E se domani: i rimpianti del sé

di Niccolò Varrucciu

I rimpianti più duraturi derivano da discrepanze tra il sé reale e quello ideale e fra il sé reale e quello dovuto

Una recente ricerca sulle caratteristiche strutturali dei rimpianti delle persone ha evidenziato che quelli più duraturi riguardano l’aver agito o omesso di agire.
Rispetto alla loro connessione al concetto di sé, studi recenti hanno dimostrato come i rimpianti più duraturi della gente derivino più spesso da discrepanze tra il loro sé reale e quello ideale e fra il sé reale e quello dovuto.
Questa asimmetria sarebbe spiegata, almeno in parte, dalle differenze nel modo in cui le persone affrontano il rimpianto. Generalmente le persone sono più veloci ad affrontare i fallimenti inerenti ai propri doveri e alle proprie responsabilità (i propri rimpianti), piuttosto che quelli nel perseguire i loro obiettivi e le loro aspirazioni (rimpianti legati al sé ideale). Di conseguenza, i rimpianti relativi al sé ideale hanno più probabilità di rimanere irrisolti, lasciando le persone più propense a rimpiangere di non essere tutto ciò che avrebbero potuto essere.
Tutti hanno rimpianti: nel senso comune immaginiamo che i rimpianti principali ruotino attorno agli errori che pensiamo di aver fatto, come pentirsi di aver annullato il proprio matrimonio, di aver spostato la persona sbagliata. Forse vorremmo lasciare il lavoro e trasferirci in un altro “mondo”, per vivere una vita diversa, ma l’idea che possano essere scelte sbagliate ci impedisce di agire.
Un recentissimo studio pubblicato sulla rivista Emotion e intitolato “The Ideal Road Not Taken” indica che le persone non si pentono tanto di quelle scelte che hanno compiuto: sono piuttosto quelle che non hanno compiuto che possono rimanere irrisolte.
In questo studio, sono stati identificati tre elementi che costituirebbero il senso di sé di una persona: il sé reale, cioè le qualità che si crede di possedere, il sé ideale, cioè le qualità che si desidera avere e il sé “dovuto”, ossia la persona che, in base alle credenze e alle responsabilità personali, si pensa sia “opportuno” essere.
I risultati dell’indagine hanno mostrato un dato estremamente interessante: il 76% dei partecipanti alla ricerca, ai quali è stata sottoposta la differenza fra i tre sé, ha affermato di non essere soddisfatto del proprio sé ideale.
Ciò indica che le persone potrebbero avere un’idea inesatta di cosa rimpiangeranno e cercheranno di evitarlo in un modo scarsamente funzionale.
Molte persone pensano, infatti, di poter avere una vita soddisfacente (e alcuni sicuramente ce l’hanno) se ligi alle loro regole: quindi si impegnano nel fare le cose che la società si aspetta da loro, come sposarsi o fare un figlio al momento opportuno o guadagnare abbastanza per pagare tutti i conti.
Questo studio dimostrerebbe come, sebbene possano essere valori importanti per alcune persone, queste azioni siano legate al sé “dovuto” e che, in caso di fallimento, sembrerebbero portare a rimpianti limitati o comunque risolvibili in tempi relativamente brevi.
Quello che davvero farebbe soffrire le persone in modo prolungato sono i fallimenti rispetto ai sogni e alle aspirazioni (rimpianti legati al sé ideale): le persone sono più propense a lasciarli semplicemente andare alla deriva e questo è ciò che realmente induce sofferenza nel corso nella vita.
Lo studio prosegue evidenziando come le persone dovrebbero cercare di diventare ciò che veramente vorrebbero, seguendo il loro sé ideale.
I risultati, infine, indicano che non è sufficiente incoraggiare le persone a “fare la cosa giusta”: dobbiamo rimarcare l’importanza delle speranze e dei sogni, oltre alla pericolosità del lasciarli fuori dalla porta, come se fossero elementi di scarso valore.
Per concludere, nel breve periodo le persone si pentono più che altro delle loro azioni ma a lungo termine, i rimpianti del non aver agito restano più a lungo
Pertanto, secondo gli autori, dovremmo smettere di mettere da parte ciò che abbiamo dentro e iniziare ad agire: impariamo quella lingua che abbiamo sempre voluto studiare, prendiamo lo zaino in cantina e partiamo, scriviamo quel libro che abbiamo in testa da anni. Ciò che conta è il momento presente, a domani ci penseremo.

Per approfondimenti:

Davidai, Shai,Gilovich, Thomas (2018).The ideal road not taken: The self-discrepancies involved in people’s most enduring regrets. Emotion, Vol 18(3), 439-452.

Farmaci psicotropi e comportamento

di Niccolò Varrucciu

La farmacologia comportamentale nei disturbi del neurosviluppo

La disciplina della farmacologia comportamentale è nata alla fine degli anni ’50, quando alcuni ricercatori iniziarono a studiare i farmaci integrando i metodi e i concetti caratteristici dell’analisi del comportamento con quelli della farmacologia.
Questi farmacologi comportamentali presumevano che i farmaci funzionassero in modo molto simile agli altri stimoli e che, i loro effetti comportamentali, potessero essere spiegati senza ricorrere ad analisi riduzionistiche o mentalistiche.
Anche se a volte riportavano dati di gruppo e utilizzavano statistiche inferenziali per analizzare quei dati, il loro focus principale era sul comportamento di singoli organismi, sia umani sia non umani, e sulle variabili che influivano su quel comportamento.
La ricerca dei farmacologi comportamentali aveva lo scopo di accertare gli effetti comportamentali dei farmaci, le variabili che modulano quegli effetti e i meccanismi comportamentali di azione attraverso i quali vengono prodotti quegli effetti.
I farmacologi comportamentali hanno evidenziato i meccanismi neurochimici dell’azione farmacologica e hanno correlato tali effetti ai cambiamenti osservati nel comportamento.ù
Generalmente i meccanismi conosciuti attraverso cui i farmaci producono i loro effetti sono di tipo chimico, come nel caso degli antibiotici.
Nell’ambito della psicofarmacologia esiste ancora una notevole distanza tra i comportamenti e i meccanismi biochimici sottostanti, tuttavia gli studi di neurofarmacologia tendono a focalizzarsi esclusivamente sulle possibili azioni recettoriali e chimiche dei farmaci psicotropi per spiegare gli effetti comportamentali, ignorando i meccanismi comportamentali del farmaco stesso.
La psicofarmacologia comportamentale si può definire come lo studio dell’effetto dei farmaci psicotropi sul comportamento attraverso i principi e i metodi dell’Analisi del Comportamento Applicata (ABA).
Lo scopo ultimo non è quello di consigliare singoli trattamenti, ma di illustrare il processo alla base del trattamento, ovvero la comprensione dei meccanismi comportamentali dell’azione farmacologica.
Nella psicologia comportamentale un concetto basilare è quello della contingenza a tre termini, formata dagli antecedenti, dai comportamenti e dalle conseguenze.
Il condizionamento operante comprende tutti i comportamenti emessi da un individuo, che possono essere rafforzati o indeboliti dalle conseguenze prodotte sull’ambiente, ed è una procedura di modifica del comportamento di un organismo. Le unità funzionali minime sono le seguenti:

  • Antecedente (o Stimolo Discriminativo). Una qualsiasi cosa che esiste nell’ambiente del soggetto (giorno, ora, situazione, persone presenti, attività in corso, frase sentita, ecc.) prima che agisca un comportamento (e che poi lo può evocare).
  • Comportamento (o Risposta). Risposta da parte del soggetto di fronte ad uno stimolo discriminativo antecedente;
  • Conseguenze. Qualsiasi cosa che segue un comportamento, come rinforzi positivi o negativi e punizioni, anch’esse positive o negative.
    Secondo questo approccio, il comportamento rispondente è innescato dagli stimoli antecedenti mentre il comportamento operante è regolato dalle conseguenze.

Le linee guida generali per delineare un intervento sui comportamenti evidenziano l’importanza di descrivere la topografia e la funzione del comportamento, oltre a stabilire il contesto e la frequenza con cui svolgere la procedura.
Pertanto gli interventi, di ogni natura, dovranno mirare a identificare, comprendere e modificare queste unità fondamentali.
Da un punto di vista farmacologico, gli studi condotti sull’uomo, che hanno analizzato gli effetti comportamentali dei farmaci, sostengono che questi vadano a modificare la salienza dello stimolo e a modificare il comportamento rispondente (automatico e appreso) e quello operante in modo quantitativo, cioè secondo i criteri di latenza, frequenza, durata.
Alcuni studi, che hanno studiato l’effetto atarassico dei neurolettici, hanno dimostrato come a dosi basse si determini la perdita di salienza dello stimolo antecedente condizionato (perdita della reazione di evitamento), a dosi più elevate la perdita di salienza dello stimolo antecedente non condizionato e la perdita della risposta automatica (perdita della reazione di fuga).
L’effetto sulla salienza dello stimolo permette di perdere la connotazione di Stimolo Discriminativo, riducendo la funzione di regolazione del comportamento (stimoli avversivi e di fuga o stimoli appetitivi).
Per concludere, l’intervento farmacologico, come gli altri interventi, si deve basare su una diagnosi psichiatrica o su un’ipotesi comportamentale-farmacologica specifica derivante da una valutazione diagnostica e funzionale completa. I comportamenti specifici e gli effetti sulla qualità della vita devono essere definiti, quantificati e indagati obiettivamente, utilizzando metodi di misurazione empirici riconosciuti, in modo da valutare l’efficacia di un farmaco psicotropo.

Per approfondimenti

Hagopian, Louis, Caruso-Anderson, Mary (2010). Integrating behavioral and pharmacological interventions for severe problem behavior displayed by children with neurogenetic and developmental disorders – Neurogenetic syndromes: Behavioral Issues and Their Treatment

Skinner, B. F. (1974). About Behaviorism. New York: Vintage Books.

Prevenire l’ideazione suicidaria

di Niccolò Varrucciu

 La stimolazione cerebrale come nuovo trattamento per intervenire sui rischi del disturbo depressivo

Il tasso di prevalenza lifetime del disturbo depressivo si aggira intorno al 16%; fra i sintomi principali si annovera purtroppo l’ideazione suicidaria. In questa popolazione (depressione maggiore o disturbo bipolare) il tasso di suicidio varia fra il 15% e il 20%, rappresentando un pericolo tutt’altro che infrequente.
Il suicidio è la dodicesima causa di morte nel mondo, con cifre che si aggirano intorno alle 800.000 persone annue. È fra le tre principali cause di morte tra i 15 e i 44 anni, insieme agli incidenti stradali e alle malattie cardiovascolari.
Secondo l’Organizzazione Mondiale di Sanità, questi numeri sono destinati a crescere in modo drammatico, con una previsione di 1,5 milioni di suicidi entro il 2020.
Questi numeri, di grande impatto, possono aiutare a capire la gravità del fenomeno.
Fink e Kellner hanno sostenuto il ruolo della terapia elettroconvulsivante (ECT) nei pazienti con disturbi dell’umore e ideazione suicidaria.
Altre ricerche hanno evidenziato il ruolo del litio nella riduzione del rischio di suicidio in pazienti con disturbi dell’umore. Tuttavia, entrambi i trattamenti sono associati a effetti collaterali significativi, come amnesia anterograda e problemi renali. Alcuni risultati sono stati ottenuti con trattamenti sperimentali, come quelli con ketamina. Tuttavia, dato che il numero di suicidi a livello mondiale rimane superiore a 800.000 all’anno e che il suicidio è la seconda causa di morte nelle persone di età compresa tra 15 e 29 anni, è estremamente necessario trovare opzioni rapide per il trattamento del suicidio che affianchino le psico-farmaco-terapie che nel tempo hanno trattato questa annosa problematica.
Da alcuni anni, nel trattamento delle psicopatologie si sta affacciando la stimolazione cerebrale, in molti casi con buoni risultati.
La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) è un trattamento basato sull’evidenza per pazienti con depressione maggiore resistente al trattamento.
Sebbene presumibilmente non sia efficace come l’ECT, l’rTMS sembra essere più accettabile per molti pazienti perché meno invasivo, non richiede anestesia, comporta meno stigma e non è associato ad effetti cognitivi avversi.
Uno studio CAMH pubblicato recentemente su The Journal of Clinical Psychiatry che ha preso in esame un campione di adulti con depressione resistente e ideazione suicidaria trattati con stimolazione magnetica transcranica bilaterale, unilaterale ripetitiva (rTMS ) e placebo (Sham rTMS). Per depressione resistente al trattamento s’intende la condizione in cui le persone non manifestano un notevole miglioramento dei sintomi dopo aver provato almeno due diversi farmaci antidepressivi.
I risultati sono stati confortanti: il 40% delle persone trattate con rTMS bilaterale ha riferito di non aver più avuto pensieri suicidari a fine studio, in confronto al 27% di quelli trattati con rTMS unilaterale e il 19% di quelli trattati con placebo, con una differenza statisticamente significativa fra rTMS bilaterale e placebo.
La rTMS bilaterale è stata più efficace delle altre metodologie anche nella prevenzione di pensieri suicidari in persone che all’inizio dello studio non li presentavano.
Rispetto al substrato neuroanatomico di questo trattamento, gli studi sembrano individuare il lobo frontale come punto core del trattamento dell’ideazione suicidaria.
Studi precedenti, effettuati su persone con depressione e ideazione suicidaria, hanno dimostrato come questa regione possa essere collegata con l’impulsività e le difficoltà di regolazione delle emozioni.
È interessante notare come le diminuzioni del pensiero suicidario non fossero strettamente legate alle riduzioni della gravità dei sintomi depressivi, a conferma della trasversalità di questo tipo di pensieri in numerosi quadri clinici, come Disturbo Post-Traumatico da Stress, Disturbo Bipolare, Schizofrenia, Disturbo Borderline di Personalità ecc. Questi risultati sembrerebbero individuare l’rTMS bilaterale come un valido trattamento per ridurre rapidamente l’ideazione suicidaria in pazienti con depressione resistente, anche se sono necessari ulteriori studi che analizzino gli altri quadri clinici caratterizzati da questo tipo di pensieri.

Per approfondimenti:

Weissman CR, Blumberger DM, Brown PE, Isserles M, Rajji TK, Downar J, Mulsant  BH, Fitzgerald PB, Daskalakis ZJ. Bilateral Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation Decreases Suicidal Ideation in Depression. J Clin Psychiatry. 2018 Apr 17;79(3). pii: 17m11692. doi: 10.4088/JCP.17m11692.