Autocritica: un viaggio nel dialogo interiore che alimenta il malessere psicologico

di Luciana Ciringione

Negli ultimi anni la ricerca clinica si sta concentrando sempre di più sullo studio dell’autocritica, non solo per la sua capacità di influenzare profondamente lo stato di salute mentale degli individui, ma anche per il suo impatto sullo sviluppo e sul trattamento di diverse condizioni psicopatologiche.

Si definisce “autocritica” una modalità di auto-valutazione e auto-analisi che, quando raggiunge livelli patologici, si manifesta attraverso un dialogo interno ostile e auto-punitivo (Gilbert et al., 2004). Nell’articolo «You’re Ugly and Bad!»: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms (Papa et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Current Psychology, gli autori e le autrici hanno evidenziato l’importanza del considerare le caratteristiche specifiche dell’autocritica per meglio comprendere e trattare le diverse psicopatologie.

In particolare, viene sottolineato l’aspetto transdiagnostico dell’autocritica, il quale influisce negativamente sulla salute mentale degli individui associandosi a varie forme di psicopatologia come, ad esempio, disturbo d’ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi alimentari. I risultati dello studio mostrano come l’autocritica assuma specifiche caratteristiche in relazione al funzionamento psicologico individuale e, in particolare, al profilo interno dei diversi disturbi (Papa et al., 2024). Ad esempio, in individui che riportano sintomatologia di ansia sociale, l’autocritica tende a manifestarsi sotto forma di confronto costante con gli altri, percepiti come superiori e/o critici: questo meccanismo genera sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che alimentano la paura del giudizio altrui (Thompson & Zuroff, 2004). Nei disturbi alimentari, invece, l’autocritica è spesso legata al perfezionismo, con standard irrealistici riguardanti il proprio corpo. Infine, nel disturbo ossessivo-compulsivo, l’autocritica si manifesta con un atteggiamento punitivo verso sé stessi per non aver rispettato standard morali estremamente elevati (Mancini et al., 2021).

Si identificano, in particolare, due forme principali di autocritica: l’inadequate-self, legato a un senso di fallimento e frustrazione in risposta ai fallimenti, e l’hated-self, caratterizzato da sentimenti di disgusto e odio verso sé stessi (Gilbert et al., 2004). L’inadequate-self è più comune nei disturbi come l’ansia sociale, dove l’individuo si sente costantemente inferiore rispetto agli altri considerati più “adeguati”. L’hated-self, d’altra parte, è più strettamente associato ai disturbi alimentari e al disturbo ossessivo-compulsivo, dove il soggetto può arrivare a sviluppare un profondo disprezzo per sé stesso all’idea di non riuscire a raggiungere gli irrealistici standard di tipo sociale o morale. Infatti, nella relazione fra queste due forme di autocritica e lo sviluppo di sintomatologia, particolare rilevanza sembra assumere l’autocritica comparativa che si focalizza sul confronto svantaggioso con gli altri (Thompson & Zuroff, 2004).

Lo studio di Papa e collaboratori (2024) sottolinea, inoltre, come l’autocritica si intrecci spesso con l’alessitimia, ovvero la difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni (Sifneos, 1973). Gli individui con elevati livelli di autocritica, infatti, tendono a evitare di entrare in contatto con i propri stati emotivi, ostacolando l’elaborazione delle emozioni negative e rafforzando i sentimenti di inadeguatezza (Gilbert et al., 2011). Inoltre, la presenza di alessitimia predispone all’utilizzo di strategie di regolazione emotiva disadattive, come l’autocritica, creando un circolo vizioso di difficoltà emotive e pensieri auto-punitivi che mantengono la sintomatologia (Pascual-Leone et al., 2016).

Alla luce di queste evidenze, risulta fondamentale distinguere le diverse forme di autocritica nei pazienti per sviluppare interventi terapeutici mirati. I trattamenti che integrano la consapevolezza delle emozioni, come la schema therapy attraverso il chairwork, stanno dimostrando di essere particolarmente efficaci nel ridurre l’autocritica e migliorare il benessere emotivo (Young et al., 2003).

Si può, quindi, considerare l’autocritica come un fenomeno eterogeneo e multidimensionale che incide significativamente sulla salute mentale degli individui. Comprenderla in modo approfondito consente non solo di delineare strategie di intervento più efficaci, ma anche di promuovere una maggiore consapevolezza emotiva nei pazienti, migliorando così i risultati degli interventi clinici.

Bibliografia

Gilbert, P., Clarke, M., Hempel, S., Miles, J. N., & Irons, C. (2004). Crit­icizing and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. British Journal of Clinical Psychol­ogy, 43(1), 31–50.

Gilbert, P., McEwan, K., Matos, M., & Rivis, A. (2011). Fears of com­passion: Development of three self-report measures. Psychology and Psychotherapy: Theory Research and Practice, 84(3), 239– 255.

Mancini, F., Luppino, O. I., & Tenore, K. (2021). Disturbo ossessivo-compulsivo. In Perdighe, C., & Gragnani, A. (Cur.) Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali (pp 511–558). Raffaello Cortina Editore.

Papa, C., D’Olimpio, F., Zaccari, V., Di Consiglio, M., Mancini, F., & Couyoumdjian, A. (2024). “You’re Ugly and Bad!“: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms. Current Psychology, 1-16.

Pascual-Leone, A., Gillespie, N. M., Orr, E. S., & Harrington, S. J. (2016). Measuring subtypes of emotion regulation: From broad behavioural skills to idiosyncratic meaning‐making. Clini­cal Psychology & Psychotherapy, 23(3), 203–216.

Sifneos, P. E. (1973). The prevalence of ‘alexithymic’characteristics in psychosomatic patients. Psychotherapy and Psychosomatics, 22(2–6), 255–262.

Thompson, R., & Zuroff, D. C. (2004). The levels of self-criticism scale: Comparative self-criticism and internalized self-criticism. Personality and Individual Differences, 36(2), 419–430.

Young, J. E., Klosko, J. S., & Weishaar, M. E. (2003). Schema therapy: A practitioner’s guide. Guilford Press.

Si può disimparare il disgusto?

di Luciana Ciringione
a cura di Brunetto De Sanctis

Il disgusto è implicato in diverse psicopatologie sia in associazione ad altre emozioni come la paura (ad es. nelle fobie specifiche), sia in sindromi complesse quali il disturbo post-traumatico da stress e il disturbo ossessivo-compulsivo. La sua funzione principale è quella di proteggere gli individui da possibili agenti contaminanti provocando un comportamento di evitamento rispetto ad essi.

Uno dei trattamenti più utilizzati nella riduzione delle emozioni legate a comportamenti disfunzionali è l’esposizione in vivo: sembra infatti essere particolarmente efficace nella riduzione della paura. Tuttavia, non ci sono evidenze chiare sulla sua efficacia nella riduzione del disgusto.

Questo potrebbe essere possibile perché nel disgusto la minaccia non è sempre visibile ad occhio nudo, come invece avviene per la fobia specifica: nella nostra reazione di evitamento ci affidiamo quindi non tanto all’esposizione allo stimolo, quanto alle informazioni che abbiamo disponibili sulla sicurezza dello stimolo (safety).

Nello studio di Bosman e colleghi (2016), è stata testata l’ipotesi relativa all’aggiungere informazioni sulla safety dello stimolo come intervento per favorire l’estinzione della risposta di disgusto. Per far ciò, è stato sviluppato un paradigma di condizionamento in cui dei cibi sono stati accoppiati con video a contenuto disgustoso, apprendendo una risposta condizionata di disgusto. Dopodiché alcuni partecipanti sono stati sottoposti alla visione di video con informazioni sulla safety degli stimoli condizionati (una donna mangia uno dei due cibi e usa il suo telefono mentre l’altro cibo resta esposto vicino a lei). Infine, è stato effettuato un compito comportamentale per verificare il cambiamento in termini di comportamento di approccio/evitamento verso gli stimoli condizionati (Behavioral Approach Task): i due alimenti vengono messi su piatti separati coperti e numerati e viene chiesto ai partecipanti di scoprire il piatto che viene loro indicato e dare un morso al cibo sottostante.

A corroborare la validità dello studio, sono state acquisite misure esplicite di self-report sulla valenza degli stimoli, acquisite durante ciascuna fase del condizionamento. È stata inoltre aggiunta come misura implicita l’attività, misurata tramite elettromiografia, del muscolo levator labii superioris alaeque nasi, specifico per il disgusto, e del corrugatore, associato alle valenza negativa alle emozioni più in generale.
Le misure self-report sono state riacquisite dopo 1 e 7gg per eventuali effetti a lungo termine.

I risultati hanno evidenziato un effettivo apprendimento del disgusto per stimoli precedentemente neutri, riportato sia dalle misure self-report che fisiologiche. L’apprendimento persiste anche nelle misure self-report acquisite nei due follow-up, indicando quindi un possibile apprendimento a lungo termine. Tuttavia, l’estinzione sembra non essere efficace nonostante le varie condizioni sperimentali introdotte per testare l’effetto delle informazioni sulla safety degli stimoli.

Sembra quindi che il disgusto sia effettivamente facile da apprendere, ma difficile da disimparare.

È comunque possibile che le informazioni sulla safety siano state veicolate in modo troppo debole affinché venissero codificate in modo efficace. Inoltre, potrebbe essere necessario considerare l’idea alternativa di introdurre una misura di contatto fisico (Rozin & Fallon, 1987) che potrebbe avere un impatto maggiore rispetto a una mera esposizione visiva.

Questo aspetto è decisamente rilevante se considerato all’interno del trattamento di psicopatologie legate al disgusto, per cui è importante che si continui ad indagare per capire i meccanismi coinvolti ai fini della programmazione di trattamenti riabilitativi.

Bibliografia

Bosman, R. C., Borg, C., & de Jong, P. J. (2016). Optimising extinction of conditioned disgust. PloS one11(2), e0148626.

Rozin, P., & Fallon, A. E. (1987). A perspective on disgust. Psychological review94(1), 23.

Foto di Polina Zimmerman da Pexels