Aborti ricorrenti e impatto psicologico

di Rossella Cascone

Perdere un bambino è a tutti gli effetti un lutto da elaborare, un evento traumatico che porta con sé uno shock emotivo per entrambi i genitori

Nell’immaginario comune, avere un figlio, crearsi una famiglia, è uno scopo condiviso che porta con sé credenze semplicistiche sulle modalità con cui raggiungere tale scopo: “rimanere incinta è facile”, “la gravidanza è un periodo bellissimo”, “puoi continuare a lavorare e fare tutto quello che facevi prima”. Tali credenze, però, in molti casi, risultano irrealistiche e generano nella donna vissuti di inadeguatezza, rabbia, tristezza, vergogna e colpa.

In realtà, è molto comune che non vi sia una linearità nella fecondità di una coppia: l’incidenza di aborto spontaneo si aggira tra il 15 e il 20% di tutte le gravidanze clinicamente diagnosticate.

Per definizione, si parla di aborto spontaneo quando vi è un’interruzione spontanea di gravidanza entro la ventesima settimana di gestazione.

Di per sé un aborto, verificatosi in qualunque settimana di gestazione, è a tutti gli effetti un lutto da elaborare; un evento traumatico che porta con sé uno shock emotivo per entrambi i genitori.

Nei casi di aborti multipli il ripetersi dell’evento complica inevitabilmente la situazione, aggravando i vissuti emotivi e il processo di elaborazione del lutto. Oltre a portare con sé, in alcuni casi, la diagnosi di infertilità e la conseguente necessità di ricorrere alla fecondazione assistita.

Nello specifico, possiamo distinguere tre tipi di aborto: occasionale, ripetuto e ricorrente.

L’aborto ripetuto si verifica quando, nella storia ostetrica di una donna, vi sono due episodi consecutivi di aborto entro la ventesima settimana di gravidanza; l’aborto ricorrente, invece, si verifica con la presenza di tre o più episodi consecutivi di aborto spontaneo.

Le cause di aborti ricorrenti solitamente sono da collegare a problemi genetici o uterini, trombofilia, malattie endocrine autoimmuni, infezioni e diversi fattori ambientali, ma in molti casi le cause restano sconosciute e generano nella donna la sensazione di essere “difettosa”.

La perdita di una gravidanza desiderata è quindi un evento negativo considerevole che induce un intenso periodo di stress emotivo e può causare notevoli disagi fisici e soprattutto psicologici, come ansia e depressione, disagi nel funzionamento sociale, intolleranza all’incertezza, chiusura in sé stessi. Molto spesso, ad aggravare la situazione vi è la risposta della società che tende a minimizzare o addirittura ignorare la concezione dell’aborto come un lutto. Frasi come “è stato meglio così”, “potete provare ad avere altri bambini”, “il tempo vi aiuterà”, “sarebbe stato peggio se fosse successo più avanti”, rendono sicuramente complicato il processo di elaborazione e di accettazione.

Nel caso di aborti ripetuti la situazione si complica maggiormente. Elena Toffol e collaboratori hanno evidenziato come nelle donne con una storia di aborto spontaneo ci fosse una più alta prevalenza di sintomi depressivi e diagnosi di disturbo depressivo e che, maggiore era il numero di aborti spontanei, peggiore era lo stato dell’umore e più frequente era la diagnosi di depressione.

Questi risultati suggeriscono che un aborto spontaneo, e in particolare il numero di aborti spontanei, contribuisce negativamente e a lungo sulla salute mentale della donna. Da una ricerca del 2015 è infatti emerso che l’8,6% delle donne con aborti ripetuti, contro il 2,2% delle donne che non ne avevano avuti, ha una depressione moderata o grave.

In accordo con gli studi precedenti, Hajar Adib Rad e collaboratori, valutando i problemi psicologici nelle donne con aborto spontaneo ricorrente, hanno sottolineato come l’incidenza di disturbi psicologici sia maggiore in questo campione. Nel loro articolo vengono inoltre racchiusi dati di altre ricerche che mostrano come la perdita di una gravidanza è correlata anche ad ansia e angoscia, specialmente nelle donne che soffrono di aborti ricorrenti, ed è maggiore nelle donne che non riescono a portare a termine gravidanze successive e quindi ricevono diagnosi di infertilità.

Questi risultati indicano come l’aborto ricorrente e l’infertilità possono portare a una notevole quantità di pressione sulle donne e a connessi problemi psicologici che possono persistere anche dopo un anno dall’evento scatenante.

Alla luce di quanto detto, sembra quindi necessario un supporto che miri a ridimensionare il disagio provato, che ristrutturi le credenze irrealistiche e che favorisca il processo di elaborazione e di accettazione, con particolare interesse anche allo sviluppo di una rete sociale di sostegno adeguata.

Per approfondimenti

Adib-Rad H., Basirat Z., Faramarzi M., Mostafazadeh A., Bijani A. (2019); Psychological distress in women with recurrent spontaneous abortion: A case-control study. Turk J Obstet Gynecol, 16(3): 151–157;

Mevorach-Zussman N., Bolotin A., Shalev H., Bilenko N., Mazor M., Bashiri A. (2012);  Anxiety and deterioration of quality of life factors associated with recurrent miscarriage in an observational study. J Perinat Med. 40:495–501;

Tavoli Z., Mohammadi M., Tavoli A., Moini A., Effatpanah M., Khedmat L., Montazeri A.(2018); Quality of life and psychological distress in women with recurrent miscarriage: a comparative study. Health Qual Life Outcomes, 28;16(1):150

Toffol E, Koponen P, Partonen T. (2013);  Miscarriage and mental health: results of two population-based studies. Psychiatry Res.  205:151–58.

Infertilità: il trattamento CBT

di Rossella Cascone

Le difficoltà legate all’infertilità sono un problema sempre più diffuso che provoca importanti conseguenze sulla qualità della vita della donna e della coppia, in termini di salute fisica, salute mentale e salute sociale

Nell’articolo Le conseguenze emotive dell’infertilità, abbiamo illustrato le complicazioni emotive legate all’infertilità e le possibili conseguenze di queste sull’individuo e sulla coppia.

Esiste la possibilità che si possano sviluppare disturbi psicologici, prima, durante e dopo la diagnosi di infertilità e che questi possano interferire con la possibilità di fecondazione.

Risulta quindi sicuramente molto importante, durante la presa in carico dell’individuo o della coppia in un percorso di sostegno o di psicoterapia, indagare i fattori cognitivi, i problemi sessuali e di coppia, le risorse esterne a disposizione e le capacità relazionali. Questa esplorazione permetterà successivamente di intervenire sulle modalità che vengono utilizzare per gestire lo stress provocato dall’infertilità, il quale può avere effetti importanti anche sull’esito del trattamento di procreazione.

Qualora si sviluppassero disturbi psicologici, molte ricerche suggeriscono di utilizzare il trattamento psicoterapeutico in combinazione con l’approccio terapeutico dell’infertilità.

In letteratura, oltre alle ricerche focalizzate sull’individuazione e la comprensione dei sintomi o degli aspetti psicologici correlati, vi sono svariate ricerche che si sono focalizzate maggiormente sullo studio dell’efficacia dei trattamenti volti alla prevenzione dei disagi psichici degli individui o delle coppie con problemi di infertilità.

In particolare, vi sono ricerche interessanti che hanno indagato l’efficacia dei trattamenti di tipo cognitivo comportamentale (CBT), in cui viene dimostrata la maggiore efficacia di questi ultimi rispetto ad altri interventi psicoterapeutici.

Leili Mosalaneiaj e collaboratori, hanno sottoposto gruppi di donne infertili a trattamenti di terapia cognitivo comportamentale di gruppo, mettendole a confronto con un gruppo di controllo che non aveva ricevuto alcun trattamento. In questa ricerca sono stati considerati due aspetti che negli interventi con persone infertili possono essere considerati degli obiettivi: l’aumento della flessibilità, ovvero la caratteristica di personalità che favorisce l’accettazione, l’adattamento e la tollerabilità in situazioni stressanti, e la capacità di gestire lo stress in modo funzionale (stile di coping), ovvero  quei comportamenti messi in atto di fronte a eventi stressanti.

I risultati hanno mostrato che le donne sottoposte a CBT presentavano un miglioramento nella flessibilità e un cambiamento nelle strategie di coping in senso più funzionale.

In un secondo studio degli stessi autori, sempre attraverso dei trattamenti di terapia cognitivo comportamentale, oltre a intervenire sulle credenze disfunzionali e la ristrutturazione cognitiva, gli psicologi fornivano dei feedback rispetto alla condivisione delle emozioni relative all’infertilità, intervenendo così sugli aspetti emotivi tramite il riconoscimento e la validazione. Anche in questo caso, le donne che avevano partecipato all’intervento CBT mostravano una riduzione significativa dei livelli di ansia, di depressione e più in generale nella percezione dello stress.

In uno studio di Mahbobeh Faramarzi e collaboratori, è stato confrontato l’intervento CBT con la farmacoterapia su un campione di 89 donne infertili cui era stata rivelata una moderata depressione attraverso il BDI (Beck Depression Inventory ), con lo scopo di osservare eventuali cambiamenti nella percezione di sé e nelle aree maggiormente coinvolte dallo stress dell’infertilità.

Anche in questo caso il trattamento CBT si è rivelato più efficace rispetto al farmaco nel ridurre la percezione dello stress sulla sfera relazionale, sessuale e sulla rappresentazione di sé senza figli.

I risultati mostrati sono coerenti con quelli di studi precedenti, nei quali viene mostrato come la psicoterapia cognitiva riesca a ridurre i sintomi fisici e psicologici di ansia, depressione, insonnia, e altri sintomi psicosomatici, focalizzando l’intervento sul riconoscimento di pensieri negativi rispetto a sé e alla genitorialità, sulla ristrutturazione cognitiva, sulla gestione del rimuginio ( forma di pensiero ripetitivo che funge da meccanismo di mantenimento di stati d’ansia e depressivi) e su alcune tecniche comportamentali, come esercizi di rilassamento o immaginativi, oltre a svolgere un lavoro specifico improntato alla condivisione dei vissuti emotivi.

Alla luce di quanto descritto, la CBT potrebbe quindi essere un modo efficace per diminuire i sintomi depressivi e ansiosi durante le diverse fasi del trattamento dell’infertilità. Inoltre, la terapia cognitivo-comportamentale di gruppo sembra rafforzare la capacità della coppia infertile di affrontare eventuali cambiamenti e lo stress durante il trattamento dell’infertilità.

Proprio per l’efficacia dimostrata, questi trattamenti risultano essere quelli maggiormente proposti all’interno dei centri PMA (Procreazione Medicalmente Assistita), nonostante non vi sia un protocollo d’elezione riconosciuto ufficialmente,

In conclusione, risulta sicuramente molto importante che la direzione della clinica e della ricerca debba essere quella di strutturare degli interventi con lo scopo non solo di trattare e ridurre ma soprattutto di prevenire l’incidenza dello stress legato all’infertilità.

Per approfondimenti

Benyamini Y, Gozlan M., Kokia E. (2009). Women’s and men’s, perceptions of infertility and their associations with psychological adjustment: a dyadic approach. British Journal of Health Psycology; 14(1): 1-16.

Domar A.D., Seibel M.M., Benson H. (1990). The mind/body program for infertility: a new behavioral treatment approach for women with infertility. Fertility and Sterility; 53(2): 246-249.

Faramarzi M., Pasha H., Esmailzadeh S., Kheirkhah F., Heidary S., Afshar Z. (2013). The Effect of The Cognitive Behavioral Therapy and Pharmacotherapy on Infertility Stress: A Randomized Controlled Trial, Int J Fertil Steril, Vol 7, No 3, Oct-Dec 2013

Mosalanejad L., Khodabakshi Koolaee A., Jamali S., 2012, Effect of Group Cognitive Behavioral Therapy on Hardiness and Coping Strategies Among Infertile Women Receiving Assisted Reproductive Therapy, Iran J Psychiatry Behav Sci, Volume 6, Number 2.

Mosalanejad L., Khodabakhshi Koolaee A., Morshed Behbahani B., 2012, Looking Out for The Secret Wound: The Effect of E-Cognitive Group Therapy with Emotional Disclosure on The Status of Mental Health in Infertile Women, Int J Fertil Steril, Vol 6, No 2, Jul-Sep

Costi emotivi dell’infertilità

di Rossella Cascone

Le difficoltà legate all’infertilità sono un problema sempre più diffuso, con importanti costi sociali, emotivi ed economici, al punto da essere considerato uno degli eventi più stressanti nella vita di una persona

“Dottoressa sono a pezzi, nemmeno questa volta è andata bene. In cuor mio avevo la convinzione che questa volta c’eravamo riusciti… E invece mi è tornato il ciclo. Ho paura. E se non riuscissi ad avere figli? Forse ho aspettato troppo… Ho paura… non pensavo che tutto questo potesse succedere proprio a noi”.

Le parole di questa donna sono solo un esempio di pensieri ed emozioni che possono travolgere una coppia nel momento in cui si scontra con le difficoltà di avere un figlio e a diventare genitori.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera l’infertilità come una patologia e la definisce come l’assenza di concepimento dopo 12/24 mesi di regolari rapporti sessuali mirati non protetti. Tale patologia può essere legata a uno o più fattori interferenti, relativi all’uomo o alla donna, e si riferisce a una situazione che generalmente è risolvibile. Si differenzia quindi dalla sterilità, condizione in cui nella coppia un individuo o entrambi sono affetti da una patologia fisica permanente che rende impossibile il concepimento.

Secondo i dati pubblicati dall’Istituto Superiore della Sanità (www.iss.it) l’infertilità riguarda circa il 15% delle coppie in Italia e il 10-12% nel mondo.

Le difficoltà legate all’infertilità sono un problema sempre più diffuso, con importanti costi sociali, emotivi ed economici, al punto da essere considerato uno degli eventi più stressanti nella vita di una persona.

L’infertilità, inoltre, può influenzare significativamente vari aspetti di vita delle donne come la salute fisica, la salute mentale, la salute sociale e, più in generale, la qualità di vita.

Nel corso degli anni, innumerevoli ricerche hanno voluto spiegare la relazione tra infertilità e fattori psicologici e i risultati attuali possono essere riassunti in tre ipotesi di base.

La prima si focalizza sull’effetto delle problematiche psicologiche sulla comparsa dell’infertilità, ritenendo che quest’ultima sia un problema psicosomatico, e orientando le ricerche sulle conseguenze degli aspetti affettivi sull’attività neuroendocrina, come ad esempio stress e stati emotivi mal regolati.

La seconda ipotesi pone l’attenzione sulle conseguenze psicologiche dell’infertilità nella coppia, focalizzando così le ricerche sull’osservazione delle reazioni emotive della coppia durante le varie fasi: diagnosi, trattamento medico e post-trattamento.

Infine, la terza ipotesi pone l’accento sulla relazione reciproca tra i fattori psicologici e l’infertilità.

La diagnosi di infertilità e le cure mediche concomitanti sono eventi piuttosto stressanti per la coppia e numerose ricerche, nel corso degli anni, hanno evidenziato che problemi di fertilità possono provocare una serie di sintomi negativi che rendono gli individui più vulnerabili sia da un punto di vista fisico sia psichico.

In particolare, viene evidenziato come persone e coppie infertili abbiano, o sviluppino durante il percorso, una serie di sintomi negativi come depressione, ansia, bassi livelli di autostima e mostrino stati di colpa, vergogna e rabbia, e altri sintomi psicosomatici che possono interferire con le procedure terapeutiche mediche. Ad esempio, uno studio recente di Eniko Lakatos e collaboratori ha rivelato che le donne infertili mostrano uno stato psicologico significativamente peggiore in termini sia di depressione sia di ansia rispetto a un gruppo di donne fertili o alla popolazione normale.

Nella coppia, questo si traduce in difficoltà di comunicazione e problemi sessuali, al di fuori si trasforma spesso in ritiro o, a volte, isolamento. Può quindi verificarsi una vera e propria crisi coniugale che produce effetti negativi sulla qualità di vita, sul benessere psicologico di ciascun partner, su un aumento dei conflitti e sulla relazione sessuale. Lakatos e collaboratori hanno rilevato che le donne infertili riferiscono più problemi sessuali e che questa problematica si associa ad aumento del livello di sintomi depressivi, ipotizzando che la preoccupazione sessuale potrebbe essere una manifestazione fondamentale della gravità dei problemi psicologici legati all’infertilità.

Nel 2004, all’interno delle linee guida dell’ESHRE (European Society of Human Reproduction and Embryology), è stato stabilito che i pazienti infertili siano seguiti anche da un punto di vista psicologico. Gli interventi di supporto per le coppie infertili si stanno quindi diffondendo nella pratica clinica come opportunità per dedicare loro uno spazio e un tempo nei quali discutere dei propri dubbi, delle proprie paure e di come l’infertilità ha influenzato la loro vita.  La coppia, di fronte a una diagnosi di infertilità, dovrà quindi intraprendere un percorso molto impegnativo di accettazione del problema, di fronteggiamento delle pressioni sociali, di elaborazione del lutto rispetto alla perdita ideale di sé e della propria immagine corporea, fino a giungere alla riflessione sull’importanza della genitorialità e sulla propria motivazione ad avere un figlio, per poter così decidere se affrontare il lungo iter dalla PMA (procreazione medicalmente assistita) o se trovare soluzioni alternative al figlio biologico.

Per approfondimenti

Bakhtiyar K., Beiranvand R., Ardalan A., Changaee F., Almasian M., Badrizadeh A., Bastami F., Ebrahimzadeh F. An investigation of the effects of infertility on women’s quality of life: A case-control studyBMC Women’s Health. 2019;19:114. doi: 10.1186/s12905-019-0805-3

Kainz, K. (2001). The role of the psychologist in the evaluation and treatment of infertility. Women’s Health Issues; 11(6): 481-485.

Lakatos E., Szigeti J.F., Ujma P.P., Sexty R., Balog P. (2017). Anxiety and depression among infertile women: a cross-sectional survey from Hungary. 17:48. doi: 10.1186 / s12905-017-0410-2.

Mitsi C., Efthimiou K., (2014). Infertility: psychological-psychopathological consequences and cognitive-behavioural interventions.  Psychiatrike= Psychiatriki – europepmc.org

Strauss, B. (2002).  Involuntary Childlessness. Psychological assessment, counseling, and therapy. Seattle: Hogrefe & Huber Publishers; 127-150.

Thorn, P. (2009). Infertility counselling: alleviating the emotional burden of infertility and infertility treatment. International Journal of Fertility and  Sterility.; 3(1): 1-4.

Foto di Vera Arsic da Pexels

Maternità e ossessioni

di Rossella Cascone

Quando preoccuparsi diventa un problema

La maternità e l’esperienza della gravidanza sono fasi di vita molto delicate che comportano uno sconvolgimento emotivo e di adattamento ai cambiamenti nello stile di vita e nelle relazioni.  L’insorgenza o la preesistenza di problemi di salute mentale in gravidanza possono comportare enormi difficoltà, interferendo con l’adattamento alla maternità, con la cura del neonato e con il rapporto con il compagno e con la famiglia.

Nell’articolo Gravidanza ed emozioni, abbiamo visto come esistano delle ansie specifiche legate alla gravidanza e come queste influiscano sulla madre e sul bambino.

I disturbi d’ansia in gravidanza hanno ricevuto minor attenzione rispetto ai disturbi dell’umore e, in particolare, alla depressione, nonostante la loro prevalenza sia altrettanto significativa. Individuarli non risulta sempre facile a causa della sovrapposizione di sintomi fisici e psichici propri dell’esperienza della gravidanza con i sintomi di un disturbo d’ansia specifico che può attivarsi o esordire nel periodo perinatale. Ad esempio, nausea, affaticamento e disturbi del sonno, sono sintomi fisici propri della gravidanza ma anche di uno stato ansioso in gravidanza. Ugualmente, possono essere presenti in entrambe le condizioni paure legate al proprio stato di salute e a quello del bambino, al timore del cambiamento del corpo e la paura del parto.

Molti degli studi che si sono interessati ai disturbi d’ansia durante la gravidanza e nel post-partum sottolineano come vi sia una significativa prevalenza dei disturbi d’ansia, tra cui il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), in questa delicata fase di vita.

I dati emersi dal lavoro di review di Jonathan Abramowitz, professore di psicologia e direttore della clinica Disturbi Ansia e Stress presso l’Università del North Carolina, evidenziano che durante la gravidanza il DOC ha una prevalenza che risulta di poco inferiore ai dati sulla popolazione generale, con un incremento nel terzo trimestre di gravidanza, mentre nel periodo post-partum risulta essere addirittura superiore.

Dai dati presenti in letteratura, emerge come le ossessioni presenti in gravidanza sono principalmente relative alla salute del bambino, come la paura di contaminarlo a causa di agenti chimici o dallo sporco presente nell’abitazione, con conseguenti rituali di controllo e pulizia, e anche richieste di rassicurazioni o continui controlli medici. Nel periodo del post-partum, invece, le ossessioni sembrano riguardare la paura di poter fare accidentalmente del male al proprio bimbo (in particolare, farlo cadere a terra o dalle scale), la paura di aggredirlo, creargli delle fratture tenendolo male in braccio o che il neonato soffochi nel sonno. A queste ossessioni, in alcuni casi seguono dei rituali di controllo o delle condotte di evitamento rispetto al trovarsi soli con il bambino.

Per quanto riguarda i fattori di rischio, uno studio della psichiatra Carla Fonseca Zambaldi e colleghi, condotto su un campione non clinico di 400 donne dopo il parto, ha evidenziato come fattori predisponenti al disturbo possano essere un’anamnesi personale di precedenti disturbi psichiatrici, presenza di malattie somatiche, complicanze ostetriche, parto cesareo ed essere già madri di altri bambini.

Il DOC nel periodo del post-partum se non viene adeguatamente trattato può essere estremamente debilitante, poichè la madre ha poco tempo ed energia per la cura di sé stessa e del bambino, essendo troppo provata dalle ossessioni e dalle compulsioni.

Quanto descritto fa riflettere sulle implicazioni potenzialmente negative che tale disturbo può avere per la maternità, il funzionamento coniugale, lo sviluppo infantile e il sostegno sociale e quanto sia importante intervenire in modo efficace e tempestivo.

La ricerca basata sui dati scientifici suggerisce che la psicoterapia cognitivo comportamentale è la terapia più efficace nella cura delle ossessioni e delle compulsioni. Nonostante non vi siano delle linee guida specifiche di intervento per il DOC post-partum esistono ricerche che hanno evidenziato l’efficacia del trattamento della terapia cognitivo–comportamentale su questa specifica patologia.

In particolare, sono interessanti gli esiti di un trattamento cognitivo-comportamentale intensivo per il Disturbo Ossessivo Compulsivo svolto da Victoria Oldfield e colleghi, condotto su un gruppo di 22 pazienti con diagnosi di DOC, comparati con un gruppo corrispondente (per età, genere e sintomatologia iniziale) sottoposto a trattamento settimanale: è emerso, infatti che sia il trattamento cognitivo comportamentale standard sia quello intensivo risultano efficaci.

La modalità intensiva può essere una risposta adeguata a situazioni di vita particolari, come il post-partum, in cui l’evoluzione del disturbo è rapida e vi è la necessità di intervenire sulla madre in modo da promuovere e preservare il normale sviluppo del bambino.


Per approfondimenti:

Abramowitz JS, Schwartz SA, Moore KM, Luenzmann KR. Obsessive-compulsive symptoms in pregnancy and the puerperium: a review of the literature. J Anxiety Disord 2003;17:461-78.

Oldfield, V., Salkovskis, P., & Taylor, T. (2011). Time-intensive cognitive behaviour therapy for obsessive-compulsive disorder: A case series and matched comparison group. British Journal of Clinical Psychology , 7-18.

Uguz, F., Gezgincb, K., Zeytincia, I.E., Karataylia, S., Askina, R., Gulerc, O., Sahind, F.K., Emulc, H.M., Ozbulutc, O., Gecicic, O. (2007). Obsessive-compulsive disorder in pregnant women during the third trimester of pregnancy. Comprehensive Psychiatry, 48, 441-445.

Zambaldi, C., Cantilino, A., Montenegro, A., Paes, J., Albuquerque, T., & Sougey, E. (2009). Postpartum obsessive-compulsive disorder: prevalence and clinical characteristics. Comprehensive Psychiatry , 503–509.

/2012/03/18/time-intensive-cbt-una-risposta-al-doc-post-partum/

Foto di Polina Tankilevitch da Pexels

Donne vittime del lockdown

di Rossella Cascone e Erica Pugliese

Durante l’isolamento sono aumentati gli episodi di violenza domestica. Ecco come chiedere aiuto

A partire dal 9 marzo scorso, per tutti gli italiani vi è stato l’obbligo di restare a casa e ridurre al minimo la circolazione e gli spostamenti se non per motivi di necessità. Inevitabilmente il periodo di lockdown ha prodotto effetti spiacevoli e negativi, in diversa misura, per tutti.

Come evidenziato da articoli di cronaca, per alcune donne la casa è diventata una trappola mortale. Le donne vittime di violenza domestica sono state costrette, infatti, a restare in casa a stretto contatto con i loro aguzzini, sole o con i propri figli. Questo ha comportato un rischio maggiore per la loro salute e per la loro incolumità, essendo più esposte a violenze sia fisiche sia verbali senza avere l’alternativa di fuggire per proteggere sé stesse e chi assiste inerme alla violenza.

I bambini e le bambine sono stati più frequentemente testimoni della violenza subita dalla loro madre, delle scene aggressive e delle minacce. A questo si aggiunge il vissuto emotivo che tale esposizione comporta e il senso di impotenza e di colpa per non essere in grado di contrastare tali violenze. Come dimostrato da diversi studi sulla violenza assistita, tutto questo comporta un’alterazione del loro benessere fisico e psicologico e una compromissione del loro sviluppo su vari livelli anche nel lungo termine.

L’isolamento da lockdown è stato sicuramente un’aggravante. Secondo un’organizzazione no profit cinese che lavora con le donne, il numero dei casi di violenza domestica nella provincia di Hubei è aumentato in maniera vertiginosa riportando, nel mese di febbraio, il doppio delle segnalazioni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le autorità francesi hanno denunciato un incremento delle violenze del 30% in questo periodo. In Turchia, nello specifico a Istanbul, la polizia dichiara un aumento del 40% degli episodi di violenza domestica denunciati. Secondo un rapporto Istat pubblicato a maggio e in linea con i dati europei, anche in Italia durante il lockdown le richieste d’aiuto sono incrementate del 73% rispetto allo stesso periodo del 2019.

Nonostante l’incremento dei casi di violenza e delle successive richieste d’aiuto, nella prima metà di marzo le chiamate al 1522, il numero nazionale antiviolenza e stalking, si sono ridotte del 55,1% rispetto all’anno scorso. Questo dato è legato al fatto che l’isolamento forzato ha incrementato la possibilità da parte dell’abusante di controllare e limitare la libertà della vittima. Inoltre, ha diminuito il supporto sociale, forte fattore protettivo contro la violenza domestica. La vittima, non potendo uscire, ha avuto delle difficoltà a trovare dei momenti disponibili per contattare i servizi di competenza e ricevere aiuto e un sostegno psicologico.

Un’altra ragione che può spiegare questo calo delle denunce risiede nel fatto che la coppia possa essersi trovata nella cosiddetta “fase della luna di miele” o comunque in un momento di “tregua”, ovvero in una fase del ciclo di violenza in cui si ricomincia a vivere più tranquillamente e alla donna possono essere fatte delle “concessioni”. Il motivo di questa calma apparente risiede nel fatto che il maltrattante esercita maggiore controllo sulla vittima e, di conseguenza, diminuiscono i pretesti più vari percepiti come “colpe” della partner.

La violenza è però sempre dietro l’angolo ed è quindi importante non sottovalutare i segnali di una relazione tossica.
D’altra parte, dall’osservazione clinica è risultato che le vittime hanno sfruttato ogni occasione a disposizione durante il lockdown per poter contattare i servizi antiviolenza: quando portavano a spasso il cane, quando andavano a fare la spesa o in farmacia e anche mentre buttavano la spazzatura.

Il 1522, il numero anti violenza e stalking, istituito dal Dipartimento delle Pari Opportunità è attivo 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno ed è gratuito. Nel caso in cui il clima di terrore renda difficile fare una telefonata, esiste anche un’applicazione che permette di chattare con un’operatrice del 1522. Su internet è disponibile, inoltre, un elenco dei Centri Antiviolenza presenti sul territorio nazionale che è possibile contattare in qualsiasi momento.

Anche la Polizia di Stato si è attivata per garantire la massima accessibilità al pronto intervento per le donne vittime di violenza. L’applicazione YouPol, ideata per contrastare bullismo e spaccio di sostanze stupefacenti nelle scuole, è stata aggiornata aggiungendo la possibilità di segnalare i reati di violenza domestica con le stesse modalità delle altre tipologie di segnalazione. Si può inoltre effettuare direttamente una chiamata al numero di emergenza unico (Nue) e le segnalazioni possono essere effettuate anche da chi è testimone diretto o indiretto della violenza, come ad esempio figli o vicini di casa.

Vi è infine la possibilità di contattare le varie associazioni che si occupano della violenza di genere e della violenza assistita che hanno attivato canali via chat per mettersi in contatto con un’operatrice e chiedere aiuto.

Se ti trovi in una situazione di violenza e non sai come uscirne o se conosci qualcuno in queste condizioni rompi il silenzio e chiedi aiuto.

Per approfondimenti:
/2019/10/23/i-5-segnali-di-un-amore-tossico/

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3384540/

https://www.sixthtone.com/news/1005253/domestic-violence-cases-surge-during-covid-19-epidemic

https://www.istat.it/it/files//2020/05/Stat-today_Chiamate-numero-antiviolenza.pdf

https://www.france24.com/en/20200410-french-domestic-violence-cases-soar-during-coronavirus-lockdown

https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/coronavirus_violenza_donne_turchia_quarantena-5155946.html

https://www.lastampa.it/cronaca/2020/03/19/news/l-altra-faccia-del-coronavirus-e-emergenza-violenza-sulle-donne-ecco-i-numeri-da-chiamare-per-chiedere-aiuto-1.38612088

 

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Papà tristi durante la gravidanza

di Rossella Cascone

La depressione perinatale paterna

L’attesa di un figlio e la sua nascita implicano grandi cambiamenti individuali e relazionali e possono provocare forti ansie e preoccupazioni. La maggior parte degli studi scientifici si sono concentrati sulla figura materna e sulla possibilità di sviluppare una sintomatologia depressiva, tralasciando che la gravidanza è un evento di coppia.

Nonostante sia vero che le donne manifestano un’incidenza maggiore delle sindromi depressive rispetto agli uomini, e che quindi sono considerate più a rischio di sviluppare una patologia in gravidanza, è importante sottolineare come anche i padri possano sviluppare psicopatologie della genitorialità.

Ricerche mostrano come oltre il 10% dei padri sperimenta depressione e ansia durante il periodo perinatale. Questa incidenza è alta e spesso sottostimata, anche se negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per l’argomento.

Il padre, nonostante viva un coinvolgimento diverso rispetto alla donna durante la gravidanza, prova e sperimenta forti emozioni come paura e gioia, ma anche gelosia, invidia e senso di esclusione dalla relazione tra mamma e figlio.

Con “Depressione Perinatale Paterna”, dal francese Depression Périnatale Paternelle (DPP), si definisce la manifestazione nel padre di una sintomatologia depressiva dall’inizio della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, caratterizzata da: tristezza, malinconia, irrequietezza, impotenza, umore depresso, disperazione, sconforto, costante preoccupazione, ansia elevata, perdita d’interessi, calo della libido, insonnia, crisi di rabbia, ipocondria e somatizzazione. A questi si associano anche acting out comportamentali come fughe, relazioni extraconiugali, disturbi del comportamento alimentare, dipendenze patologiche, attività fisiche o sessuali compulsive.

In Italia, una ricerca ha messo in evidenza il ruolo fondamentale del pediatra nel riconoscere la depressione post-partum all’interno della coppia somministrando loro un semplice test. Dall’indagine, condotta su un campione di 499 padri e 1122 madri, è emerso come alla prima visita il 26,6% delle madri e il 12,6% dei padri ha riportato un alto punteggio all’EPDS mentre, alla seconda visita, il 19,0% delle madri e il 9,1% dei padri, ha riportato un risultato al test che segnalava il rischio della malattia depressiva. Dati che dimostrano come la DPP è comune nella popolazione media.

Nella maggior parte degli studi condotti sul tema si ha conferma del fatto che i disturbi mentali della madre rappresentano un fattore di rischio per la Depressione Perinatale Paterna. In altri studi, il basso livello di soddisfazione di coppia, la coesione coniugale e gli alti livelli di stress perinatale sono stati individuati come fattori di rischio per lo sviluppo di ansia e depressione paterna e possono influenzare anche l’attaccamento dei padri ai loro figli. In particolare, elevati livelli di stress, in entrambi i sessi, possono presentarsi durante la gravidanza fino a diciotto mesi dal parto, soprattutto se il neonato ha un temperamento impegnativo, richiede continuamente attenzione, piange o dorme con difficoltà. Francine de Montigny e colleghi dell’Università del Québec, in Canada, sottolineano come questi aspetti sono percepiti come più stressanti dai padri rispetto alle madri. Gli studiosi hanno inoltre evidenziato come sperimentare un senso di inutilità, sentirsi inadeguato e percepirsi poco efficace come genitore costituiscano fattori predittivi per la depressione paterna.

Fra i fattori di rischio vi sono anche i tratti di personalità. Alcune ricerche, tra cui quella condotta nel 2010 da Franco Baldoni e Luisa Ceccarelli dell’Università di Bologna, hanno individuato nei padri con depressione post-natale la presenza di tratti depressivi e ansiosi, di un elevato grado di nevroticismo e di un basso livello di estroversione. In particolare, i tratti ansiosi possono emergere più marcatamente fra il terzo trimestre di gestazione e i primi due mesi di vita del bambino e sono caratterizzati da pensieri intrusivi e comportamenti volti a prevenire “danni irreparabili” alla mamma e al bambino, quasi del tutto sovrapponibili a quelli che si manifestano nel Disturbo Ossessivo Compulsivo.

Infine, lo scarso sostegno sociale e familiare rappresenta un ulteriore aspetto di vulnerabilità sia nelle madri sia nei padri.

Dagli studi fino ad oggi condotti, emerge come i disturbi depressivi paterni solitamente si inseriscono all’interno di una crisi di coppia, in cui vi è un basso consenso e una  scarsa coesione coniugale, associati a disturbi mentali nella partner. Attualmente non vi sono informazioni circa la conduzione dello screening sulla depressione perinatale paterna e sulle terapie più indicate ma la letteratura scientifica sottolinea come la terapia cognitivo comportamentale risulta molto efficace per il trattamento della depressione e della depressione post-partum. Nonostante i sintomi della depressione paterna siano tendenzialmente più lievi e maggiormente esternalizzanti rispetto alla depressione post-partum materna, vi sono casi in cui la sintomatologia risulta essere più marcata. In questi casi, l’intervento psicoterapeutico dovrebbe mirare alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva.  Inoltre, l’analisi delle ricerche più recenti mostra il diffondersi di terapie sulla prevenzione e sulla cura della depressione perinatale basate sulla mindfulness. Tale tecnica potrebbe essere applicata anche nella prevenzione della depressione perinatale paterna così da attuare un intervento con entrambi i genitori.

Per approfondimenti

  • Baldoni F., Ceccarelli L. (2010). “La depressione perinatale paterna. Una rassegna della ricerca clinica ed Empirica”, Infanzia e adolescenza, 9(2), 79 – 92.
  • Cicchiello S. (2015). “La depressione perinatale materna e paterna”, Psicoterapeuti in-formazione 15, 3 -36.
  • Currò V., De Rosa E., Maulucci S., Maulucci M.L., Silvestri M.T., Zambrano A., Regine V. (2009). “The use of Edinburgh Postnatal Depression Scale to identify postnatal depression symptoms at well child visit”. Italian Journal of Pediatry 28, 35, 1, 32
  • Demontigny F., Girard M.E., Lacharité C., Dubeau D., Devault A. (2013). “Psychosocial factors associated with paternal postnatal depression”. Journal of Affective Disorders 150, 1, 44-49.
  • Goodman J.K. (2004). “Paternal postpartum depression, its relationship to maternal postpartum depression, and implications for family health”. Journal of Advanced Nursery 45, 1, 26-35.
  • Letourneau N., Tryphonopoulos P.D., Duffett-Leger L., Stewart M., Benzies K., Dennis C.L., Joschko J. (2012). “Support intervention needs and preferences of fathers affected by postpartum depression”. Journal of Perinatal and Neonatal Nursing 26, 1, 69-80.
  • Paulson, J.F., Bazemore, S.D., (2010), “Prenatal and postpartum depression in fathers and its association with maternal depression: a meta-analysis”, JAMA vol. 303, 19.

 

Gravidanza ed emozioni

di Rossella Cascone

Gli effetti dell’ansia perinatale

La gravidanza è uno dei momenti più importanti nella vita di una donna. Molte donne non vedono l’ora di diventare mamme e vivere una gravidanza piacevole. D’altra parte, ci sono alcune disposizioni psicologiche e condizioni di vita che occasionalmente causano emozioni negative nella madre.

Nella visione collettiva della nostra società, la scoperta di una gravidanza è spesso vista come un momento di gioia desiderato dai futuri genitori. Altrettanto spesso, però, la donna può sperimentare emozioni contrastanti con l’immaginario collettivo della maternità.

Durante la gravidanza, si va incontro a molteplici cambiamenti e “inconvenienti” come nausee, aumento del peso, stanchezza, dolori addominali, faticabilità, che comportano un cambiamento dei ritmi abituali di una donna.

Da un punto di vista psicologico, a questi cambiamenti fisici si associano labilità emotiva, forte irritabilità e tante preoccupazioni per la propria salute e quella del nascituro. Vi è anche la paura per il parto e quella associata al diventare genitori.

Questi cambiamenti sono spesso accompagnati da emozioni altalenanti quali gioia, paura, ansia, sorpresa, rabbia, che, se affrontate in solitudine o comunque senza un sostegno emotivo, possono essere vissute con maggior intensità.

Numerose donne si possono sentire in colpa se non amano il periodo della gravidanza, scontrandosi con la visione idealizzata della maternità. Non è raro, infatti, che alla scoperta di essere incinta vi siano donne che non gioiscono per la notizia o che non provano fin da subito affetto per il feto che portano in grembo. In realtà, questi sentimenti sono del tutto normali e segnalano il grande lavoro che la mente sta facendo per adattarsi alla nuova realtà.

Un’altra problematica che può insorgere nel secondo e terzo trimestre di gravidanza, quando vi è un aumento di peso e la pancia risulta più visibile, è la preoccupazione per la propria immagine corporea. Molte donne vivono bene questi cambiamenti, altre invece tendono a preoccuparsi, in alcuni casi eccessivamente, dell’aumento di peso e del recupero della forma fisica dopo il parto. Molto spesso ci si trova a confrontarsi con le esperienze delle proprie madri o amiche che hanno avuto una gravidanza e può succedere che il paragone con le esperienze altrui porti a vivere male la propria. Questi cambiamenti nell’aspetto, nella forma e nell’attrattiva di una donna possono suscitare un complicato insieme di sentimenti.

Un’emozione molto comune in gravidanza è la paura. Nel primo trimestre può essere legata al timore di un aborto o a quello di fare qualcosa che possa nuocere alla salute del bambino. Nel secondo trimestre potrebbero sorgere paure per le immense responsabilità derivanti dal prendersi cura del neonato e quelle legate al desiderio di essere una buona madre. Vi potrebbe essere, infine, la paura di soffrire per il parto e la preoccupazione che qualcosa possa non andare bene durante il travaglio.  In gravidanza, ansia e paura vanno spesso di pari passo. Vi sono situazioni in cui la fragilità emotiva, molto comune in gravidanza, associata a un’eccessiva preoccupazione, può sfociare in veri e propri stati di ansia o di depressione.

L’ansia provata in gravidanza ha uno specifico significato ovvero quello di attivare e preparare psicologicamente la donna al travaglio, al parto e al post-partum. Nei casi positivi questi livelli di ansia materna sono moderati e transitori, mentre nel caso in cui persistono e risultano invalidanti, l’ansia può divenire patologica.

Nello studio sull’ansia sono state identificate alcune ansie specifiche, le Pregnancy Specific Anxiety (PSA), che possono esordire e influenzare negativamente la gravidanza. Quelle più presenti in letteratura riguardano il parto e la salute del feto, in particolare timore per la presenza di anomalie o per la morte in pancia.

Recenti studi relativi al periodo gestazionale evidenziano come in oltre il 25% delle donne vi sia un aumento dei livelli di ansia clinica nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza, mentre nel secondo trimestre queste ansie hanno un declino.

Vi sono molte prove scientifiche che mostrano come l’ansia della gravidanza non influisca solo sulla salute delle donne ma ha anche un impatto sul parto e sul basso peso del bambino alla nascita. Alcune ricerche rilevano una continuità dell’ansia patologica fra pre e post parto, anche se dopo il parto il livello di ansia clinica tende a decrescere. Durante il periodo perinatale, l’ansia patologica può presentarsi in comorbidità con la sintomatologia depressiva.

Per tale ragione, quando le preoccupazioni assumono caratteristiche di forte pervasività, attraverso pensieri e immagini che risultano difficilmente controllabili e che portano a stati affettivi negativi, è importante che le ansie specifiche della gravidanza siano considerate fattori di rischio per la relazione madre-bambino in quanto perdono la specifica funzione adattativa.

Per approfondimenti

Carmona Monge F.J., Penacoba-Puente C., Morales D.M., Abellàn I.C. (2012). Factor structure, validity and reliability of the Spanish version of the Cambridge Worry Scale. Midwifery, 28, 112-119.

Catov J.M., Abatemarco D.J., Markovic N., Roberts J.M. (2010) Anxiety and optimism associated with gestational age at birth and fetal growth. Maternal and Child Health Journal, 14 (5), pp. 758-764.

Dunkel Schetter C. (2010). Psychological science on pregnancy: stress processes, biopsychosocial models, and emerging research issues. Annu Rev Psychol.;62:531–558.

Dunkel Schetter C., Tanner L., 2012. Anxiety, depression and stress in pregnancy: implications for mothers, children, research, and practice. Cur. Opin. Psychiatry, 25, 141-148.

Grant K.A., McMahon C., Austin M.P. (2008). Maternal anxiety during the transition to parenthood: A prospective study. Journal of Affective Disorders 108, 101-111.

Hart, R., McMahon, C.A. (2006). Mood state and psychological adjustment to pregnancy. Archives of Women’s Mental Health, 9, 329-337.

Hernandez-Martinez C., Val V.A., Murphy M., Busquets P.C., Sans J.C . (2011). Relation between positive and negative maternal emotional states and obstetrical outcomes. Women and Health, 51 (2), pp. 124-135.

Huizink A.C., Mulder E.J.H., de Medina P.G.R., Visser G.H.A., Buitelaar J.K. (2004). Is pregnancy anxiety a distinctive syndrome? Early Human Development, 79(2), 81-91.

Lee A.M., Lam S.K., Mun Lau S.M.S., Chong C.S.Y., Chui H.W., Fong D.Y.T., (2007). Prevalence, course, and risk factors for antenatal anxiety and depression. Obstetrics and Gynecology, 110, 1102-1112.

Lobel M., Cannella D.L., Graham J.E., DeVincent C., Schneider J., Meyer B.A. (2008). Pregnancy-specific stress, prenatal health behaviors, and birth outcomes. Health Psychology, 27 (5), pp. 604-615.

Reck C., Struben K., Backenstrass M., Stefanelli U., Reinig K., Fuchs T. et al. (2008). Prevalence onset and comorbidity of postpartum anxiety and depressive disordersActa Psychiatrica Scandinavica, 118(6), 459-468.

Rubertsson C., Hellstrom J., Cross M., et al (2014). Anxiety in early pregnancy: prevalence and contribuiting factors. Archives of Women’s Mental Health, 17(3),221-228.

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Fame emotiva ai tempi del Coronavirus

di Rossella Cascone

L’ emotional eating è un comportamento alimentare che rappresenta una delle principali cause dell’instaurarsi di una relazione conflittuale con il cibo

Il cibo desta da sempre molto interesse nelle persone, risulta una fonte di benessere e lo si accomuna spesso a eventi sociali ed emotivi che esulano dalla fame.

In particolare, il “confort food” è un cibo consolatorio che si associa a momenti piacevoli del passato o che permette di affrontare un momento difficile: le persone lo consumano perché ritengono possa aiutarle a gestire delle situazioni critiche, come ridurre lo stress o emozioni di noia, rabbia, ansia. In questo modo, si mangia senza realmente essere affamati.

A causa dell’attuale emergenza sanitaria, ogni individuo sperimenta differenti emozioni, fondamentali per il suo funzionamento ma che lo rendono più vulnerabile.

Ansia e angoscia per l’imprevedibilità della minaccia, solitudine e tristezza per le ridotte, se non inesistenti, relazioni sociali, sono tra le principali emozioni provate, ma anche senso di colpa per un possibile contagio dei cari (pensiamo, ad esempio, al personale sanitario), o semplicemente noia perché non si sa come occupare le giornate.

Uno dei rischi che si corre in questi giorni in cui si è costretti a restare in casa per l’emergenza Coronavirus, è proprio quello di consolarsi con il cibo, ricercando un conforto in esso.

Il mangiare spinti da “cause” emotive o in relazione a stati emotivi (emotional eating) è un comportamento alimentare che rappresenta una delle principali cause dell’instaurarsi di una relazione conflittuale con il cibo, che può dare luogo, in casi più gravi, al disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder).

Questo comportamento spesso viene messo in atto in modo automatico, senza averne consapevolezza, e non risolve i problemi emotivi ma, al contrario, li aggrava, poiché alle emozioni negative si associa il senso di colpa per aver mangiato “troppo” o cibi non necessari e dannosi. In questo modo si tende a peggiorare lo stato psicofisico della persona.

Al contrario della fame fisica, ovvero lo stimolo che avverte della necessità dell’organismo di ricevere nutrienti, la fame emotiva arriva quando processi cognitivi, di pensiero, fanno venire la voglia di un determinato cibo. Per tale ragione, risulta essere improvvisa e urgente, anche se si è finito di mangiare da poco tempo, si manifesta con insistenza ed è molto specifica (“ho proprio voglia di gelato”), e non si frena quando il senso di pienezza è stato raggiunto.

La fame emotiva viene avvertita nella testa e non nello stomaco, pensando al sapore e all’odore del cibo di cui si ha voglia, ed è caratterizzata da un mangiare inconsapevole che porta a finire una scatola di biscotti o una busta di caramelle senza averle assaporate.

Inevitabilmente, questo comportamento genera un senso di colpa che può essere seguito, in alcuni casi, da un’emozione di vergogna.

È chiaro che non è sempre sbagliato utilizzare il cibo come mezzo per sentirsi meglio, lo diventa se ogni volta che si è stanchi, arrabbiati o delusi si fa ricorso al cibo per sentirsi meglio.

Succede spesso che le persone non sappiano definire bene il sentimento negativo che provano e che tendano a mangiare quando l’emozione non è “etichettata”. Inoltre, all’interno del mondo dei “mangiatori emotivi”, si incontrano persone consapevoli di esserlo ma che, incastrati in questo circolo vizioso, non riescono a uscirne. Vi sono poi i “mangiatori emotivi” inconsapevoli, che rappresentano la maggioranza del gruppo, i quali associano le problematiche legate al peso a credenze erronee come metabolismo lento, problemi ormonali o problemi alla tiroide, i quali credono che un medicinale o un intervento risolva il problema. Anche in questo caso, oltre a un atteggiamento deresponsabilizzante, vi è una scarsa consapevolezza.

Per spezzare il circolo doloroso dell’emotional eating è di fondamentale importanza conoscere e saper identificare le proprie emozioni ed esprimerle. Di fatto, imparare a riconoscere l’emozione che scatena la fame emotiva è un passo importante per imparare a gestire la dipendenza dal cibo e quindi per cambiare le abitudini.

In questo momento di emergenza, una delle attività ricreative o di “distrazione” è inevitabilmente mettersi ai fornelli e cucinare.

Uno dei modi per contrastare la fame emotiva è puntare alla qualità del cibo, riducendo le quantità, e impegnando il proprio tempo nella preparazione di piatti particolari ed elaborati, evitando di mangiare in piedi e correre in dispensa quando si ha un attacco di fame.

Bisogna però ricordare che nei momenti critici non vi è solo il cibo: concentrarsi su attività di svago o passioni accantonate, condividere le proprie emozioni con persone di fiducia sono valide alternative che possono essere d’aiuto.

Per approfondimenti

American Psychiatric Association (2013), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Tr. It. Masson, Milano 2004.

Beck  J.S. “Dimagrire con il metodo Beck: impara a pensare magro”, Trento, Edizioni Centro Studi Erickson, 2008.

Medde P., Reposati A. “Psicologia e alimentazione: 5 passi per controllare la “fame emotiva”, . Roma, 2014, https://www.ordinepsicologilazio.it/risorse/psicologia-e-alimentazione/ (consultato il 29 marzo 2020).

Smith M., Segal J., Segal R. “Emotional Eating and How to Stop It”, 2019, https://www.helpguide.org/articles/diet-weight-loss/emotional-eating.htm