendente diversi tipi di sensi di colpa, testandolo su un ampio campione subclinico al quale sono stati sottoposti test classici e innovative tecniche di analisi.

L’obiettivo era di evidenziare diversi tipi di sensi di colpa riflessi nei valori morali interiorizzati dagli individui. Questo approccio di convalida incrociata ha indicato quattro fattori di colpa: “violazione delle norme morali”, “sporco morale”, “empatia” e “danno”. Se i primi due fattori sono risultati correlati positivamente con la sensibilità al disgusto, supportando il legame tra disgusto e colpa deontologica, il fattore “danno” è risultato correlato negativamente con i punteggi di sensibilità al disgusto, in linea con l’idea che l’altruismo e il disgusto si siano evoluti come parte di sistemi motivazionali contrastanti.

Dagli esiti dell’indagine è emersa dunque la distinzione tra sentimenti di colpa che attengono alla moralità deontologica e sentimenti di colpa che riguardano la moralità altruistica.

Per scaricare l’articolo

Mancini A., Granziol U., Migliorati D., Gragnani A., Femia G., Cosentino T., Saliani A.M., Tenore K., Luppino O.I., Perdighe C., Mancini F., (2022), Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, Personality and Individual Differences, 189

 

 

Foto di EKATERINA BOLOVTSOVA da Pexels

Covid e ossessioni

di Giuseppe Femia

L’impatto della pandemia sulla salute mentale

Un importante lavoro di ricerca, utile per coloro che si occupano di psicopatologia e dell’impatto del COVID-19 sulla salute mentale, con particolare riferimento al Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), è stato di recente pubblicato nella rivista Journal Frontiers in Psychiatry. Narrative Review of COVID-19 Impact on Obsessive-Compulsive Disorder in Child, Adolescent and Adult Clinical Populations: questo il titolo dello studio realizzato da Vittoria Zaccari, Maria Chiara D’Arienzo, Tecla Caiazzo, Antonella Magno, Graziella Amico e Francesco Mancini della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC – SPC) di Roma, con l’intento di revisionare tutti i contributi pubblicati dopo gennaio 2020 che hanno affrontato l’impatto della pandemia COVID-19 sul DOC.

Diversi studi dimostrano come l’emergenza sanitaria abbia generato un grado di malessere e disagio psicologico nella popolazione generale, nella popolazione clinica adulta e in bambini e adolescenti, decretando un peggioramento di diversi quadri clinici e un incremento delle difficolta psicologiche. In questo panorama, non può essere tralasciato l’impatto della pandemia sul DOC, condizione clinica caratterizzata, in alcuni casi, da una sintomatologia fortemente sensibile al timore e alla probabilità di contaminazione, dalla percezione di una maggiore responsabilità di contagiarsi o contagiare gli altri e da comportamenti protettivi volti ad allontanare o neutralizzare un possibile rischio di contaminazione o colpa per irresponsabilità, tutti aspetti fortemente veicolati in questo periodo di emergenza da COVID-19.

La letteratura più recente non manca di mettere in evidenza come alcuni sintomi ossessivo-compulsivi si siano aggravati a causa della situazione attuale, sia nella popolazione clinica adulta che in età evolutiva, ma in tale molteplice panorama mancava un lavoro di revisione della letteratura che mettesse in luce la relazione tra DOC e COVID-19: in tal senso, il lavoro  ha avuto come scopo quello di evidenziare ed analizzare i dati volti a rilevare il peggioramento clinico o il miglioramento della sintomatologia ossessivo-compulsiva in campioni clinici con DOC di adulti e in età evolutiva.

Sono stati passati in rassegna tutti i contributi empirici pubblicati da Gennaio 2020 a Gennaio 2021 inerenti l’impatto della pandemia COVID-19 sul DOC in bambini, adolescenti e adulti, anche in termini di limitazioni.

La ricerca in letteratura è stata condotta utilizzando i principali database scientifici. Sono stati esaminati un totale di 102 articoli, che hanno portato all’identificazione di 64 articoli full-text da esaminare ulteriormente. Dall’analisi della letteratura, sono stati selezionati gli articoli che rispettavano tutti i criteri di eleggibilità, per un totale di 14 studi.

La review ha rivelato che il COVID-19 ha avuto un impatto sul DOC sia negli adulti che nei giovani e sembra aver causato un esacerbazione dei sintomi, in particolare del sottotipo DOC contaminazione/lavaggio. Otto studi su campioni adulti hanno mostrato un aumento della gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi; due studi hanno sottolineato un impatto minimo del COVID-19 sui pazienti con DOC e uno studio ha mostrato un lieve miglioramento dei sintomi. Due studi su tre su bambini e adolescenti hanno mostrato una esacerbazione della sintomatologia ossessivo-compulsiva e un peggioramento anche in presenza di un trattamento in corso.

Globalmente la rassegna documenta un sostanziale impatto negativo della pandemia su pazienti con DOC, sia adulti che in età evolutiva.

Tuttavia, tale analisi della letteratura è stata rilevante per riflettere sulle diverse limitazione degli studi considerati: il numero di soggetti reclutati era piuttosto esiguo; i campioni coprivano un’ampia fascia di età; pochi studi hanno esaminato i sottotipi di DOC; nella maggior parte degli studi la tipologia del trattamento non era chiara; un gran numero di studi non ha utilizzato lo stesso periodo di monitoraggio o misure quantitative standardizzate.

Lo studio dell’Associazione Scuola di Psicoterapia Cognitiva ha indagato l’impatto del COVID-19 sul DOC e fornisce alla comunità scientifica informazioni importanti, evidenzia le limitazioni degli studi pubblicati e mette in evidenza l’importanza dell’influenza delle variabili contestuali odierne.

Per approfondimenti

https://doi.org/10.3389/fpsyt.2021.673161

 

Foto di Yaroslav Danylchenko da Pexels

Il trauma infantile

di Mauro Giacomantonio

Report del Simposio sul Trauma Infantile

Lo scorso 17 gennaio 2020 si è tenuto presso il Teatro Italia a Roma un simposio in memoria di Gianni Liotti, dedicato al tema del trauma infantile. La scelta dell’argomento è legata agli importanti contributi che il lavoro di Liotti ha dato alla comprensione e al trattamento del trauma. L’iniziativa ha visto la partecipazione di circa 500 persone tra studenti e professionisti nel campo della psicoterapia, della medicina e della formazione.

Ha aperto i lavori Francesco Mancini introducendo i quattro interventi dei relatori che vantano tutti una lunga esperienza di lavoro sul trauma, sia dal punto di vista clinico sia della ricerca.

La prima a intervenire è stata Maria Grazia Foschino Barbaro che ha trattato in modo approfondito gli aspetti interpersonali legati al trauma infantile. Anche attraverso la presentazione di alcuni casi clinici estremamente interessanti, la relatrice ha illustrato il ruolo centrale della relazione con il caregiver che, in determinati casi, può costituire una vera a propria fonte di trauma relazionale che può tradursi, tra le altre cose, in un attaccamento disorganizzato e quindi in una persistente vulnerabilità psicologica. 

Il secondo intervento è stato quello di Antonio Lasalvia che, in una prospettiva epidemiologica, ha trattato l’associazione tra trauma infantile e psicosi. Il relatore ha mostrato come la letteratura suggerisca chiaramente che esiste una relazione tra trauma e sviluppo di psicosi. Come nel caso della relazione tra fumo e cancro al polmone, la probabiltà di sviluppare psicosi cresce notevolmente con il crescere del numero di traumi significativi a cui la persona viene esposta nella sua vita. Infine Lasalvia ha illustrato interessanti modelli particolarmente recenti che sostengono un ruolo causale del trauma nella generazione delle psicosi. Il trauma non sarebbe quindi un mero evento stressante che agirebbe da slatentizzatore di una predisposizione genetica, ma un vero e proprio determinante del disturbo. 

Maurizio Brasini è stato il terzo relatore a prendere la parola e ha discusso il nesso tra trauma, attaccamento e ordine naturale delle cose. Dopo aver offerto interessanti spunti critici relativi al modo in cui il trauma è stato concettualizzato negli ultimi 150 anni, Brasini ha proposto una interessante e innovativa ipotesi che vede il trauma come una violazione delle aspettative che l’individuo ha nei confronti di cosa è giusto che accada (o non accada). In altre parole il trauma invalida l’ordine naturale delle cose della persona che lo subisce. Il pubblico ha assistito a una presentazione che, oltre ad essere densa di contenuti e innovativa, è stata particolarmente avvincente anche grazie ai tanti riferimenti al cinema e alla natura.

Infine Furio Lambruschi ha concluso i lavori con una relazione che ha offerto interessanti spunti relativi alle criticità che si possono incontrare nel setting terapeutico quando si ha a che fare con il trauma infantile. Lambruschi inoltre ha enfatizzato particolarmente il ruolo del contesto relazionale (ma non solo) che precede, accompagna e segue il trauma sottolineando come questo sia determinante nel cambiare l’esito in termini psicologici dell’evento avverso. 

Il simposio nel suo complesso è stato particolarmente stimolante sia per chi da anni si occupa di trauma, attaccamento e dei temi cari a Gianni Liotti, sia per chi sta iniziando a muovere oggi i primi passi in questi argomenti  particolarmente rilevanti nel trattamento della psicopatologia. Alcune riflessioni condivise col pubblico hanno anche sottolineato come lo studio e la conoscenza del trauma infantile sarebbe fondamentale, in termini di salute pubblica, anche per altre figure sanitarie, come ad esempio i medici di base. 

Comprendere e curare la depressione

di Katia Tenore

I trattamenti psicoterapeutici descritti nel volume “La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la psicoterapia cognitiva”, a cura di Antonella Rainone e Francesco Mancini

Al lettore che si affaccia al volume di recente pubblicazione “La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la psicoterapia cognitiva”, a cura di Antonella Rainone e Francesco Mancini, viene presentato un quadro completo del complesso fenomeno della depressione. Questo disturbo, definito dagli autori come “un’emergenza mondiale”, è descritto da differenti punti prospettici che fanno capo ai più accreditati modelli esplicativi, tra cui quelli degli psicoterapeuti statunitensi Aaron Beck e Martin Seligman, capifila rispettivamente del modello cognitivo di comprensione e cura della depressione e della teoria dell’impotenza appresa, transitata poi nella Hopelessness Depression.
Rainone e Mancini analizzano i fattori di mantenimento e la genesi del fenomeno depressivo, rispondendo al fondamentale quesito relativo alle ragioni per cui si passi da un dolore naturale per la perdita alla sofferenza patologica depressiva. In particolare, dopo aver descritto il ruolo della ruminazione depressiva, gli autori propongono un originale modello esplicativo dei paradossi della depressione, nel quale quelle che ci appaiono delle cocciute resistenze al cambiamento della persona depressa, sono illustrate e chiarite in termini di scopi perseguiti e di credenze disfunzionali.
Gli autori sottolineano che i meccanismi responsabili dell’accettazione di eventi avversi, quali perdite e fallimenti, risultano compromessi nella depressione. Tale modello è frutto del lavoro del gruppo clinico e di ricerca della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) di Roma.
La cura della depressione è approcciata, oltre che con la descrizione degli interventi standard della Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), anche attraverso gli approcci della terza ondata, con focus su Schema Therapy, Acceptance and Commitment Therapy, Compassion focused Therapy e Mindfulness.
Il lavoro presenta, inoltre, un’importante attenzione ad aspetti troppo spesso tralasciati nella concettualizzazione del funzionamento patologico, quali le risorse e i fattori che contribuiscono alla resilienza personale. Sulla stessa linea, il benessere psicologico e le sue dimensioni vengono approcciate attraverso la descrizione della Well-Being Therapy come strategia terapeutica per ridurre il rischio di ricadute sintomatologiche.
Il testo si chiude con un interessante approfondimento della Terapia Interpersonale e delle sue similitudini con la Terapia Cognitivo Comportamentale.
Oltre a distinguersi per un elevato valore scientifico, il libro si presta in maniera versatile a diversi usi e soddisfa diversi bisogni formativi. Costituisce sicuramente un manuale di riferimento nella sua globalità, ma allo stesso tempo i singoli capitoli possono soddisfare bisogni di approfondimento più circoscritti. Questa sua stessa natura fa sì che il volume sia fruibile da chi approccia per le prime volte il tema del fenomeno della depressione e chi, invece, necessita di un aggiornamento o di estendere la propria conoscenza ad approcci più recenti.

Per approfondimenti

A. Rainone, F. Mancini (a cura di), “La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la psicoterapia cognitiva”, Franco Angeli, 2018

Disturbo dissociativo di identita’ e modello sociocognitivo: ricordando le lezioni del passato

di Alessia Bilato
curato da Francesco Mancini

L’eziologia del Disturbo Dissociativo dell’Identità (DDI) rappresenta uno dei temi più controversi della psicologia clinica contemporanea.

Nell’ultimo decennio sono emerse due teorie concorrenti rispetto alla genesi del DDI: il modello post-traumatico (D. H. Glaves, 1996), secondo il quale il disturbo si stabilirebbe come risposta difensiva ad un trauma avvenuto durante l’infanzia, e il modello sociocognitivo (Spanos, 1994), che concettualizza il DDI come una rappresentazione di ruoli sociali, derivanti dai suggerimenti dei terapeuti, dalle informazioni fornite dai media sul DDI e da esperienze personali.

In seguito ad un articolo di Glaves (1996), nel quale quest’ultimo critica il modello sociocognitivo, definendo che il modello post-traumatico fornisca una migliore spiegazione eziologica del DDI, Lilienfeld e collaboratori hanno pubblicato un articolo (1999) per dimostrare come tale conclusione sia ingiustificata.

In primo luogo, questi autori affermano che molte delle argomentazioni proposte da Glaves siano interpretazioni erronee degli assunti del modello sociocognitivo. Ad esempio, Glaves dichiara che un disturbo non può essere interamente iatrogeno o interamente non iatrogeno. Tuttavia, il modello sociocognitivo non ipotizza che l’eziologia del DDI sia completamente iatrogena, in quanto propone che le caratteristiche del disturbo possano essere costruite a partire da una varietà di fonti in aggiunta ai suggerimenti involontari dei terapeuti e che le influenze sociali non siano le solo cause rilevanti del DDI. Difatti, anche le differenze individuali nella personalità possono predisporre certi individui al disturbo in questione.

In secondo luogo, la letteratura sul trattamento del DDI suggerisce che i fattori iatrogeni giochino un ruolo importante nell’eziologia. Ciò è evidenziato dal fatto che il numero di pazienti ai quali è stato diagnosticato il disturbo sia aumentato considerevolmente durante i decenni passati, in concomitanza con l’incremento delle conoscenze dei terapeuti rispetto alle caratteristiche diagnostiche del DDI. Inoltre, la maggior parte dei pazienti con DDI mostra pochi segnali di questa condizione prima della terapia e il trattamento sembrerebbe rinforzare verbalmente la presenza di altre identità, che aumenterebbero nel percorso terapeutico.

In terzo luogo, le prove che mettono in relazione l’abuso infantile con il DDI risultano essere problematiche. Nonostante Glaves abbia esaminato numerosi studi che riportano un’alta prevalenza di abuso infantile tra i pazienti con DDI, in nessuno di questi studi l’abuso era confermato da fonti differenti dal paziente stesso. Per di più, anche se fosse confermato, rimarrebbe da determinare se una storia di abuso infantile sia più comune tra i pazienti con DDI che tra i pazienti psichiatrici in generale e se possa essere associata causalmente con il rischio di un successivo DDI.

In conclusione, numerose linee di evidenza convergono sulla conclusione che la iatrogenesi giochi un ruolo importante nell’eziologia del DID, ma è fondamentale indagare quale sia la sua rilevanza comparata con altre potenziali variabili causali, come l’influenza dei media.

La recente epidemia di diagnosi di DDI impartisce un’importante lezione agli psicoterapeuti di oggi: la psicoterapia può avere anche degli effetti nocivi e questo deve costituire un necessario promemoria per il clinico, in quanto egli può essere scopritore quanto creatore di psicopatologia.

Per approfondimenti:

Lilienfeld, S.O., Lynn, S.J., Kirsch, I., Chaves, J.F., Sarbin, T.R., Ganaway, G.K, Powell, R.A. (1999). Dissociative identity disorder and the sociocognitive model: recalling the lessons of the past. Psychological Bulletin, 125 (5), 507-523.

Scopi e funzioni della ruminazione

di Roberta Trincas, Chiara Schepisi, Estelle Leombruni, Valentina Emilia Di Mauro, Francesco Mancini

Abstract dell’articolo “Goals and functions of rumination: a review”, pubblicato su Clinical Neuropsychiatry

La ruminazione è un processo di pensiero ripetitivo e abituale che riguarda generalmente un tema specifico, ed è implicato nello sviluppo e nel mantenimento di diverse psicopatologie. Considerando che ha un ruolo critico nella psicopatologia, lo studio delle funzioni e degli scopi della ruminazione ha suscitato notevole interesse negli ultimi anni di ricerca nel campo. Le motivazioni che hanno spinto l’interesse verso la conoscenza degli scopi della ruminazione deriva da prove empiriche che dimostrano che il pensiero ripetitivo può essere adattivo e che la ruminazione si osserva comunemente anche in popolazioni non cliniche.

In linea con questa prospettiva, lo scopo di questa revisione è costruire un modello esaustivo della ruminazione coerente con l’idea che tale processo sia guidato da scopi. A tal fine, sono stati analizzati criticamente i modelli teorici più rilevanti e gli studi sulla ruminazione al fine di identificare potenziali indicatori del ruolo della ruminazione all’interno del sistema di scopi individuale.

Sulla base delle evidenze attuali, la ruminazione sembra avere la funzione di riflettere su eventi o situazioni che possono ostacolare il raggiungimento di scopi (o scopi di evitamento) al fine di favorire il perseguimento di scopi rilevanti. In particolare, la ruminazione si associa a obiettivi di livello intermedio nella gerarchia. In altre parole, focalizzandosi ripetutamente su un evento, su sensazioni fisiche o emozioni legate a un obiettivo non raggiunto, l’individuo cercherebbe di superare eventuali ostacoli per raggiungere lo scopo terminale desiderato.

L’analisi presentata nell’articolo  (http://www.clinicalneuropsychiatry.org/pdf/6CN18-6trincasetal..pdf) pubblicato sul numero di dicembre della rivista Clinical Neuropsychiatry (http://www.clinicalneuropsychiatry.org/#) ripercorre le principali teorie sull’argomento (Nolen-Hoeksema, Borkovech, Wells, Davey, Watkins), estrapolando le principali funzioni della ruminazione e delineando un modello scopistico all’interno del quale tale processo avrebbe un ruolo adattivo.

Per approfondimenti:

Clinical Neuropsychiatry – n. 6 December – 2018
http://www.clinicalneuropsychiatry.org/#

Articolo “Goals and functions of rumination: a review”
http://www.clinicalneuropsychiatry.org/pdf/6CN18-6trincasetal..pdf

Il ruolo delle credenze sulle emozioni

di Roberta Trincas, Laura Bernabei, Pina Cristina Bellizzi, Cecilia Laglia, Alessandra Nachira, Giuseppe Vitali, Francesco Mancini

Abstract dell’articolo “Il ruolo delle credenze sulle emozioni nei processi di regolazione emotiva. Una rassegna della letteratura su teorie, ricerche e trattamento” su Rivisteweb

Nonostante la ricerca abbia dimostrato l’impatto che le strategie di regolazione emotiva (SRE) hanno nel mantenimento della psicopatologia, risultano poco chiari i meccanismi implicati nell’uso di SRE disadattive, come le credenze che le persone hanno rispetto alle loro emozioni.
L’obiettivo dell’articolo “Il ruolo delle credenze sulle emozioni nei processi di regolazione emotiva. Una rassegna della letteratura su teorie, ricerche e trattamento”, pubblicato a marzo 2018 su Rivisteweb, è dunque comprendere le caratteristiche della relazione tra credenze sulle emozioni e processi di regolazione emotiva (RE). A tal fine verranno approfonditi gli studi che hanno indagato nello specifico le credenze sulle emozioni che influiscono sulla RE, i metodi di misura utilizzati e le psicoterapie che prevedono protocolli specifici focalizzati sulla modifica delle credenze sulle emozioni.
La rassegna mette in luce che le credenze che le persone hanno sulle emozioni possono influire sulle capacità di gestione delle proprie reazioni emotive. In particolare, sembra esserci un’associazione tra credenze specifiche e differenti strategie di RE. Infine, le credenze hanno un ruolo importante nell’incremento dei sintomi e nel mantenimento di specifici disturbi mentali. Considerando che gran parte degli studi ha approfondito tali meccanismi in campioni non clinici, emerge la necessità di ampliare il campo d’indagine nell’ambito della psicopatologia.
Per approfondimenti:

Articolo “Il ruolo delle credenze sulle emozioni nei processi di regolazione emotiva. Una rassegna della letteratura su teorie, ricerche e trattamento” su Rivisteweb https://www.rivisteweb.it/doi/10.1421/90325

Mi ama? E io la amo?

di Giuseppe Grossi

Uscire dal dubbio, sia se riguarda i propri sentimenti sia se riguarda i sentimenti dell’altro

A molti di noi sarà capitato di domandarci se il nostro partner ci ama, se desidera stare ancora con noi, se i suoi sentimenti sono sinceri o il frutto di chi sa quale interesse. Questo dubbio ha spinto tanti a cercare dei confronti, a controllare ogni singolo comportamento della persona amata, a interrogarsi su quale sia in molti casi il reale motivo che ha spinto l’altro a fare una cosa piuttosto che un’altra.
Ansia, rabbia, tristezza, le emozioni che spesso si susseguono in un mix di domande in cui si fatica a trovare una risposta che con il passare del tempo sarà sempre più lontana.
In molti casi, questi dubbi sono solo momentanei, possono tormentarci per qualche ora o giorno, ma dopo poco ci lasciano liberi e proviamo uno forte senso di leggerezza, felici di ritrovare la sicurezza di un amore che pensavamo perso. A volte risultano anche utili, riescono a dare un nuovo slancio al rapporto e la forza giusta per riorganizzare alcune dinamiche relazionali di coppia.
Ma in altri casi la situazione diventa piano piano sempre più complessa, tanto da spingerci a ricercare “la riposta” in cose sempre meno razionali. Non è raro che vengano tirati in gioco anche sensitivi, cartomanti e alchimisti di ogni genere che, con il loro sapere, dispensano conoscenze in libri,  test e altre formule magiche che dovrebbero garantirci la sicurezza dell’amore dell’altro, come se tutto potesse essere costretto e custodito in un scatola, riconducibile a un una regola precisa.
Ma cosa accade quando il dubbio riguarda i propri sentimenti?
Anche in questi casi tutto può procedere in modo molto naturale tanto da risultare non solo un temporale passeggero ma anche uno stimolo a tornare pian piano a godere a pieno di quella storia, ritrovando gli incastri giusti e ciò che più ci rende felici insieme all’altra persona. A volte, invece, capita di scoprire  che non si può più essere felici in quel duo e si decide di uscire dalla relazione.
Ma spesso, sia se la prospettiva è uscire da quella storia sia se il desiderio è ritrovare l’amore perduto, ci si ritrova come in trappola.
Lo sa bene Francesco, 35 anni, operaio in Fiat, a pochi chilometri dal paese in cui è andato a vivere con la propria compagna, Ludovica, tra pochi giorni mamma del loro primo bambino.
Da sempre ossessivo, dopo lunghi anni di rituali e una serie di fallimenti sia sentimentali sia lavorativi, Francesco si presenta al mio studio in un profondo stato confusionale: asseriva di preferire il suicidio a quello che si stava materializzando e che rappresentava per lui l’incubo più grande, qualcosa da cui era riuscito a fuggire per più di vent’anni. Francesco,  infatti, aveva 13 anni quando per la prima volta aveva provato un impulso sessuale per sua cugina, più piccola di lui e, distrutto dai sensi di colpa, si era sentito un possibile mostro, maniaco, qualcuno che avrebbe potuto ferire l’altro e fargli del male.
“Ho rovinato la mia vita, – diceva – ma ciò che non mi posso perdonare è l’idea di aver rovinato la vita di Ludovica; come è possibile che sia accaduto questo? Come è possibile che io non provi più nulla per lei, che amavo così tanto? Che non provi più nulla per il bambino che sta nascendo, il bambino che io ho desiderato e volute? Quando facciamo l’amore non sento le stesse cose, forse non mi piace neanche più fisicamente, continuo a pensare ad altre donne, a desiderarle sessualmente. Faccio di tutto per cambiare le cose ma nulla sembra sufficiente, non riesco a provare di più… Io non posso dare questo dolore a Ludovica”.
Continuare a strappare margherite tra i campi sperando di cogliere quella giusta non ci aiuta a uscire dal dubbio, sia se questo riguarda i propri sentimenti sia se riguarda i sentimenti dell’altro. È utile in molti casi, e non solo con pazienti DOC, fare riferimento al modello a cinque fasi del neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini.  Infatti,  ai vari livelli, fino ad arrivare al disturbo ossessivo compulsivo, il modo migliore è avere consapevolezza di quali siano i tentativi di soluzione che mettiamo in atto di fronte a una valutazione impossibile da accettare, ponendo un’attenzione principale su quella che rappresenta la valutazione di secondo livello di ognuno di noi, l’unica in molti casi a darci l’idea di quanto stiamo spendendo in termini emotivi e non solo e spesso l’unica in grado di darci la forza di accettare un rischio, ponendo noi stessi e non il contenuto della nostra paura al centro della discussione.