Perdita perinatale, l’attenzione necessaria

di Laura Lippolis

L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino per un aborto spontaneo o per una morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico

Il lutto è una tra le più dolorose esperienze che si possano sperimentare, in quanto costringe inevitabilmente l’individuo a confrontarsi con la perdita irrimediabile di una persona con cui aveva intessuto un legame di attaccamento. Perdere un figlio, un partner, un amico, un genitore o in generale una persona cara, rappresenta un evento di vita che pone l’individuo in una condizione di intenso stress e profondo dolore emotivo. La morte, purtroppo, è una esperienza naturale che la vita stessa ci porta a conoscere. Elaborare la morte di una persona cara è la capacità di riuscire a sopra-vivere, a continuare a vivere nonostante la perdita irrimediabile, a interpretare il terribile evento come un fatto inevitabile, ineludibile, diremmo “normale”. È sicuramente normale, seppur doloroso, assistere alla morte di un genitore, di una persona avanti negli anni… Ma chiedere a un genitore di sopravvivere alla morte di un figlio e specificatamente, proprio durante una esperienza fisiologicamente preposta a dare la vita, appare come un atroce paradosso. Il desiderio di dare alla luce un figlio attraverso una esperienza di gravidanza, spesso può incappare in un vissuto di perdita sia della vita stessa di quel figlio, sia del progetto genitoriale quale investimento su quel figlio. In questo caso gli eventi morte e vita si incrociano: si perde la vita mentre si è impegnati a generare la vita e mentre si compiono atti e sviluppi (si pensi ai cambiamenti che avvengono nel corpo e nella psiche della donna) evoluzionisticamente pensati per prepararsi ad accogliere la vita. Le cause legate all’esperienze di lutto peri-natale posso essere diverse (interruzioni spontanee, volontarie, terapeutiche, morte prematura del feto, diagnosi infausta di terminalità fetale, malformazioni invalidanti, ecc.).  Per molto tempo la società ha minimizzato il dolore della perdita di una gravidanza che è una tra le più dolorose tra le esperienze di lutto. Frasi rassicuranti, ma estremamente invalidanti, del tipo “Bisogna farsene una ragione…” oppure “Avrete presto altri figli, non pensateci più…” sono i consigli che a volte vengono forniti alle coppie che hanno subìto una perdita perinatale e che possono provenire da circuiti domestici, ma anche da ambienti sanitari che risultano a volte impreparati davanti all’evento. La ricerca ha dimostrato come le donne che nella propria storia di vita hanno subìto una perdita in gravidanza soffrano di un livello di stress psicologico più alto rispetto alle donne che non hanno mai subìto una perdita perinatale, con stati mentali caratterizzati da sentimenti di colpa, senso di ingiustizia, percezione di inefficacia del proprio corpo, invidia per gli altri, perdita di speranza e di aspettative riguardo al futuro. L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino a causa di un aborto spontaneo o per morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico, ma nonostante questo, attualmente si osserva una marcata carenza di studi controllati randomizzati in questo campo di ricerca. Questa falla rende difficile un adeguato supporto per un tipo di dolore che non differisce da comuni esperienza di perdita e che ha gli stessi rischi di sviluppare lutti complicati, con in più la possibilità di ricadute sul rapporto con gli altri figli, le gravidanze e i figli che verranno. Infatti,  si è osservato come  il lutto da perdita perinatale possa  minare la genuinità delle prime relazioni di attaccamento tra caregivers e figlio  durante le future gravidanze (mediate dai comuni  gesti di accarezzare la pancia, parlare dolcemente al figlio in grembo, raccontargli delle storie, ecc.) in quanto i genitori possono sperimentare in maniera più intensa ansie e preoccupazioni, entrare in evitamento emotivo, mostrare distacco e freddezza verso il feto, sovrainvestendo nello scopo di non esporsi nuovamente al doloroso rischio di perdita. Si può ben intuire come, nei casi in cui ciò avvenisse, questi comportamenti di evitamento potrebbero rappresentare un importante fattore di rischio per la costruzione dei legami di attaccamento con i figli futuri. Quando invece non sono presenti figli precedenti o ci sono state in passato perdite perinatali, alcuni studi mostrano come l’esperienza abortiva sia associata ad un rischio più alto di ricadute o insorgenza di episodi depressivi. Questi accenni sopra descritti assieme a una considerabile letteratura in merito all’argomento ci interrogano, come clinici, in merito al bisogno di ricerca, prevenzione e terapia.

 

Per approfondimenti

Forrest, G. C., Standish, E., & Baum, J. D. (1982). Support after perinatal death: a study of support and counselling after perinatal bereavement. Br Med J (Clin Res Ed), 285(6353), 1475-1479.Friedman, T., & Gath, D. (1989). The psychiatric consequences of spontaneous abortion. The British Journal of Psychiatry, 155(6), 810-813.

Burden, C., Bradley, S., Storey, C., Ellis, A., Heazell, A. E., Downe, S., … & Siassakos, D. (2016).

From grief, guilt pain and stigma to hope and pride–a systematic review and meta-analysis of mixed-method research of the psychosocial impact of stillbirth. BMC pregnancy and childbirth, 16(1), 1-12.

Michon, B., Balkou, S., Hivon, R., & Cyr, C. (2003). Death of a child: parental perception of grief  intensity–end-of-life and bereavement care. Paediatrics & child health, 8(6), 363-366.Kersting, A., & Wagner, B. (2012). Complicated grief after perinatal loss. Dialogues in clinical 34 neurosciences, 14(2), 187.

 

Foto di Liza Summer:
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Un epitaffio lasciato vuoto

di Giada Di Biase e Federica Iezzi 

La sospensione di un lutto in epoca di Covid-19

In questo momento, la nostra quotidianità appare sospesa, surreale, ci viene richiesto di essere prudenti, possiamo uscire di casa ma solo adottando precauzioni, tra l’indossare mascherine e mantenere il distanziamento sociale. In queste stesse ore in cui si comincia finalmente a parlare di “Fase 2”, in cui fa capolino una “nuova normalità”, le persone continuano a morire.

Prepotentemente il Covid-19 è entrato nelle nostre vite, stravolgendole senza sensi di colpa e portandosi via i nostri cari nel modo più illogico e inaccettabile: in completa solitudine, la stessa che costringe alla lontananza per non essere infettati, quella “protettiva”, utile, per non diffondere il virus, e giusta per non rendersi suoi complici e gravare su una condizione già precaria.
E una campana suona nel paese, che pare quasi fantasma. Si muore da soli. “Un lenzuolo con disinfettante e un minuto per l’addio”: non solo non si possono celebrare i funerali, ma non si può neanche vedere per un’ultima volta coloro che sono andati via. Un saluto silenzioso, di pochi minuti, a qualche metro di distanza, senza poter oltrepassare quella invisibile linea di confine, il pianto. Ci si trova impreparati a elaborare un lutto, sospesi tra dolore e paura.

Coloro che studiano i processi di funzionamento della mente definiscono il lutto come “un evento che minaccia o compromette scopi personali”. Parimenti, il lutto, in psicologia, rappresenta “uno stato psicologico che consegue alla perdita di un oggetto significativo che è stato parte integrante dell’esistenza”. Tale perdita può avere diverse connotazioni, tra le quali viene annoverata la morte di una persona.
Il lutto impatta come fosse granito sulla fluidità della vita, imprime la sua forza attraverso echi gravi e acuti di sentimenti contrastanti. Si assesta su stati mentali che abitano la sofferenza individuale e che finiscono per rivestire di velluto la psiche affinché l’impatto venga attutito.  Così, nell’incredulità, vengono gettate le fondamenta per una modifica generale nel funzionamento dell’individuo, affinché la vita trovi il suo spazio per continuare a fluire.

Seppur l’essere umano possiede competenze necessarie per superare tale evento ed entrare in uno stato di accettazione, che consterebbe di circa 18 mesi, è possibile che esso venga protratto e finisca per divenire patologico qualora la persona rinunci ad accogliere  la sua irrimediabilità. Il lutto si materializza come una ferita aperta, difficile da rimarginare, generata da un “distanziamento” perenne tra le parti e che  fatica, dunque, a cicatrizzare. Il non poter essere stati vicini alla persona scomparsa, il senso di colpa per non aver condiviso con lei gli ultimi momenti della sua vita, il sentirsi egoisti per aver fatto prevaricare l’aura del contagio sul bisogno di viversi pienamente il dolore e prendere consapevolezza che non è possibile poter modificare tale condizione sono solo alcuni dei motivi che riempiono lo spazio della sofferenza nella persona che permane nello stato luttuoso.  A tali motivi si aggiungono ulteriori credenze che s’intrecciano ai dettagli dell’esperienza più intima e personale dell’individuo.

Le prime osservazioni sulla sintomatologia post lutto vennero condotte da Lindermann  nel 1944, unitamente alla descrizione di tre principali stati:

  • Shock e incredulità
  • Cordoglio acuto
  • Risoluzione del processo

La più recente e ancora attuale teoria della psichiatra svizzera Kuble Ross definisce l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso cinque fasi, che possono presentarsi con tempistiche, alternanze e intensità diverse:

  • Fase della negazione o del rifiuto, caratterizzata da una negazione psicotica dell’esame di realtà
  • Fase della rabbia, caratterizzata da ritiro sociale, sensazione di solitudine, necessità di indirizzare il proprio dolore e la colpa verso sé stessi o terzi
  • Fase della contrattazione/patteggiamento, caratterizzata da una rivalutazione delle proprie risorse e da un riappropriarsi dell’esame di realtà
  • Fase della depressione, caratterizzata dalla consapevolezza che il dolore per la morte è personale ma accomuna tutti e che la morte è inevitabile
  • Fase dell’accettazione, caratterizzata dalla totale elaborazione della perdita e dell’accettazione della diversa condizione di vita

In questo contesto, lo stato di accettazione rappresenterebbe un ritorno a una situazione simile al periodo pre-luttuoso, caratterizzato da un miglioramento del tono dell’umore e dalla riduzione delle problematiche psicosociali.
E quando non si va incontro a questa fase di risoluzione?
Il lutto può collocarsi nel versante patologico. Come osservato, si presentano ostacoli invalicabili nell’accettarne l’irrimediabilità, condizione per cui reazioni emotive, sensazioni fisiche, cognizioni e comportamenti dell’individuo si alternano vicendevolmente e minacciano la salute psichica e, con essa, gli scopi personali dell’individuo. È necessario, in questi casi, avviare un percorso di psicoterapia che tenga conto della complessità di tali alterazioni. In tale contesto, nel periodo successivo alla perdita, l’obiettivo è quello di orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi compromessi a favore del raggiungimento di scopi personali perseguibili.
Unitamente agli interventi di terapia cognitivo comportamentale più classici e di “terza onda”, tra cui l’Acceptance Commitment Therapy (ACT) o la Compassion Focused Therapy (CFT), è possibile utilizzare tecniche quali l’EMDR e, ancora, l’intervento di gruppo terapeutico. In particolare, all’interno della relazione terapeutica, è possibile per l’individuo sperimentare quella sensazione di “non essere più solo”, trovando riparo nel “posto sicuro”, luogo terapeutico dove è possibile accettare e affrontare le angosce e i pensieri dolorosi, valutare nuove strategie, pensieri e considerare punti di vista che differiscono da quello condizionato dall’esperienza del lutto.  Questi interventi promuovono il processo di accettazione modificando, al contempo, la tendenza della persona in lutto a isolarsi.

Per concludere, con le parole dello scrittore Julian Barnes: “Il dolore ti rovescia lo stomaco, ti toglie il respiro, riduce l’apporto di sangue al cervello; il lutto sospinge in una direzione nuova”.

Per approfondimenti

Bonanno, G.A., Wortman, C.B., Lehman, D.R., Tweed, R.G., Haring, M., Sonnega, J. et al. (2002. Resilience to loss and cronich grief: a prospective study from pre-loss to 18 months post-loss. Journal of personality and social psychology, 83, 1150-1164.

Galimberti, U. (1999). Psicologia Torino: Garzanti

Perdighe, C., Mancini, F. (2010). Il lutto. Dai miti agli interventi di facilitazione dell’accettazione. Psicobiettivo, 2010, 30, 127-147

La morte (non esiste più)

di Laura Pannunzi

Le “normali” reazioni al lutto e le possibili complicazioni nel processo di accettazione della perdita

Francesco Bianconi, leader della band toscana Baustelle, nel 2013 scriveva un brano intitolato “La Morte non esiste più”. Con poche ed efficientissime parole, il cantautore senese, rivisita l’idea della morte e riassume tematiche profonde come il processo di accettazione di una perdita.
La perdita di una persona cara rappresenta uno di quegli eventi con cui gli esseri umani sono chiamati a confrontarsi nel corso della loro vita e attivano reazioni che gli psicologi potrebbero definire “disfunzionali e/o patologiche”, se non fossero risposte “normali a eventi eccezionali” (che creano, cioè, una frattura nella vita di una persona).
Ne consegue che, a fronte di eventi di vita “soggettivamente” gravi, la sofferenza e il disagio non appaiono criteri necessari per definire “disfunzionali o patologiche” le reazioni emotive e comportamentali dell’individuo che le sperimenta.
Se è vero che la morte è tra gli eventi classificabili come “normali”, è altrettanto vero che anche la reazione alla morte di una persona cara è tra gli eventi naturali e normali con cui ogni persona si confronta inevitabilmente: per ogni persona che muore, ce ne sono tante altre che soffrono e si trovano a fare i conti con quella che per loro è una perdita più o meno significativa.
Va precisato che il lutto in sé non è una patologia e non lo è neanche l’intensa sofferenza per la scomparsa di una persona cara. Entrando nel vivo del tema in un’ottica cognitivista, è possibile affermare che:

  1. il lutto non è un processo/fenomeno unico;
  2. la sofferenza emotiva e l’elaborazione non sono processi sempre presenti né necessari alla risoluzione;
  3. gli esiti patologici sono funzione (non della mancanza di reazioni necessarie) ma di vincoli e di “reazioni di contrasto” delle reazioni personali, ovvero di credenze personali e aspettative o richieste interpersonali che “creano o aumentano la critica verso i propri vissuti in relazione alla perdita” e ostacolano il cambiamento.

Non esistono quindi reazioni normali e obbligatorie al fine dell’accettazione, anche se appare evidente come il lutto sia un evento “scompensante”, che può mandare in crisi il normale funzionamento psicologico di una persona, attivando delle risposte emotive anche molto intense, e che richiede un cambiamento.
Il lutto comporta, quindi, la necessità di accettare una perdita. L’accettazione è un processo che a sua volta, per definizione, implica la tendenza al rifiuto, intendendo con rifiuto il desiderio del soggetto di credere che la perdita non si sia verificata.
In questo senso, accettare significa prendere atto di qualcosa che non si può far altro che accogliere, togliendo all’evento tutte le connotazioni di “problema” (cosa che implicherebbe una soluzione). Le complicazioni del processo di accettazione nascono, infatti, soprattutto dal trattare la perdita come una questione ancora aperta, passibile di cambiamento.
Alcuni tra i fattori che possono ostacolare il processo di accettazione della perdita sono:

a) gravità: tanto più la perdita  è percepita come significativa tanto più compromette la realizzazione di obiettivi esistenziali  fondamentali per l’individuo;
b) mancanza di sostegno sociale: non avere una rete di aiuto significa non avere persone che possano fornire supporto e sostituirsi, almeno parzialmente, alla persona perduta;
c) indisponibilità degli altri a parlare della perdita;
d) atteggiamenti di censura della manifestazione della sofferenza;
e) aspettative interpersonali e sociali su quelle che dovrebbero essere le reazioni e i comportamenti normali da adottare;

Appare importante, infine, sfatare alcuni miti che possono essersi creati attorno al fenomeno del lutto e considerare il processo di accettazione sia come l’insieme di reazioni a un evento di perdita sia l’esito, ovvero la risoluzione o l’adattamento, cioè la riduzione della sofferenza originata dalla perdita e la ripresa di un funzionamento confrontabile a quello pre-perdita. Per concludere con le parole dei Baustelle: “La Morte non è niente se l’angoscia se ne va”.
Per approfondire

Perdighe C., Mancini F. (2010), Il lutto: dai miti agli interventi di facilitazione dell’accettazione. Psicobiettivo, 30, 127- 146.

Lo strazio della scelta

di Daniela Fagliarone

Il lutto nell’interruzione terapeutica di gravidanza

“Cosa c’è di più naturale che avere un figlio per una coppia che si ama?”, “Quanto c’è di più innaturale nel decidere di togliergli la vita?”, “Meglio ora senza che se ne accorga o assistere comunque alla sua morte tra atroci sofferenze?”. Sono solo alcuni degli interrogativi che possono passare nella mente di una donna che deve prendere una decisione terribile: decidere o no di abortire dopo aver saputo che il bambino che aspetta è gravemente malformato o è affetto da una patologia genetica. Nella società odierna, da un lato le viene riconosciuto il diritto di scegliere il come e il quando della propria esperienza affettiva, dall’altro la pesante responsabilità della decisione di dispensare e togliere la vita ricade su di lei. L’aborto rappresenta l’esito di un conflitto insanabile tra due scelte: “Non voglio uccidere una vita” e “Non posso tenere questo figlio”. Un conflitto da cui non si può uscire senza una ferita profonda. Il lutto è una risposta naturale e fisiologica a tutte le situazioni di perdita in cui se ne esprime la sofferenza e il dolore.

La morte precoce di un bambino durante la gravidanza o dopo il parto, sia per aborto spontaneo sia per interruzione terapeutica o volontaria di gravidanza, determina sentimenti di lutto pari agli altri tipi di perdite. Si pensa spesso che una perdita perinatale per scelta non sia seguita da sofferenza emotiva, e quando ciò accade, spesso non è riconosciuta e individuata. Le emozioni sperimentate spaziano tra confusione, dolore, colpa, agitazione e rabbia. La reazione alla perdita spesso include difficoltà temporanee ad affrontare le attività di tutti i giorni, ritiro dalle attività sociali, pensieri intrusivi, sentimenti di apatia e insensibilità e indifferenza agli eventi esterni. Non necessariamente le emozioni ed i diversi passi del lutto avvengono nella stessa sequenza e hanno la stessa intensità e durata per tutti. Il percorso varia da persona a persona, e va da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni, alternando fasi di benessere a ricadute in periodi più dolorosi e difficili. Il lutto è un profondo processo personale che segue un corso abbastanza predicibile, con tipiche fasi quali stordimento, ricerca e struggimento per la persona perduta, disorganizzazione e disperazione e riorganizzazione. La loro alternanza dipende dalle risorse personali, dalla presenza nella propria storia di altre esperienze luttuose, dalla presenza/assenza di risorse sociali, nonché dalla presenza di risorse familiari e di coppia. Per non lasciare conseguenze psicologiche e ferite profonde, il lutto dovrebbe essere lasciato libero di fare il suo corso, trovare spazi di sostegno e di condivisione, essere un momento di svolta e di maturazione personale e non l’espiazione segreta e silenziosa di una colpa per cui non c’è perdono. Il lutto accade nonostante l’aborto sia un evento “scelto”, programmato, non accidentale e, nelle donne e nelle coppie che compiono questa scelta, resta spesso un doppio lutto, di perdita e di scelta di perdita, intimamente vissuto e solo raramente condiviso e condivisibile.
Il dolore si trasforma in un evento traumatico e patologico nel momento in cui non si è capaci o non è possibile esprimere in maniera aperta la rabbia e la tristezza. Per elaborare il lutto è fondamentale accettare l’esperienza vissuta, accettare la sofferenza che ne consegue. Non si tratta di razionalizzare l’evento, ma di stare con il dolore mentale, viverlo e tenerlo accanto senza esserne sopraffatti. Eliminare totalmente il dolore, cercando di non provare più alcuna emozione negativa o razionalizzando, contribuisce a complicare il lutto. Rielaborare un aborto non è dimenticare, è far sì che una ferita profonda diventi accompagnatoria, ossia che il figlio, o i figli, che non sono più in vita, diventino una presenza non persecutoria e fonte di sofferenza, bensì una presenza che accompagna la vita successiva della donna.

Per approfondimenti:

Cantelmi T., Cacace C. (2008) Aborto Volontario e salute mentale della donna: una review della letteratura internazionale, Google Scholar, Studia Bioethica,1(2): 1-13

Di Stefano R. (2013). L’interruzione volontaria di gravidanza. Psicoterapeuti in formazione, 12: 53-93.

Righetti P.L. (a cura di), (2010) Gravidanza e contesti psicopatologici. Dalla teoria agli strumenti di intervento, Franco Angeli, Milano.

Il lutto in adolescenza: quale supporto offrire?

di Giulia Panarelli

“Il dolore è ancor più dolore se tace” Giovanni Pascoli

L’adolescenza è una fase di vita molto complicata che, come afferma la psicologa e psicoterapeuta Anna Rita Verardo, è caratterizzata da “cambiamenti che coinvolgono il corpo, la sessualità, l’identità e il modo di percepire sé e gli altri”. Non si è più bambini, ma neanche maturi. Il genitore viene spogliato dell’idealizzazione precedente e il ragazzo sente forti spinte all’autonomia, ma nello stesso tempo prova ancora un forte senso di bisogno e dipendenza verso i genitori. L’adolescenza rappresenta così un periodo pieno di contraddizioni, insicurezze, instabilità e spesso fragilità dell’identità. Per questo, l’adolescente è spesso rabbioso. Quella rabbia diffusa e improvvisa che il genitore è chiamato a fronteggiare quotidianamente e lo esaspera perché non la comprende, gli appare irrazionale e immotivata. In adolescenza, inoltre, la consapevolezza che sta emergendo fa comprendere appieno cosa sia la morte e per questo motivo la perdita di una persona cara, a maggior ragione se essa sia un genitore, incide notevolmente sullo sviluppo psicologico ed emotivo. “Nel caso del lutto, infatti, l’adolescente deve combinare il processo di cambiamento evolutivo con quello relativo alla perdita della persona cara”, aggiunge Verardo. Tale processo può risultare molto complicato e può creare scompensi, aumentando la fragilità e la vulnerabilità. Quando il lutto avviene in adolescenza, bisogna prestare molta attenzione ai segnali che i ragazzi esprimono non sempre esplicitamente. Leggi tutto “Il lutto in adolescenza: quale supporto offrire?”

Il lutto nell’infanzia: quale supporto offrire?

di Giulia Panarelli

Una perdita significativa segna l’inizio di una vita diversa per i sopravvissuti”. Anna Rita Verardo

Anche se è una parte naturale della vita, il lutto rappresenta sempre un’esperienza particolarmente difficile da affrontare che cambierà inevitabilmente e radicalmente il modo di vivere, sentire e pensare. Se vissuto in fase precoce o in adolescenza, ha un peso emotivo maggiore, soprattutto se chi viene a mancare è il genitore. Supportare un bambino o un adolescente che vive un lutto genera sempre molta incertezza, preoccupazione e paura. Inoltre, se si sta vivendo per primi una perdita, è difficile occuparsi del dolore del bambino o del ragazzo, offrendogli conforto e vicinanza. È importante, dunque, avere una buona rete familiare o degli amici su cui ci si possa appoggiare, seguire alcune indicazioni e, in alcuni casi, chiedere aiuto a uno psicologo. Di frequente, invece, accade che convinzioni errate su questo tema inducano a compiere azioni che rallentano o ostacolano il processo di elaborazione del lutto e possono avere effetti negativi sullo sviluppo evolutivo. Sono da evitare comportamenti come: nascondere la verità, non dire subito che la persona è deceduta, non far “salutare” il defunto; se la perdita è successiva a una malattia, non preparare il bambino o il ragazzo alla morte del proprio caro; non nominare mai il defunto; non farsi vedere tristi e non mostrare la propria fragilità.

Il percorso di elaborazione del lutto tra adulti, bambini, adolescenti, è simile, ma non uguale. Il bambino manifesta il lutto attraverso sentimenti intensi, ma con tempi brevi di elaborazione, poiché si difende dal dolore distogliendo il pensiero dalla perdita e distaccandosi dalla realtà dolorosa. La perdita di una persona cara compromette il senso di sicurezza del bambino, generando ansia e paura. Leggi tutto “Il lutto nell’infanzia: quale supporto offrire?”