Ordine naturale e sofferenza mentale

di Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini

Stoicismo, buddhismo e credenze sul funzionamento della natura: una via verso l’accettazione radicale

Quale legame esiste tra le credenze che un individuo ha sul funzionamento e la giustizia etica della realtà e la sua condizione di benessere (o sofferenza) mentale? In un articolo appena pubblicato su Cognitivismo Clinico, Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini fanno il punto sull’argomento, evidenziando come tali credenze, che danno origine nella mente umana a precise aspettative sugli stati del mondo – possibili (ordine naturale fattuale), giusti (ordine naturale etico) e utili (ordine naturale utilitaristico) – siano effettivamente in grado di modulare le convinzioni circa il valore e la perseguibilità degli scopi e dunque di agire, in accordo con modello cibernetico del purposive behaviour, su tutti i fattori che influenzano l’accettazione della sofferenza psicologica (entità e credibilità degli scopi, investimento, meccanismi ricorsivi).

Dopo aver chiarito il ruolo dell’ordine naturale nel promuovere il benessere psicologico o, al contrario, nel favorire la sofferenza, gli autori prendono in esame una forma particolarmente radicale di accettazione, l’amor fati della filosofia antica, rivisitandola in chiave cognitivista e mostrando come essa, a differenza di quanto accade nella accettazione comunemente intesa – in cui il processo di accettazione termina con la cessazione degli investimenti sugli scopi irrimediabilmente compromessi (lasciando dunque la possibilità di un “residuo” di sofferenza da “rassegnazione”) – miri a realizzare una condizione di annullamento completo e definitivo della sofferenza mentale.

Secondo gli autori, l’analisi degli insegnamenti di due grandi scuole di pensiero, lo stoicismo di Marco Aurelio e il buddhismo antico, opportunamente “tradotti” in senso cognitivista, attesta che, alla base di entrambi questi sistemi di pensiero, vi è proprio il concetto di ordine naturale fattuale.

La retta comprensione delle leggi che regolano la natura (il Logos stoico, il Dharma buddhista), da conseguirsi attraverso l’impiego di specifici esercizi cognitivi ed esperienziali, consente all’essere umano di ristrutturare le proprie credenze sul valore, etico e utilitaristico, dei fatti esistenziali (il lutto, la malattia, il successo, l’abbandono, ecc.) e di collocarsi in una condizione di assenza di sofferenza che, almeno teoricamente, è generale e permanente: l’individuo non soffre, qualsiasi cosa accada, perché tutto ciò che succede è compatibile con il suo schema di funzionamento della realtà e non può compromettere o minacciare alcuno scopo dotato di valore utilitaristico o normativo.

Una parte importante dell’articolo è dedicata proprio all’analisi degli esercizi “spirituali” proposti da stoicismo e buddhismo; gli autori mettono in luce i meccanismi cognitivi attraverso cui tali pratiche incidono sull’assetto scopistico dell’individuo e sulle cause della sofferenza mentale e, aspetto particolarmente interessante, mostrano come, alla luce del concetto di ordine naturale, esse acquistino un senso alquanto differente da quello comunemente loro attribuito dagli approcci psicoterapeutici contemporanei.

È il caso, ad esempio, degli esercizi di mindfulness, tanto di moda oggi nella pratica psicologica e psicoterapeutica, che, a giudizio degli autori, corrisponderebbero solo in parte alle pratiche di visione profonda (vipassana) del buddhismo antico, alle quali vengono solitamente ricondotte; mentre la mindfulness, secondo gli autori, serve essenzialmente a promuovere la defusione, le meditazioni vipassana del buddhismo originario, presupponendo, diversamente dalla mindfulness, pratiche molto spinte di concentrazione meditativa, assolvevano probabilmente a un compito cognitivo estremamente più significativo, quello di indurre la comprensione diretta, esperienziale dell’ordine naturale fattuale delle cose e, conseguentemente, di promuovere la completa ridefinizione degli scopi e degli investimenti personali.

Per approfondimenti

Carlo E., Brasini M., Giacomantonio M., & Mancini F. (2021). Accettazione, amor fati e ordine naturale: una prospettiva cognitivista. Cognitivismo clinico 18, 1, 67-86.

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L’epistemologia della Psicologia Clinica

Recensione di Maurizio Brasini

Prospettive teoriche e metodologiche nel libro di Stefano Blasi

Definire lo statuto scientifico della psicologia è da sempre una questione complessa, data la contraddizione insanabile tra la natura intangibile e “spirituale” dell’oggetto di indagine, e l’aspirazione a sviluppare su di esso un discorso che lo riconduca nell’alveo delle scienze naturali. Nel caso della psicologia clinica, questa dialettica si fa ancor più spinosa, poiché la clinica è l’arte di applicare la conoscenza medica alla cura del caso singolo. Così, scienza della natura e dello spirito si incontrano e tendono a confliggere quando si tratta di definire una teoria della conoscenza ed un metodo propri per la psicologia clinica e, se da una parte si fa sentire la tendenza, quasi la tentazione, di adagiare la psicologia clinica nel letto di Procuste delle altre scienze mediche, d’altro canto si tende ad invocare uno “statuto speciale” per questa disciplina che la liberi dai vincoli a cui deve necessariamente attenersi ogni sapere che voglia accreditarsi come scientifico.

Coraggio e curiosità sono le due principali doti che, a parere di chi scrive, hanno animato il curatore del libro “L’epistemologia della Psicologia Clinica – Prospettive teoriche e metodologiche” di Stefano Blasi (Psicologo, Psicoterapeuta, docente presso numerose scuole di psicoterapia per medici e psicologi e presso l’Università di Urbino “Carlo Bo” dove svolge anche attività di ricerca), nell’impresa di riunire oltre 20 tra i più significativi studiosi del campo della psicologia clinica Italiana attorno ad un argomento così denso di implicazioni e, ammettiamolo, così scomodo in particolare per chi della clinica ha fatto una professione. Nel volume, pubblicato di recente da Giovanni Fioriti Editore, Blasi parte da una serie di domande tanto fondamentali quanto imbarazzanti sulla scientificità della conoscenza su cui basiamo la nostra pratica clinica, ciascuna delle quali ricorda la storiella zen del millepiedi che, soffermandosi a riflettere su come faccia a camminare coordinando mirabilmente i suoi numerosissimi arti, finisce per non riuscire più a muovere neppure un passo. Perché esistono così tante “scuole” di psicoterapia? Su quali prove di efficacia basiamo la nostra pratica clinica, e sulla base di quali metodi di indagine? In che modo e fino a che punto è possibile misurare i costrutti psicologici su cui poggiano le nostre teorie? Quale ruolo riveste la tecnica nell’agire terapeutico? E quale spazio va riservato all’esperienza individuale, alla soggettività e all’unicità dell’incontro tra paziente e terapeuta? La disamina di queste ed altre questioni apparentemente filosofiche, ma con ricadute evidenti e molto concrete sulla pratica clinica, ha dato come risultato il volume che, con modestia, Blasi afferma che avrebbe voluto leggere da studente, e che anima anche nel lettore lo stesso appassionato desiderio di comprensione e di approfondimento.

Nella prima parte del volume si affrontano alcune delle principali controversie epistemologiche e metodologiche in psicologia clinica, con i contributi di Franco del Corno, Cesare Scandellari, Margherita Lang e Santo di Nuovo.

La seconda parte è dedicata ad un vivace dibattito sulla psicoterapia tra modello medico e modello sperimentale, sviluppato a partire dai contributi di Paolo Migone, Lucio Sibilia, Riccardo Sartori, Aristide Saggino e Marco Tommasi.

Nella terza parte si affronta il tema del dialogo tra la psicologia clinica e le altre scienze attraverso i contributi di Silvano Tagliagambe, Marco Casonato, Omar Gelo e Gloria Lagetto, e Giovanni Liotti (con quello che probabilmente è uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato postumo).

La quarta parte affronta il dibattito sulla scientificità e sull’efficacia della psicanalisi, con i contributi di Dario Antiseri, Alfredo Civita, Vittorio Lingiardi e Maria Ponsi, Antonello Colli, Rosita Ricci e Giulia Gagliardini.

Nella quinta ed ultima parte si parla della psicologia clinica come scienza dell’esperienza, tra fenomenologia, costruttivismo e terapia cognitiva, grazie ai contributi di Maria Armezzani, Gabrele Chiari e Stefano Tempestini, Sergio Salvatore e Ruggero Andrisano Ruggieri, e Silvio Lenzi.

Un’ultima nota di merito va espressa nei confronti dell’editore Giovanni Fioriti il quale, in un’epoca dominata dai manuali pronto-uso che rispondono alla sempre crescente richiesta di tecniche e protocolli, compie un’operazione di notevole valore culturale nell’offrire spazio ad un testo che ritorna a far riflettere su teorie e metodi della conoscenza in ambito clinico, cioè proprio su quel terreno a partire dal quale è fiorita la stagione migliore della psicologia clinica Italiana.

Chi si accontenta gode. È vero?

di Maurizio Brasini

Oppure, come canta Ligabue, ”chi si accontenta gode così così”? Tutto dipende da cosa intendiamo per accontentarci

Apparentemente, l’idea che chi si accontenta poi è soddisfatto/contento è una verità tautologica. In realtà è diverso essere soddisfatti/contenti, una condizione di fatto che possiamo raggiungere senza alcuno sforzo, ad esempio perché la nostra squadra del cuore vince una partita, e accontentarsi, che implica, invece, il dover fare qualcosa, adattare il nostro stato d’animo agli avvenimenti in modo tale da essere contenti, per esempio se la squadra del cuore non ha vinto ma io posso pensare che comunque ha giocato bene. Questo è accontentarsi. Ma è un bene o un male?

Partiamo dal significato della parola. “Contento” deriva dal latino contentus, ovvero “contenuto”, e quindi rimanda all’idea di contenere o contenersi, vale a dire di rimanere entro certi limiti, non spingersi oltre, suggerendo un’idea di moderazione, di limitazione delle proprie aspettative e aspirazioni. Questa è la prima accezione di accontentarsi, quella più moraleggiante, a cui rimanda il proverbio: gode davvero chi non cede al peccato capitale dell’avarizia (brama insaziabile di cose materiali) o anche della gola o della lussuria.

Nella Divina Commedia, l’esempio illuminante dell’incontinenza sono Paolo e Francesca: peccatori per i quali è previsto che “men crucciata / la divina vendetta li martelli” (Inferno, Canto XI, vv. 89-90). Non a caso Dante, in accordo con la morale aristotelica, ci invita a un comprensivo moto di pietà verso i due amanti; lo fa perché si intende meno grave il loro peccato, che consiste nel non aver saputo “frenare e mantenere entro i limiti dell’onesto e del giusto, la volontà eccitata dalle passioni nell’ordine d’istinti e di appetiti naturali e quindi per sé stessi, se mantenuti con moderazione, sani e legittimi” (Encicolpedia Dantesca Treccani). L’incontinenza è dunque amore mal indirizzato.

In senso psicologico, contenere significa saper “reggere”, sostenere e tollerare alcuni stati mentali o emotivi. Il contenimento è quella funzione che fin dai primi mesi di vita svolge chi si prende cura di noi, nell’aiutarci a tollerare in particolare le condizioni di disagio, e più in generale tutti quegli aspetti della realtà che non sappiamo fronteggiare. Generalmente gli stati d’animo sono il centro di questa operazione di contenimento, e la relazione con la madre insegna al bambino a “reggere” i suoi stessi stati d’animo: che si tratti di una paura, o di un dolore o anche di una gioia incontenibile, la relazione ha una funzione di contenimento, cioè consente di tollerare ciò che accade e gli effetti emotivi che provoca. Pian piano, col tempo, il bambino impara a svolgere questa funzione in modo autonomo, vale a dire a “contenersi” da solo.

In questo senso, sapersi accontentare significa appunto essere capaci di contenersi, di fare da argine alle proprie reazioni emotive di fronte alla realtà. Se la mia squadra del cuore perde, io posso imparare a tollerare la delusione e la rabbia, e a considerare gli aspetti positivi di questo evento per me sfavorevole o comunque a non lasciarmene travolgere.

Torniamo all’accontentarsi nella sua accezione più comune, inteso come farsi bastare ciò che si ha, accettare la distanza tra i nostri desideri, aspettative, aspirazioni e la realtà. Per esempio, vorrei avere i soldi per andare a sciare nel weekend, ma in realtà ho i soldi sufficienti per un cinema e una pizza. Quello che posso avere, dal mio punto di vista, è di meno di ciò che vorrei. Che cosa è meglio fare? Mi accontento?

Qui entra in gioco una questione interessante e ben nota: la questione dell’uovo oggi e della gallina domani. Prendete un bambino e mettetegli davanti un dolcetto. Poi avvisatelo che state per uscire dalla stanza, che tornerete presto, e che se al vostro ritorno non avrà mangiato il dolcetto potrà averne altri due. Il bambino si ritroverà da solo con un cioccolatino a portata di mano, sapendo che se resiste alla tentazione di mangiarselo subito, a breve potrà averne tre al posto di uno solo. Questo semplice test, che gli americani chiamano “marshmallow test”, misura efficacemente la capacità di “contenersi”, di tollerare le frustrazioni e regolare gli impulsi che spingono alla soddisfazione immediata del bisogno in vista di una maggiore soddisfazione in futuro. Tornando all’uovo e alla gallina, se riesco a rinunciare all’uovo oggi anche se ho fame, posso puntare ad ottenere la gallina domani. La cosa più interessante è che il marshmallow test si è dimostrato una misura affidabile delle probabilità di successo nella vita.

Ora, se accontentarci significa mangiare il dolcetto subito (o l’uovo oggi), allora ha ragione Ligabue nella canzone “Certe notti”: saremo soddisfatti così e così. Ma questa idea di accontentarsi è molto vicina a rinunciare. Se invece accontentarci significa saper contenere noi stessi, accettare la scomoda situazione di avere davanti un dolcetto (o un uovo) che ci fa gola ma scegliere di non mangiarlo e tollerare questa scomoda circostanza in vista di un obiettivo ancora di là da venire, allora è vero che chi si contenta gode.

In altre parole, accontentarsi non significa rinunciare, ma saper accettare i limiti imposti dalla realtà, tollerando disagi e frustrazioni. Questo può aiutarci a mantenere vivi i nostri obiettivi e a perseguirli con impegno. Accontentarsi allora diventa il primo requisito per avere successo e soddisfazione, perché ci consente di indirizzare efficacemente il nostro entusiasmo, che è una forma d’amore, è scintilla divina.

Il cervello si adatta alla disonestà

di Rossana Otera
a cura di Maurizio Brasini

È esperienza comune che le persone confessino di essersi confrontate in passato con decisioni per cui avevano scelto di essere disoneste, seppur per azioni di poco conto, come viaggiare sull’autobus senza biglietto o dire piccole bugie nelle relazioni interpersonali. Il rischio è che gradualmente si allentino le remore che ci trattengono dall’agire fuori dalle regole socialmente condivise e così, quelle che in un primo momento possono sembrare piccole deviazioni dalla norma, finiscono per essere accettate anche quando portano a conseguenze più gravi, in una sorta di assuefazione alla corruzione morale. Questo comportamento è stato spiegato scientificamente, grazie a una ricerca condotta da un gruppo di studiosi di Londra, che hanno analizzato le basi neuroanatomiche dell’agire disonesto e forniscono specifiche indicazioni per anticiparlo.
Abitualmente, quando agiamo in maniera disonesta per trarne un vantaggio personale, percepiamo una situazione di disagio, causata da specifici segnali fisiologici e chimici, che accompagnano l’arousal neurovegetativo, provenienti dall’amigdala, il centro emotivo del sistema nervoso.
Un’evidenza emersa dalla ricerca dimostra come però, al ripetersi di azioni disoneste, l’amigdala gradualmente blocchi i recettori chimici che causano il disagio, per cui è come se si adattasse ai comportamenti che normalmente indurrebbero una reazione di avversione.
Nel disegno sperimentale sono state create, in maniera artificiosa, le condizioni per cui i partecipanti potessero compiere azioni disoneste, senza doverlo dichiarare esplicitamente. La prova richiedeva ai soggetti di fornire una stima a un secondo partecipante, complice degli sperimentatori, di quante monetine fossero contenute in un vaso e, in base alla correttezza della risposta, avrebbero ricevuto un compenso. I soggetti sperimentali venivano posti in condizione di poter indurre in errore l’altro partecipante; in un caso, l’inganno sarebbe andato a loro vantaggio, in un altro avrebbe favorito il complice.
Aumentando le trasgressioni perpetrate dai soggetti, si è riscontrata con la risonanza magnetica funzionale, una riduzione della saturazione di ossigeno nel sangue a livello dell’amigdala, segno di un adattamento alla condotta sleale; sulla base del livello di disonestà agita, i ricercatori erano in grado di prevedere l’entità della trasgressione nelle prove successive.
Un’altra evidenza significativa è che la disonestà andava incontro a un’escalation solo quando era “self-serving”, a proprio beneficio, rispetto a quando ne avrebbe tratto vantaggio l’altra parte, o rispetto alla condizione in cui ne sarebbe derivato un danno personale.
Quindi non è sufficiente che si ripeta un atto disonesto perché questo di per sé aumenti nel tempo, bensì è necessario che l’azione disonesta causi un vantaggio personale e non a terzi.
È da precisare che, nei contesti reali, altre variabili giocano un ruolo rilevante nel ricorso alle azioni disoneste, come la presenza di feedback esterni, di premi/punizioni e dell’opportunità di agire disonestamente, ma occorre considerare soprattutto la motivazione sottesa all’atto disonesto, ovvero gli scopi dell’agente e l’utilità percepita dell’illecito.
L’escalation documentata in questa ricerca potrebbe preoccupare, in quanto prospetta la possibilità che, a partire da piccole menzogne, si possa arrivare con relativa facilità ad assumere comportamenti esponenzialmente rischiosi se non, addirittura, criminosi.
Questo studio, dunque, solleva riflessioni sulle responsabilità delle diverse istituzioni educative e politiche perché concepiscano sistemi deterrenti, che impediscano e anticipino il graduale coinvolgimento in azioni disoneste da parte degli agenti sociali.

Un simposio sulla felicità

di Maurizio Brasini

Dalla tradizione edonica a una prospettiva eudaimonica del benessere

Una riflessione cruciale sul rapporto tra felicità e virtù ha dato inizio al simposio proposto dalla dr.ssa Claudia Perdighe durante l’ultimo congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) a Verona. Se in una prospettiva clinica generalmente ci si concentra sull’eliminazione della sofferenza e nella tradizione psicodinamica si insiste sul conflitto tra la ricerca del piacere e i limiti imposti dalla realtà (morale compresa), esiste una solida tradizione filosofica secondo la quale la felicità invece coincide con la virtù.
I risultati preliminari dello studio della Perdighe, esposti nella sua relazione, mostrano che impegnarsi in azioni che corrispondono ai propri valori morali aumenta il senso di benessere, più che dedicarsi ad atti di altruismo o ad attività di svago.
La dr.ssa Marzia Albanese ha presentato, inoltre,  una ricerca svolta su un ampio campione internazionale, volta a indagare il rapporto tra la felicità (intesa come distanza percepita tra uno stato desiderato e la propria condizione attuale) e la soddisfazione rispetto ai propri standard morali, suddivisi in aspetti prosociali (l’altruismo) e aspetti più squisitamente morali (l’adesione ai principi morali): i risultati confermano che sentirsi in linea con i propri valori influisce positivamente sulla felicità.
La dr.ssa Teresa Cosentino ha aggiunto una riflessione sull’assertività, come strumento terapeutico che consente di creare le condizioni affinché il paziente riesca a vivere la propria esistenza in linea con le proprie preferenze, valori e scopi. In particolare, ha evidenziato come l’assertività non sia semplicemente un metodo per “farsi valere” né tantomeno per imporsi o avere successo, ma un modo per conquistare la propria autonomia attraverso una disciplina alla responsabilità e alla negoziazione.
La dr.ssa Caterina Villirillo, infine, si è soffermata sulla felicità in età evolutiva. Attraverso una rassegna degli studi sull’argomento, ha individuato alcuni fattori comuni che incidono sulla felicità nei bambini e negli adolescenti: oltre a un effetto generico e trasversale della socializzazione (avere rapporti soddisfacenti con gli altri), si può notare uno spostamento da aspetti più concretamente legati al piacere/divertimento nei bambini più piccoli, verso aspetti più valoriali in adolescenza. Una progressione, in altri termini, da una prospettiva più edonica verso una prospettiva più eudaimonica. Inoltre, la sensazione di essere riconosciuti come individui e la conquista dell’autonomia sono, a tutte le età, fondamentali per la felicità.
Nell’insieme, questo simposio invita a un cambiamento di prospettiva con importanti ricadute sulla clinica. A parere di chi scrive, la dr.ssa Perdighe e i suoi collaboratori hanno individuato una dimensione differente da quelle più comunemente adottate per orientarsi con pazienti: dolore/piacere o malessere/benessere o persino tristezza/felicità. Perché la felicità eudaimonica, di cui ci parlano queste riflessioni, somiglia molto alla gioia e la strada che ci invitano a perseguire è quella dell’autonomia intesa come capacità di accettazione, impegno costante e azione responsabile che restituisce senso e valore alla vita delle persone.

Sentirsi alla pari

di Chiara Casali, Francesca Mira e Maurizio Brasini

Il miglior modo di incentivare la prosocialità

“Fairness is a more effective interpersonal motive than care for sustaining prosocial behaviour” [link]. In questo recente studio, condotto dal gruppo di ricerca della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC), sono stati adottati i metodi e la cornice teorica di riferimento della psicologia sociale per affrontare un tema fondamentale anche per la psicoterapia: quali motivazioni conviene promuovere per stabilire una solida relazione di alleanza? Meglio far uso di motivazioni squisitamente altruistiche, basate sull’empatia e sulla sollecitudine verso i bisogni dell’altro, o di motivazioni collaborative, basate sul senso di equità e di reciprocità? Una precedente ricerca comparsa su Nature [link] ha mostrato che è possibile distinguere funzionalmente i circuiti neurali attivi nei comportamenti prosociali (cioè orientati a vantaggio degli altri) basati sull’empatia da quelli basati su equità e reciprocità; inoltre, i circuiti basati su motivazioni di reciprocità risultavano più “evoluti” di quelli basati sull’empatia; infine, l’induzione di motivazioni empatiche aumentava i comportamenti pro-sociali nei soggetti con un orientamento di base più “egoista” mentre l’induzione di motivazioni orientate alla reciprocità era particolarmente efficace sui soggetti con un orientamento più prosociale. Nel presente esperimento, è stato adottato il paradigma del Dictator Game (DG), per cui i partecipanti dovevano decidere quale parte di una somma di 30 euro concedere a un (fittizio) altro partecipante in due differenti situazioni-tipo: in una bisognava dividersi una vincita, nell’altra ripartire una spesa (ripagare un danno). Nelle due diverse situazioni, l’altro poteva mostrarsi “egoista” (ad esempio dichiarandosi intenzionato a tenersi tutta la vincita), oppure equo (ad esempio proponendo di dividere a metà), oppure altruista (ad esempio offrendo l’intera vincita all’altro); in ogni caso, la decisione finale sarebbe spettata ai partecipanti. In aggiunta, per ciascuna decisione presa sono state considerate le motivazioni sottese, in particolare le motivazioni alla cura (care) e all’equità (fairness). Si è osservato che, nella condizione in cui bisogna suddividere un costo, quando l’altro si mostra altruista, i soggetti a orientamento più “egoista” tendono a ridurre la somma elargita, come se accettassero la generosità altrui o ne approfittassero. In questa condizione più critica, l’analisi delle motivazioni mostra che solo una mentalità orientata all’equità e alla reciprocità è in grado di sostenere un’equa ripartizione di un costo con una persona che si mostra altruista. Questi risultati sono in linea con la teoria dello psichiatra Giovanni Liotti, secondo il quale, in chiave evoluzionista, il senso di equità, che è una caratteristica distintiva del sistema motivazionale della collaborazione tra pari, fornisce un contesto interpersonale più favorevole al mantenimento di un assetto prosociale rispetto all’altruismo basato sull’empatia, che è invece indicativo di motivazioni di accudimento e invita l’altro a rispondere in termini di attaccamento (lasciarsi accudire) oppure di rango (impossessarsi di una risorsa limitata quando l’altro lo consente). Per concludere, cosa ci dicono questi risultati riguardo l’alleanza terapeutica e, in particolare, i momenti di rottura della relazione? Da una parte che in questi momenti risulta più difficile mantenere una mentalità prosociale, di condivisione e dall’altra che il senso di equità, e quindi il sistema motivazionale collaborativo-paritetico, è più efficace nel mantenere un comportamento di prosociale rispetto all’altruismo e quindi rispetto al sistema motivazionale dell’accudimento, in cui chi è oggetto dell’accudimento può esimersi dal sostenere un costo e dall’impegnare le sue risorse.

Che cos’è la commozione? Un’ipotesi cognitivo-evoluzionista

di Maurizio Brasini

La compartecipazione e la condivisione del significato dell’esperienza soggettiva. Un’opportunità di incontrare anche noi stessi: la commozione annuncia un’occasione di “sintesi personale”
Partiamo da una definizione di commozione (dal lat. muovere con, muovere insieme): è un sentimento intenso benevolo e amorevole di compassione, tenerezza, pietà o ammirazione, che può suscitare il pianto. La peculiarità della commozione è che le lacrime possono affiorare anche in situazioni che non sono tristi o dolorose. A volte, abbiamo gli occhi lucidi per la gioia o proviamo un sentimento misto di tristezza e felicità. Spesso, infatti, non sappiamo distinguere perché stiamo piangendo.
Se è vero che si piange quando si soffre o quando condividiamo empaticamente la sofferenza di qualcun altro, perché mai ci commuoviamo anche osservando qualcuno che sta bene o che è felice? Perché sentiamo un fondo di contentezza mentre ci si inumidiscono gli occhi?
Bisogna tenere presente che, fin dalla nascita, è parte della nostra natura ricercare la vicinanza protettiva dei nostri simili quando versiamo in condizioni di bisogno, ad esempio quando abbiamo paura, o proviamo un qualche tipo di sofferenza sia fisica sia emotiva. Questa propensione si chiama “attaccamento” ed è presente in tutte le specie che si prendono cura della prole. Il pianto è un comportamento innato che serve come segnale per i nostri simili, una specie di messaggio universale che significa: “Stammi vicino”. Leggi tutto “Che cos’è la commozione? Un’ipotesi cognitivo-evoluzionista”

Ciclo di Seminari: "Gli Approcci Terapeutici di Nuova Generazione"

di Maurizio Brasini

Il ciclo di seminari si è svolto dal 14 al 28 Gennaio 2016 presso l’Università degli Studi de L’Aquila, Dipartimento Mesva, Area Psicologia. Hanno partecipato come relatori i seguenti docenti e didatti APC-SPC (in ordine alfabetico): Barbara Basile, Barbara Barcaccia, Carlo Buonanno, Katia Tenore, Roberta Trincas.

Quando abbiamo deciso di proporre questo ciclo di seminari, l’intento comune che ci ha animati era di portare ai nostri giovani futuri colleghi, studenti di Psicologia, una visione aggiornata e al tempo stesso unitaria della psicoterapia cognitiva. Leggi tutto “Ciclo di Seminari: "Gli Approcci Terapeutici di Nuova Generazione"”