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La relazione terapeutica nel trauma complesso

a cura di Federica Visco Comandini

Il concetto di intimità nel trauma complesso è fortemente dibattuto in quanto la vicinanza con l’altro è al contempo desiderata e temuta, condizionando il funzionamento interpersonale di coloro che ne soffrono.

L’attivazione del sistema dell’attaccamento può provocare stati emotivi intensi e intollerabili, portando alla messa in atto di strategie di potere e controllo per non sentirsi in balìa di una realtà vissuta come terrifica.

Come tutto questo può esprimersi nella relazione terapeutica che è, per definizione, una relazione di accudimento?

È quello che hanno provato a descrivere Carolina Papa, Erica Pugliese, Claudia Perdighe, Ramona Fimiani e Francesco Mancini nell’articolo “I Am Longing and Afraid to Depend on You”: A Case Report on Breakdowns of Therapeutic Alliance and Interpersonal Cycles in Complex Trauma.

Attraverso un’esemplificazione clinica vengono descritti i cicli interpersonali tra paziente e terapeuta in un caso di forte paura dell’intimità in cui la paziente combatte per riuscire a non sentirsi emotivamente dipendente dalla terapeuta.

Il lavoro suggerisce come la regolazione delle proprie attivazioni all’interno della relazione terapeutica rappresenti un prerequisito fondamentale per i terapeuti che lavorano col trauma complesso e sottolinea la rilevanza della qualità della relazione terapeutica con questo tipo di pazienti.

L’articolo è disponibile in open access al seguente link:  https://www.mdpi.com/2076-3425/14/12/1207

 

Io non credo nella psicoterapia

di Elena Bilotta

Io non credo nella psicoterapia“. Un esordio del genere non promette molto di buono, ma da terapeuta che lavora con i disturbi personalità sono abbastanza abituata a sentirmelo dire e non mi indispone, anzi mi incuriosisce. Non deve essere facile per la persona che ho di fronte sentire di avere bisogno di qualcosa in cui non crede. La sua sofferenza deve essere profonda e radicata, come la sua solitudine, e deve averne provate tante, forse tutte. “Le ho provate tutte“. Ecco, come sospettavo.

La persona seduta davanti a me è un uomo di mezza età, sovrappeso, non particolarmente curato nell’aspetto. Mi racconta che i suoi familiari non sanno che è venuto in terapia, perché nessuno capirebbe. In famiglia se si parla di terapia si pensa solo a Sergio Castellitto (per via della serie italiana “In treatment”) e in generale tutti dicono che i soldi spesi per un terapeuta sono buttati. Per loro è molto più efficace il lettino dell’estetista che quello dell’analista. “Beh qui non abbiamo un lettino, quindi forse abbiamo un problema in meno“, scherzo io, sorridendo. Ma lui mi guarda un po’ schifato dal mio umorismo spicciolo. Ha ragione, avrei potuto proprio risparmiarmela, soprattutto perché ancora non so nulla di lui e del suo funzionamento, e l’umorismo, almeno nei primi incontri, va sempre dosato e calibrato, perché potrebbe essere sempre interpretato come sarcasmo escludente e umiliante, anziché come ironia benevola e inclusiva, che era poi la mia intenzione.

L’inizio non è dei migliori, e io comincio a sentirmi un po’ a disagio, esaminata e testata, scrutata come se dall’altra parte lui volesse capire quale sarebbe la qualità che io dovrei avere e che lui non ha. La pesantezza del clima che avverto mi suggerisce che potrebbe trattarsi di un disturbo di personalità. Difficile sentirsi così quando si ha davanti un paziente “solo” ansioso od ossessivo. Certo, potrei sbagliarmi e quindi continuo ad ascoltare senza giudizio o diagnosi in testa.

A malincuore mi racconta il suo problema: “Non dormo da due anni“. “Mi sveglio 5, 6, 7 volte a notte e la mia mente viene avvolta da una nube di pensieri che non riesco a gestire, allora sento un peso al petto e penso che mi stia venendo un attacco di cuore, così mi alzo, vado sul balcone, fumo una sigaretta e magari bevo un grappino e poi torno a letto”.

La mia prima domanda è quella più semplice e intuitiva, forse da lui letta come banale, ma non devo colpirlo con effetti speciali, come mi spingerebbe a fare la sensazione del suo sguardo addosso: “è successo qualcosa due anni fa, in concomitanza con questo cambiamento nella qualità del suo sonno?“. “Beh, è venuta a vivere a casa mia la mia compagna. Ma mica è per questo, che c’entra!” Mi guarda sempre più schifato e non capisco se a questo punto l’espressione di disgusto che ha quasi costantemente in viso non sia invece spavento. Paura che qualcun altro capisca qualcosa che lui non ha capito, che qualcun altro prenda il controllo, facendolo così perdere a lui. Eh no, sicuramente per la persona che ho davanti il controllo è importante, e non devo in nessun modo fargli pensare che io voglia toglierglielo.

No certo, non intendevo questo, ho solo fatto questa domanda per capire se associa questo cambiamento interno a un cambiamento esterno“. “No, non lo associo a niente“. “Ok“.

Le capita di rimuginare anche di giorno o solo durante la notte?“. “Anche di giorno purtroppo, per quello sono qui. Provo a distrarmi ma non funziona niente, a allora mi capita che divento molto nervoso, rispondo male a tutti, pure sul lavoro e pure con la mia fidanzata“. “Cos’è che la fa arrabbiare di solito?” continuo con le domande ovvie. “Tutto e tutti, mi urtano i nervi. E poi mi danno fastidio tutte quelle coppie felici coi bambini, tutti innamorati e contenti e io mi dico perché io no?”. Come spesso capita nei pazienti complessi, le informazioni arrivano un po’ a raffica e confuse su diversi piani, e lo sforzo da fare è quello di provare a mettere in ordine i contenuti e provare a metterli in un ordine gerarchico che abbia un senso e che venga condiviso dalla persona che si ha di fronte. Non credo che la persona che ho davanti però condividerebbe qualcosa con me.

Mi scusi, non ho ben capito, quindi ciò cos’è che esattamente la infastidisce?“. “Eh lo so che tanto lei andava a parare lì: sì, allora io vorrei un figlio ma la mia compagna non vuole. All’inizio neanche io volevo, ma adesso ho cambiato idea, forse perché sto diventando vecchio, inizio ad avere i capelli grigi e paura della morte“. Il tono cambia, non mi guarda in faccia. Capisco che si sta aprendo più di quanto avesse preventivato, ma questo non è un bel segnale per un paziente così; una volta uscito dalla seduta potrebbe pentirsene e starci molto male. Bisogna andarci piano perché condividere troppo, per alcuni pazienti, è insostenibile. “Immagino che questo le provochi tanto dolore“, dico, nella totale semplicità letta forse come banalità. “Sì, infatti. E ora che lo so che ci faccio?“. Ecco, appunto, ho detto una frase sbagliata per chi ho davanti. La persona che mi trovo di fronte tollera difficilmente qualsiasi tipo di comprensione o simil-compassione; le vive come umilianti. Già il fatto di essersi “ridotto” a parlare con uno specialista è per lui sconfortante e fonte di rabbia e frustrazione, come spesso accade in alcuni funzionamenti narcisisti. Sarà dura, penso, e forse sarà solamente una esperienza di profonda impotenza.

Ho però già da questi pochi scambi delle indicazioni che sono estremamente importanti per gestire il colloquio e il mio modo di pormi col paziente. Devo restare sullo sfondo e non devo avvicinarmi troppo. Non devo fare espressioni del volto che comunichino pena o tenerezza nei confronti del suo dolore, ma devo mantenermi il più possibile neutrale e con una espressione del viso che non lasci trapelare alcuna emozione specifica. Non devo fare troppe domande e non devo irrigidirmi quando ho la sensazione che io debba, con le poche informazioni che ho, dare una soluzione immediata al suo problema. Non devo cadere nella trappola dell’urgenza, dentro la quale lui è caduto già da tanto tempo.

Forse questo potrà essere un buon inizio.

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Illustrazione di @disegniperlasalutementale

Paziente e terapeuta: un lavoro combinato

di Miriam Miraldi

Il ruolo della relazione terapeutica in terapia cognitivo-comportamentale

Per favorire il cambiamento atteso da un percorso terapeutico, il terapeuta cognitivo-comportamentale dispone di un’ampia gamma di tecniche, le quali, grazie alla ricerca, stanno diventando sempre più basate sull’evidenza scientifica: tuttavia, questo bagaglio di strumenti è condizione necessaria ma non sufficiente in termini di resa e di efficacia clinica. Il terapeuta è chiamato a una certosina concettualizzazione del caso e, parallelamente, allo sviluppo di una relazione rispettosa, sintonica, aperta, non giudicante, capace di far sentire il paziente accolto in un posto sicuro.

Da queste considerazioni parte il lavoro di Nikolaos Kazantis, professore universitario di psicologia clinica a Melbourne, Frank M. Dattilio, docente presso il dipartimento di psichiatria all’università della Pensilvania, e Keith Dobson, professore di psicologia all’università di Calgary, in Canada: nel volume “La relazione terapeutica in terapia cognitivo comportamentale”, gli autori sostengono che l’obiettivo ultimo della terapia – e della relazione terapeutica – non è capire come adattare ciascun paziente all’interno di una cornice standard di trattamento, quanto piuttosto modulare il modello, adattandolo ai bisogni del paziente che si ha di fronte.

Il manuale fornisce una panoramica delle principali prospettive che si sono sviluppate sul tema nell’ambito della Terapia cognitivo comportamentale (TCC) e si struttura in tre parti.
Nella prima sezione viene definita la relazione terapeutica come lo scambio tra terapeuta e paziente che si sviluppa nella condivisione di credenze, emozioni, sensazioni ed esperienze del paziente allo scopo di attivare un cambiamento. Secondo l’American Psychological Association, “la relazione terapeutica agisce in concerto con i metodi di trattamento, le caratteristiche del paziente e le qualità del clinico nel determinare l’efficacia dell’intervento”. Il terapeuta è chiamato a effettuare una concettualizzazione del caso – che più è specifica, dettagliata e ricca di informazioni, più è efficace nel comprendere le cause e il mantenimento dei problemi di un paziente – e ad adattare alla relazione tutti quei fattori relazionali cosiddetti “aspecifici”, ovvero non prototipici di un orientamento particolare, quali: l’empatia espressa, che valida l’esperienza emotiva del paziente; l’espressione di considerazione positiva, con affermazioni supportive al paziente; l’alleanza di lavoro come forma di dichiarazione di accordo sugli obiettivi terapeutici; la raccolta strutturata dei feedback dal paziente, basata sulla valutazione dei sintomi che manifesta. A questi vanno aggiunti, invece, i principali fattori “specifici” della TCC, quali: a) la collaborazione, spesso paragonata a un’altalena “saliscendi” che richiede sforzi da entrambe le parti per funzionare. Questo aspetto comprende un lavoro di squadra in virtù del quale si invita il paziente a intraprendere un ruolo attivo, a sentirsi padrone del processo, mentre il terapeuta, mantenendo uno stile non interpretativo, riveste la funzione di guida. Per favorire la collaborazione è auspicabile l’uso di un linguaggio inclusivo (“osserviamo insieme cosa succede quando…”, “potremmo provare”); b) l’empirismo collaborativo, attraverso cui il paziente viene sostenuto nell’adottare un metodo “scientifico” per valutare le proprie credenze e “metterle alla prova”; c) il dialogo socratico. Socrate sosteneva: “Io non posso insegnare niente a nessuno, posso solo farli pensare”. All’interno della TCC il metodo socratico è sia tecnica che fattore relazionale specifico: il dialogo socratico, o dialettico, rappresenta una modalità “maieutica” (ovvero che supporta nel “tirar fuori” contenuti interni) di porre domande. Il terapeuta favorendo controesempi, falsificazioni e strategie paradossali come la reductio ad absurdum, facilita la scoperta sul modo del funzionamento del paziente, sulle sue strategie e schemi mentali che a volte possono essere disfunzionali, o poco utili, per il suo benessere psicologico e relazionale.

La psicoterapia è per definizione un processo interpersonale in cui anche la natura delle personalità che interagiscono dà la forma al percorso terapeutico. La parte centrale del manuale illustra proprio come assimilare nell’azione terapeutica gli interventi focalizzati sul comportamento, quelli focalizzati sulla cognizione, gli “esperimenti” cognitivi e comportamentali, fino a sottolineare l’importanza degli homework, ovvero di quei “compiti” non banalmente assegnati ma concordati tra terapeuta e paziente, e che quest’ultimo può impegnarsi a realizzare fra una seduta e l’altra, garantendo in tal modo continuità al suo percorso trattamentale. È importante che il paziente porti avanti queste esperienze tra una seduta e l’altra non per compiacere o per non deludere il terapeuta, ma perché si sente attore del suo percorso di cambiamento.

Nell’ultima sezione del libro gli autori sottolineano l’importanza sia di una pratica professionale deontologica, etica e non discriminante, che della peculiare competenza che il terapeuta deve esercitare nell’essere consapevole, riconoscere e gestire le proprie reazioni emotive e cognitive che si potrebbero attivare all’interno dello scambio relazionale sia col paziente singolo, che all’interno di interventi con coppie, famiglie e gruppi.

Per approfondimenti

Kazantis, N., Dattilio, F.M. e Dobson, K.S. (2019). La relazione terapeutica in terapia cognitivo comportamentale. Manuale per il professionista. Giovanni Fioriti Editore

Perfezionismo = successo terapeutico?

di Daniela Fagliarone

Effetti del perfezionismo dei terapeuti sui pazienti

Il perfezionismo è stato definito come un’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dalla ricerca di standard personali elevati e auto-imposti in almeno un dominio importante per la persona, nonostante le conseguenze avverse. È stato riconosciuto come esso contribuisca allo sviluppo e al mantenimento di varie psicopatologie: è infatti correlato con bassa autostima, elevata sensibilità alla critica, depressione, disturbi d’ansia e alimentari, difficoltà interpersonali, disperazione e rischio di suicidio e, se non viene riconosciuto e trattato in terapia, può limitare il successo terapeutico. Cosa accade però quando ad essere perfezionista è il terapeuta? Le ricerche suggeriscono che il perfezionismo nei professionisti della salute mentale sia comune e dannoso per la guarigione del paziente, ma non esistono molti dati empirici del suo impatto, sull’esito delle terapie e sul rischio di drop-out. Vickie Presley e colleghi, ricercatori all’Università di Birmingham, hanno indagato questo legame chiedendosi in particolare se c’è una relazione significativa tra le dimensioni del perfezionismo nei terapeuti cognitivo comportamentali e i risultati del trattamento sui clienti nei punteggi di depressione e ansia e sugli effettivi drop-out dalla terapia. I risultati confermano questa ipotesi: in particolare, è emerso che i migliori risultati per i pazienti con sintomi depressivi erano associati al fatto di avere un terapeuta organizzato, che predispone materiali appropriati e di informazione da consegnare al paziente. Punteggi alti nella sottoscala “perseguimento dell’eccellenza” e “elevati standard per gli altri” del test di valutazione del perfezionismo dei terapeuti, però, erano associati a esiti peggiori nei loro pazienti depressi, perché la relazione terapeutica potrebbe essere danneggiata da queste attitudini che rischierebbero di demotivare il paziente, proponendo obiettivi irrealistici o prescrivendo compiti a casa troppo difficili. Al contrario, terapeuti che avevano riportato “bassa pressione genitoriale verso il successo” ottenevano i migliori risultati clinici con questi pazienti, probabilmente perché uno stile meno richiedente e critico a livello interpersonale è con loro più efficace. Per i disturbi di ansia, invece, i migliori risultati erano associati con quei terapeuti che avevano minori “preoccupazioni rispetto agli errori” e che non esageravano nella programmazione della seduta (farlo troppo può ridurre la collaborazione in terapia, inibire il paziente nell’esprimere i propri bisogni e far percepire lo psicoterapeuta come rigido e controllante). Chi ha elevati sintomi ansiosi già di suo può tendere, inoltre, a pianificare eccessivamente come strategia di coping, di fronteggiamento,  e questo può colludere con un terapeuta che mostra livelli troppo elevati di pianificazione, fungendo da ulteriore fattore di mantenimento dei sintomi e limitando il successo terapeutico. Altri pazienti ansiosi, invece, possono rifiutare del tutto la pianificazione per il timore di fallire e quindi possono trovare molta difficoltà a lavorare con uno psicologo con tali caratteristiche. Infine, la ricerca ha mostrato come bassi livelli di drop-out fossero associati a psicoterapeuti che non avevano elevati standard sugli altri e che non ruminavano sui propri errori ma anche con quelli che cercavano l’eccellenza in quello che facevano. In conclusione, si può affermare che le dimensioni interpersonali del perfezionismo sono importanti e identificare il proprio schema può aiutare lo psicoterapeuta a massimizzare i risultati clinici.


Per Approfondimenti:

Presley V.L., Jones C. A. & Newton E.K. (2017). Are perfectionist therapists perfect? The relationship between therapist perfectionism an client outcomes in cognitive behavioural therapy. Behavioural and cognitive psychotherapy, 45(3), pp. 225-237

 

Ed io avrò cura di te

di Caterina Parisio

La relazione terapeutica: arte, musica e… Psicopatologia

 Nel 1887, Henry Tate commissionò a Luke Fildes, già allora pittore di fama, un quadro per la sua nuova National Gallery of British Art. La commissione non indicava un soggetto, che fu scelto dallo stesso Fildes. The Doctor ebbe un folgorante successo: il quadro è ambientato in una povera casa della campagna inglese. È l’alba e la prima luce del giorno filtra da una finestra sullo sfondo, illuminando flebilmente un bambino malato; seduto di fronte a lui il dottore. È un medico che ha trascorso lì la notte, assistendo il piccolo paziente, impotente. La madre, affranta, è china sul tavolo; il padre le poggia una mano sulla spalla per confortarla e guarda il medico con rispetto e gratitudine. Non sappiamo se il bambino si salverà ma sappiamo per certo che il dottore ha fatto il possibile.

Qual è il segreto del quadro di Fildes? Perché, tra i tanti dipinti su medici e medicina, questo sembra essere in assoluto il più amato? Il segreto sta nel fatto che The Doctor è l’icona della relazione tra medico e paziente, nella sua forma idealizzata. Il dottore, il bambino malato, i genitori affranti: il legame che li tiene insieme è la cura.

Non sappiamo quale fosse la malattia del bambino, sicuramente qualcosa di molto grave, presumibilmente una polmonite; non sappiamo da quanto tempo il dottore fosse in quella stanza; non conosciamo gli esiti della lunga nottata. Ora, provando a fare un salto temporale e trasponendo il concetto di relazione terapeutica alla sfera della psicopatologia, proviamo a capire quale sia la funzione che essa esercita all’interno di un percorso terapeutico.

Le prime formulazioni del concetto di alleanza terapeutica possono essere rintracciate dagli aspetti di transfert e contro-transfert di Freud (1912) sino a Rogers (1965), che pone l’accento su come la percezione dell’empatia con l’analista da parte del paziente è fondamentale ai fini della promozione di un’alleanza funzionale; si parlerà di alleanza di lavoro, risonanza empatica e mutua accettazione qualche anno dopo con Bordin (1979).

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha conferito una grande importanza al ruolo della relazione terapeutica, esplicitando la necessità di integrare, nella prassi clinica, le tecniche terapeutiche orientate alla comprensione e al cambiamento delle dinamiche interpersonali. Sul tema della relazione terapeutica, Aaron Beck raccomandava fin dai suoi primi libri sulla depressione, che “le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza”, caratteristiche che modulano la collaborazione terapeutica in modo da favorire l’applicazione e quindi l’efficacia del trattamento.

“Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni e dalle tue manie”, canta Franco Battiato nel brano “La cura”: un Aaron Beck rivisitato che definisce in musica il concetto di cura e pone grande enfasi sulla relazione terapeutica.

Ma cosa succede all’interno della relazione terapeutica con il paziente grave? Gli autori che se ne sono interessati concordano tutti su due affermazioni riguardanti l’alleanza terapeutica: una buona relazione è un requisito fondamentale per l’efficacia del trattamento, ma la costruzione di una buona e stabile relazione è qualcosa di estremamente problematico.

Ciò che rende particolarmente importante la relazione, in questo tipo di trattamento, è il fatto che essa consente di influire sui livelli di funzionamento metacognitivo, in modo da rendere il paziente capace di operazioni mentali terapeutiche altrimenti cronicamente deficitarie. È evidente che questo ruolo della relazione abbia un peso minore con pazienti che non presentano significativi deficit metacognitivi. D’altra parte, proprio i deficit metacognitivi che vengono compensati dalla relazione rappresentano, allo stesso tempo, il maggior ostacolo alla costruzione della relazione stessa che, pertanto, richiede una cura tecnica del tutto particolare ed estremamente accurata.

Perché e come la relazione terapeuta-paziente è “terapeutica”? Che ruolo svolge la relazione nel determinare il miglioramento o la scomparsa della sofferenza psichica e della psicopatologia del paziente?

La relazione può influire in modi diversi e su aspetti diversi del funzionamento mentale per cui, ci si trova di fronte a sottolineature di aspetti differenti del ruolo svolto dalla relazione terapeutica. La relazione come influenza sociale positiva: essa costituirebbe il mezzo che consente al terapeuta di esercitare un’influenza positiva sul paziente affinché egli si attenga alle regole del setting e svolga i compiti concordati con il terapeuta.

La relazione terapeutica come contesto privilegiato per la presa di coscienza, oppure ancora come esperienza correttiva per l’incremento della conoscenza di sé.

Tanti altri i ruoli che la relazione terapeutica può assumere all’interno di un percorso di cura e molti i manuali che si sono occupati di ciò ma, in tale sede, concludiamo così, connotando musicalmente la caratteristica che può avere la relazione terapeutica: “ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo insieme le vie […] ed io avrò cura di te”.

Per approfondimenti:

Antonio Semerari (a cura di), 1999. Psicoterapia cognitiva del paziente grave, Raffaello Cortina Editore

Sensi di colpa e psicoterapia

di Angelo Maria Saliani

Per far sì che il paziente si liberi dei sensi di colpa patogeni, il terapeuta dovrà superare i test a cui sarà sottoposto dal suo assistito

Secondo Weiss e Sampson, padri della Control-Mastery Theory (CMT), la sofferenza emotiva è spesso determinata dai sensi di colpa. Da questi sarebbe possibile affrancarsi se solo si avesse modo di sperimentare quel senso di sicurezza necessario per riconoscere e abbandonare le credenze patogene che ne sono alla base e che ostacolano il benessere psicologico. Il terapeuta ha questo compito cruciale: far sentire il paziente al sicuro. Per riuscire nell’intento terapeutico, deve superare i test ai quali il suo assistito lo sottopone nel corso della terapia, ipotizzando e formulando, dopo le prime sedute, quello che gli autori chiamano “il piano inconscio del paziente”. In particolare, deve: 1. individuare gli obiettivi sani e piacevoli del paziente; 2. riconoscere le credenze patogene e i sensi di colpa che ostacolano il perseguimento di questi obiettivi; 3. capire quali traumi del passato hanno portato allo sviluppo delle credenze patogene; 4. prevedere i test ai cui sarà sottoposto; 5. ipotizzare gli insight (le intuizioni risolutrici) utili al perseguimento del piano.
Secondo la CMT, le credenze patogene sono, dunque, l’elemento fondamentale nella spiegazione della sofferenza emotiva e, al tempo stesso, il bersaglio dell’intervento terapeutico. Leggi tutto “Sensi di colpa e psicoterapia”

Chi soffre vuole guarire e ha un piano per farlo

di Angelo Maria Saliani

La psicopatologia e il processo terapeutico nell’ottica della Control Mastery Theory

L’affermazione che dà il titolo a questo breve articolo potrà suonare ovvia o ingenua. Se una persona soffre, vorrà certamente star meglio, penseranno molti. Già, ma perché a volte chi è in cura sembra resistere con tutte le pcmt_saliani_fotolia_132041283_xsroprie forze al cambiamento? Gli esseri umani sono guidati dal desiderio di stare bene o sono invece intimamente governati da spinte distruttive?
Per Joseph Weiss e Harold Sampson, psicoanalisti fondatori del San Francisco Psychotherapy Research Group (SFPRG) e padri della Control Mastery Theory (CMT), la risposta è chiara: ogni essere umano è naturalmente guidato dallo scopo di un buon adattamento alla propria realtà. Non solo: elabora, consciamente e inconsciamente, dei piani funzionali al proprio benessere. In altri termini, non solo gli esseri umani vogliono stare bene, ma in qualche modo sanno anche come perseguire e raggiungere il loro obiettivo. Già, ma perché alcune persone sembrano invece andare dritto verso l’infelicità?
Secondo gli autori, quando gli esseri umani si comportano in modo contrario al proprio benessere, ciò accade perché sono ostacolati da credenze patogene relative a se stessi e al proprio mondo interpersonale, sviluppate precocemente nel corso della propria storia allo scopo di adattarsi a una realtà relazionale traumatica. Leggi tutto “Chi soffre vuole guarire e ha un piano per farlo”