di Michela Lupo
Nella giornata di Domenica 23 Settembre, in chiusura al Congresso SITCC 2018, si è tenuto un interessante Simposio su “Il contributo della psicodiagnostica nell’assessment cognitivista” .
All’interno del simposio diversi relatori si sono cimentati nell’arduo compito di dimostrare come sia non solo possibile, ma anche potenzialmente necessario, il connubio tra Pratica clinica e Psicodiagnosi allo scopo strutturare un adeguato razionale di intervento nei diversi disturbi trattati dal clinico.
Tra le diverse relazioni che hanno caratterizzato il simposio, il concetto trasversale espresso ad ogni intervento è stato quello di voler considerare il test diagnostico non come un mero strumento di valutazione clinica, ma come un potenziale aiuto per favorire una comprensione più approfondita del paziente, inserendone la sua rilettura in ambito cognitivista, all’intero della formulazione del caso strutturata dal clinico.
Come ampiamente riportato nei tre contributi che hanno dato fondamento al simposio, i test psicodiagnostici quando ben utilizzati, consentono di operare diagnosi categoriali/dimensionali e funzionali, di effettuare diagnosi differenziale e di chiarire eventuali dubbi nella valutazione dei singoli casi, per tale ragione il loro utilizzo in modo sistematico e, associato ad una rilettura critica dei risultati in termini di pensieri nucleari, credenze, scopi attivi ed emozioni del soggetto, “permetterebbe di ridurre lo iato esistente fra linguaggio diagnostico e il lessico clinico”.
Questa la conclusione dello studio condotto dal Dottor Femia e dal suo gruppo di ricerca in cui è stato evidenziato come una rilettura capace e attenta di un test ampiamente utilizzato nella pratica clinica come il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 (MMPI-2), se confrontata con le formulazioni dei casi strutturate in chiave cognitivista, potrebbe confermare le valutazioni effettuate dal clinico.
Queste conclusioni sono alla base dei risultati ottenuti nel loro studio effettuato su 30 soggetti sottoposti ad entrambi i tipi di valutazioni – in condizioni di doppio cieco – da uno psicodiagnosta e uno psicoterapeuta, in cui si è dimostrato un grado di accordo superiore al 70% sia in termini di diagnosi sia di funzionamento globale dell’individuo (in “MMPI-II e case formulation” di Femia, Lasorsa & Gragnani).
A riprova della potenziale capacità dei test psicodiagnostici di aiutare il clinico in fase di assessment ed intervento terapeutico, vi sono anche i corposi risultati presentati nello studio elegantemente esposto dalla Dottoressa Visco Comandini in cui è stata evidenziata una specificità per la diagnosi predittiva e/o differenziale del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) rispettivamente attraverso le scale cliniche PT, Sc e d dell’MMPI-2 (in “Evidenze empiriche sulla base di riscontri psicodiagnostici alla formulazione cognitivista del disturbo ossessivo compulsivo” di Comandini, Femia, Cosentino, Giacomantonio, Saliani & Gragnani).
Infine, a chiudere il simposio un interessante intervento condotto dalla Dottoressa Conti sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) nei disturbi di personalità che ha sottolineato come in virtù della complessità della psicopatologia presentata in tali pazienti, l’utilizzo della psicodiagnostica risulti fondamentale per aiutare il clinico a ricomporre il puzzle del funzionamento psicopatologico di questi casi, in modo da relazionare correttamente i diversi “pezzi” emersi durante le valutazioni e i colloqui al fine di strutturare degli interventi mirati e adatti al paziente stesso (in “Metacognizione, stati mentali, sintomi e funzionamento globale: la psicodiagnostica per i disturbi di personalità” di Conti, Carcione, Nicolò, Procacci, Semerari, Silvestre & Fiore).
Da contorno, ma non troppo, alla tematica presentata, la presenza del Professor Mosticoni, il quale nelle vesti di Discussant ha conferito ancora più rilevanza ai lavori presentati, grazie alla stimolante riflessione che ne è scaturita riguardante l’attitudine che il clinico deve avere nei confronti del test all’interno della pratica clinica.
Se, infatti, un test non potrà mai sostituire un’attenta conoscenza del paziente all’interno della relazione terapeutica, allo stesso tempo non è detto che uno strumento di psicodiagnosi non possa aiutare il clinico a comprendere meglio e in tempi minori alcuni meccanismi di funzionamento del paziente stesso.
Il fondamentale take home message che ne è derivato, quindi, è stato quello di “accogliere” ed “integrare” senza timori l’utilizzo dei test psicodiagnostici nella pratica clinica, tenendo a mente che per ottenere un valido aiuto da questi strumenti in termini di comprensione del funzionamento e di aiuto nel trattamento terapeutico, sarà necessario un corretto approccio del clinico.
Come a dire che nessun test seppur statisticamente perfetto, potrà mai sostituire una mente preparata e in grado di rendersi flessibile e reattiva ai bisogni del paziente.