Il tema del rigore scientifico nell’ascolto del paziente al workshop internazionale sulla psicopatologia sperimentale
Si è recentemente conclusa la terza edizione del Rome Workshop on Experimental Psychopathology (RWEP), l’unico workshop internazionale sulla psicopatologia sperimentale al quale sono orgogliosa di non essere mai mancata. RWEP è un luogo di incontro e di scambio, dove ricercatori e clinici di tutto il mondo possono dialogare, presentando i loro ambiti di indagine e di intervento e sottolineando luci e ombre della psicopatologia.
Ho ascoltato con interesse numerose ricerche volte a mettere in luce i processi di base che generano e mantengono i disturbi mentali e i meccanismi che consentono a una terapia di risultare efficace. Ciò che ha colpito maggiormente la mia attenzione è stato un fortuito e inaspettato fil rouge comune alla maggior parte delle main lectures. Leggi tutto “Rome Workshop on Experimental Psychopathology 2017”
Il contributo di Chirstine Purdon al Workshop di Experimental Psychopathology
Il 26 e 27 maggio 2017 si è tenuto a Roma il Workshop di Experimental Psychopathology, un’occasione di approfondimento e confronto sulle più recenti ricerche internazionali nell’ambito della psicopatologia. Ricercatori e professori hanno portato i loro contributi dai rispettivi Paesi di provenienza (Belgio, Canada, Israele, Gran Bretagna, Islanda, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Serbia e Svizzera), coordinati dall’Associazione di Psicologia Cognitiva e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma.
In questo articolo verrà riportato brevemente l’intervento di Chirstine Purdon, docente all’Università di Waterloo, in Canada, con i risultati di alcune ricerche finalizzate a una maggiore comprensione delle compulsioni osservabili nei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). Le compulsioni indicano comportamenti ripetitivi (per esempio lavarsi le mani, mettere in ordine, controllare, etc.) o degli atti mentali (pregare, contare) che l’individuo si sente costretto a mettere in atto in risposta a un pensiero ossessivo o a delle regole rigide che “deve” rispettare. Il fine delle compulsioni (agite o mentali) sarebbe di eludere o ridurre l’ansia o lo stress, o, irrealisticamente, di prevenire che accadano eventi o situazioni temuti. Nelle sue ricerche, la Purdon si è concentrata soprattutto su quest’ultimo aspetto, cioè: quali sono gli scopi sottesi alle compulsioni? E ancora: quali sono le regole di “stop” che fanno sì che l’individuo interrompa le compulsioni?
In quattro studi che hanno coinvolto pazienti con DOC, considerando anche i diversi sottotipi di disturbo (per esempio i “washer”, cioè chi usa rituali di lavaggio, e i “checker”, chi invece tende a controllare e ri-controllare qualcosa), sono state manipolate diverse variabili (induzione di sporco, diversi livelli di responsabilità e altre) con lo scopo di indagare quando i pazienti riuscivano a sospendere le compulsioni e cosa permetteva loro di sospendere tali attività.
Nell’insieme, i risultati hanno rivelato che i motivi per cui una persona mette in atto le compulsioni includono, oltre alla riduzione dell’ansia, il timore di poter essere considerato responsabile di un danno da parte degli altri, da se stesso, o ancora, il tentativo di evitare dei danni, il senso di colpa associato e un generale senso di sollievo (o purificazione, nei washer). Un aspetto ulteriormente interessante che è emerso riguarda il dialogo narrativo interno che spingeva o accompagnava il comportamento compulsivo dei pazienti che hanno riportato messaggi a contenuto critico, punitivo o colpevolizzante, contraddistinti da un tono neutro ma dominante, e con un senso di impellenza. La Purdon attribuisce a questa voce interna un senso di autorità che spinge il paziente a eseguire urgentemente la compulsione, pena un’infrazione etico-morale. Il dialogo interno contribuirebbe a creare e mantenere nell’individuo un senso di incapacità di giudizio, di fallimento e inadeguatezza, caratteristiche di personalità riscontrabili nel DOC. I dati suggeriscono, inoltre, che l’interruzione della compulsione avviene non solo per il raggiungimento di un senso di completezza/soddisfazione (“I feel right”), quanto per l’intervento di un’esigenza imminente esterna (per esempio essere in ritardo o il sopraggiungere di un’altra persona) che “costringe” all’interruzione. Questo arresto forzato causato da un evento esterno distoglierebbe/de-legittimerebbe dall’eventuale accusa di responsabilità di un possibile danno da parte degli altri.
Nell’insieme, questi dati danno un importante suggerimento clinico. Oltre all’intervento classico di tipo cognitivo-comportamentale, il compito dello psicoterapeuta è quello di aiutare il paziente a fidarsi maggiormente dei propri giudizi, intervenendo sulla sua capacità di regolare da solo l’attuazione e la sospensione di eventuali comportamenti compulsivi, senza doversi rifare alle regole di una voce punitiva e sprezzante, che viene percepita dall’individuo come autoritaria e, soprattutto, insindacabile.
Da poco si è concluso (20-21 Marzo 2015) il secondo Rome Workshop on Experimental Psychopathology organizzato dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC di Roma, e sponsorizzato dalla Società Italiana Terapia Comportamentale e Cognitiva SITCC. Il workshop è stato dedicato alla presentazione e discussione di studi empirici rilevanti per la psicopatologia sperimentale. I partecipanti di questa edizione sono stati ricercatori, dottori di ricerca e professori provenienti da diversi Istituti universitari e centri di ricerca nazionali (Trento, Napoli, Roma) e internazionali (Regno Unito, Belgio, Irlanda, Spagna, Serbia, Israele, Olanda, Germania, USA). Il workshop è stato aperto da Francesco Mancini (SPC, Roma), membro della Commissione Scientifica e Organizzativa del workshop insieme a Carlo Buonanno (SPC, Roma) Alessandro Couyoumdjian (Sapienza Università di Roma), Andrea Gragnani (SPC, Roma), Cristina Ottaviani (Fondazione Santa Lucia, Roma), Nicola Petrocchi (Sapienza Università di Roma), Katia Tenore (SPC, Roma), Roberta Trincas (SPC, Roma). In questa edizione le due giornate sono state strutturate in quattro sessioni orali riguardanti temi specifici: la psicopatologia, le neuroscienze, i bias e i processi cognitivi, i metodi di trattamento della psicopatologia; e una sessione poster.
Il primo intervento è stato quello di Graham Davey (Sussex University, UK), A Manual for Experimental Psychopathology: Developing Valid Psychological Models of Psychopathology using Healthy Individuals, che ha elaborato un’analisi critica dei metodi di ricerca utilizzati nell’ambito della psicopatologia sperimentale. Molto interessante la sua argomentazione, semplice e inattaccabile, che i modelli psicopatologici debbano individuare meccanismi universali di funzionamento dei processi cognitivi di base, per cui non ha alcun senso limitare la ricerca a popolazioni cliniche. A seguire, gli interventi si sono concentrati sulle caratteristiche di differenti psicopatologie, l’importanza della disperazione come fattore che favorisce la vulnerabilità cognitiva alla depressione (Igor Marchetti; Università di Ghent, Belgio), la percezione del controllo nella depressione (Rachel Msetfi; Università di Limerick, Irlanda), gli schemi cognitivi in pazienti con deliri paranoidei (Ljiljana Mihic, Università di Novi Sad, Serbia), il modello Seeking Proxies for Internal States (SPIS) come possibile spiegazione del dubbio e dei rituali nel DOC (Reuven Dar, Università di Tel Aviv, Israele), la prestazione del narcisista in condizioni di minaccia (Barbara Nevicka, Università di Amsterdam, Olanda).
La sessione di neuroscienze ha visto tre interventi inerenti il possibile ruolo delle cortecce posteriore e prefrontale nello sviluppo del DPTS (Gudrum Sartory, Università di Wuppertal, Germania), il ruolo del glucosio e dell’ippocampo nella generalizzazione dell’ansia (Laura Luyten, Università di Leuven, Belgio), e il ruolo della corteccia prefrontale nello sviluppo del bias attentivo verso la minaccia (Laura Sagliano, Università di Napoli, Italia). I contributi della sessione sui bias e sui processi cognitivi sono stati diversi, dagli effetti della pre-esposizione ad un contesto simile a quello di condizionamento sulla generalizzazione della paura (Dieuwke Sevenster, Università di Leuven, Belgio), all’influenza dello stato motivazionale sull’elaborazione attentiva di cue inerenti il cibo (Jessica Werthmann, King’s College di Londra, UK), agli effetti delle strategie di regolazione emotiva nell’esecuzione di compiti di decision making (Cinzia Giorgetta, CNR – ISTC Trento, Italia).
La sessione sulla psicoterapia ha compreso interventi riguardanti l’efficacia di differenti tecniche di trattamento: la Schema Therapy per la depressione cronica (Fritz Renner, Università di Maastricht, Olanda), un programma di training sul controllo cognitivo per i sintomi depressivi (Ernst Koster, Università di Ghent, Belgio), un protocollo cognitivo-comportamentale di prevenzione per i figli di genitori affetti da depressione, PRODO (Kornelija Starman, Università di Monaco, Germania). Inoltre, diversamente rispetto allo scorso anno, è stata introdotta una sessione per gli studenti (tirocinanti, specializzandi, dottorandi) in cui ogni lavoro ha ricevuto un commento da uno dei senior (Graham Davey dell’Università di Sussex, UK; Marcel Van den Hout dell’Università di Utrecht, Olanda; Alessandro Couyoumdjian dell’Università La Sapienza di Roma, Ernst Koster dell’università di Ghent, Belgio; Reuven Dar dell’Università di Tel Aviv, Israele; Richard McNally dell’Università di Harvard, USA). Quest’ultima è stata una buona opportunità per gli studenti che hanno ricevuto un feedback da esperti nel settore, e il dibattito è stato acceso e costruttivo. In questa sessione gli interventi sono stati ricchi e interessanti, e hanno toccato diversi argomenti: l’influenza dell’umore triste sull’autostima implicita (Lonneke van Tuijl, Università di Groningen, Olanda) e sull’elaborazione sensoriale (Katharina Koch, Sapienza Università di Roma, Italia), gli effetti del pensiero astratto di tipo “why” sulla memoria di lavoro (Jens Van Lier, Università di Leuven, Belgio), l’effetto della ruminazione sulle funzioni esecutive (Jelena Sokic, Università di Novi Sad, Serbia), l’elaborazione inconsapevole dell’espressione della rabbia nell’ansia sociale (Nikola Samac, Università di Novi Sad, Serbia), la ruminazione nell’età evolutiva e la sua relazione con lo stile genitoriale, i parametri psicofisiologici e le caratteristiche di tratto (Blu Cioffi, Sapienza Università di Roma, Italia).
Quest’anno i Keynote Speakers sono stati: Richard McNally (Università di Harvard, USA), Marcel Van den Hout (Università di Utrecht, Olanda); Richard Bentall (Università di Liverpool, UK), e Nira Liberman (Università di Tel Aviv, Israele). McNally (titolo della lecture: Experimental and network analyses of PTSD and complicated grief) e Van den Hout (titolo della lecture: Network theory and the experimental psychopathology of OCD) hanno entrambi dedicato il loro intervento ad un nuovo approccio alla psicopatologia basato sulla “network analysis”. In questo approccio la visione tradizionale secondo la quale i sintomi costituiscono le manifestazioni visibili di disturbi sottostanti che ne sono la causa è considerata fuorviante in psicopatologia. Piuttosto, secondo questa prospettiva dovremmo considerare che i disturbi sono collezioni di sintomi concatenati tra loro, e che pertanto anche la psicoterapia non deve far altro che individuare le manifestazioni sintomatiche, quali ad esempio l’ansia o la tristezza, capire come funzionano e agire in modo da ridurre queste manifestazioni, a partire dalle più rilevanti. Una volta concentrata l’attenzione sui sintomi, si possono costruire delle reti di interconnessione tra sintomi che tendono a presentarsi insieme, e in tal modo individuare quali sintomi sono “centrali” in una determinata sindrome. Secondo questo modello “a rete”, più un sintomo è centrale, più la sua remissione potrà agire “a cascata” sulla remissione degli altri sintomi e quindi sulla risoluzione del disturbo stesso.
L’intervento di Bentall (From social risk factors to psychotic symptoms) ha dimostrato con dati e argomenti assai convincenti la natura assiomatica dell’idea che i disturbi psicotici siano determinati geneticamente, per arrivare a concludere, sempre sulla base di solide prove empiriche derivate da numerosi studi epidemiologici, che i principali fattori predittivi di psicosi sono di natura sociale. Non sorprende che tra questi fattori cosiddetti “sociali”, spicchino per rilevanza i maltrattamenti e in particolare quelli subiti in età infantile. La visione in generale è che i disturbi più gravi siano primariamente connessi ad una diffusa mancanza di una adeguata rete di supporto sociale.
L’intervento conclusivo è stato quello della Liberman (Transcending psychological distance: a Construal Level Theory perspective), che ha presentato un modello che dimostra quanto la prospettiva, ovvero la distanza psicologica che assumiamo, possa influenzare i nostri processi cognitivi e, in particolare, quelli decisionali. In generale, la posizione sostenuta dalla Liberman è che prendere le distanze favorisca processi cognitivi più astratti e, quindi, in ultima analisi più efficaci. Tuttavia, questo effetto, diceva la relatrice rispondendo a una domanda, potrebbe non valere in tutti i casi. Ad esempio, i pazienti affetti da DOC sembrano eccedere in senso opposto, divenendo eccessivamente accurati nelle loro valutazioni. Nello stesso senso, si notava che le terapie di terza generazione mindful-based sembrano invitare ad assumere una prospettiva più prossimale, orientata al presente. La Liberman stessa suggeriva la possibilità che la patologia possa risiedere nella scarsa capacità di modulare la prospettiva, da vicino a lontano, a seconda delle circostanze.
Per concludere, in generale la partecipazione al workshop è stata prevalentemente internazionale e le ricerche presentate sono state di livello elevato dal punto di vista scientifico. Sono stati, inoltre, numerosi i riferimenti alle difficoltà di ottenere fondi e visibilità per questo settore di ricerca. E’ un peccato che la tradizione di ricerca sui processi di base, che tanto è tornata utile alla psicologia clinica sia in termini di metodo sia in termini di conoscenze acquisite, stia attualmente cedendo il passo; e in particolare è un peccato che ceda il passo per una fascinazione a volte un pò acritica nei confronti delle neuroscienze e della genetica. Per questi motivi, l’intento di questo workshop è proprio quello di portare avanti e accrescere una rete internazionale focalizzata prevalentemente sui meccanismi di base della psicopatologia.
PS. Si ricorda che a breve verrà pubblicato il libro degli abstract del RWEP 2015 e i video delle main relation.
L’intervento di Richard Bentall* per il Rome Workshop on Experimental Psychopathology (20 e 21 Marzo) ha preso in analisi il ruolo di diversi fattori sociali di rischio nell’insorgenza della schizofrenia. La teoria eziologica del Prof. Bentall parte dall’analisi di una serie di ricerche epidemiologiche che suggerirebbero un potenziale rischio per tutta la popolazione di sviluppare sintomi psicotici, perché questi sono identificabili lungo un continuum che parte da un funzionamento cognitivo normale. Esistono però dei fattori sociali e ambientali di rischio (oltre a quelli genetici) che farebbero la differenza nel determinare chi possa poi effettivamente manifestare sintomi psicotici nel corso della sua vita. Primo fra tutti: l’ambiente nel quale si vive. Vivere in ambiente urbano costituisce un pericolo per la salute mentale, non tanto perché le città sono caotiche, sporche e pericolose: ma perché, sottolinea Bentall, nelle grandi città è più evidente la disparità sociale, fonte di stress per l’individuo. In una metropoli è più probabile essere esposti a una convivenza tra persone molto ricche e persone molto povere; questo fenomeno è invece meno evidente nei piccoli centri. Ciò che cambia, inoltre, è l’entità del supporto sociale a disposizione nei due diversi luoghi: una variabile che costituisce un importante fattore di protezione per la salute mentale. Vivere in città espone inoltre le persone a conformarsi a una serie di strutture (sociali, culturali, politiche, economiche) che rendono impossibile il controllo sull’immediato contesto sociale, agendo come fonte di stress/emarginazione per le persone che non fanno parte (o che non sentono di far parte) della comunità. Questi fenomeni sono meno frequenti nei contesti rurali, perché è diversa la loro struttura sociale (Oher et al., 2014). In altre parole, se è vero che si hanno più probabilità di sopravvivenza se si viene colpiti da un attacco di cuore e si vive Roma, anziché in un villaggio in Africa, può essere verosimile che accada l’opposto per la malattia mentale.
Il discorso di Bentall ha trattato anche l’aspetto di specificità di sintomi: sintomi positivi, in particolare la paranoia, sono più facilmente osservabili in contesti urbani piuttosto che rurali. Considerato inoltre che i sintomi di paranoia possono essere una conseguenza di episodi di vittimizzazione, trauma e discriminazione, Bentall sostiene che tali tipi di avvenimenti possono accadere più di frequente in ambienti urbanizzati e altamente popolati. Oltre ai fattori legati all’ambiente di residenza, Bentall si è concentrato sul trauma come ulteriore fattore sociale di rischio per la manifestazione di sintomi psicotici. Maltrattamento (abuso fisico, psicologico e sessuale, neglect), vittimizzazione (bullismo), esperienze di perdita o separazione da un genitore, stile di comunicazione parentale vago, frammentato, o contraddittorio, sono tutti fattori di rischio per lo sviluppo di una psicosi (de Sousa et al., 2013). Ma quanto è forte l’effetto del trauma sullo sviluppo della schizofrenia? Secondo Bentall, è paragonabile al rischio di contrarre un tumore nei fumatori abituali. Secondo i risultati di una recente metanalisi (Varese et al., 2012) circa 150.000 persone non svilupperebbero il disturbo se si avesse la possibilità di eliminare tali fattori di rischio. Ritornando al discorso della specificità, anche in questo caso è possibile identificare un’associazione tra trauma sessuale e sintomi allucinatori, mentre esiste una forte correlazione tra sintomi paranoidei e neglect. L’intervento del Prof. Bentall si è concluso con due importanti messaggi, diretti alla comunità scientifica e alle Istituzioni: aprirsi alla possibilità di un trattamento della schizofrenia focalizzato su trauma e teoria dell’attaccamento, e fornire maggior peso al ruolo dell’insicurezza lavorativa, dell’isolamento sociale, della povertà, della vita in contesto urbano nella spiegazione dell’insorgenza della schizofrenia.
* Richard Bentall è Docente di Psicologia Clinica presso l’Università di Liverpool, UK. I suoi lavori sulla manifestazione della schizofrenia e sulla spiegazione dei sintomi allucinatori e paranoidei sono ampiamente conosciuti e condivisi dalla comunità scientifica internazionale. Suo l’intervento al RWEP2015 dal titolo “From social risk factors to psychotic symptoms”.
Bibliografia citata
de Sousa, P., Varese, F., Sellwood, W., & Bentall, R. P. (2013). Parental communication and psychosis: a meta-analysis. Schizophrenia bulletin, 40 (4): 756-768.
Oher, F. J., Demjaha, A., Jackson, D., Morgan, C., Dazzan, P., Morgan, K., Bentall, R.P., & Kirkbride, J. B. (2014). The effect of the environment on symptom dimensions in the first episode of psychosis: a multilevel study. Psychological medicine, 44(11), 2419-2430.
Varese, F., Smeets, F., Drukker, M., Lieverse, R., Lataster, T., Viechtbauer, W., … & Bentall, R. P. (2012). Childhood adversities increase the risk of psychosis: a meta-analysis of patient-control, prospective-and cross-sectional cohort studies. Schizophrenia bulletin, 38(4), 661-671).
L’intervento di D.M. Clark (Oxford University, UK) al Workshop on Experimental Psychopathology (RWEP) tenutosi a Roma, il 28 Febbraio – 1 Marzo 2014 inizia con l’osservazione secondo cui, nell’arco della loro vita, molte persone sembrano avere difficoltà nell’interazione con gli altri, ma che solo una piccola parte di queste sviluppa una Fobia Sociale (FS) conclamata. “Come mai?”, si chiede Clark.
Secondo le ultime stime, negli USA, la prevalenza della FS è del 7% e circa 1/3 delle persone che nell’arco della loro esistenza soffre di sintomi di ansia sociale migliora e guarisce spontaneamente. L’età di esordio del disturbo si colloca verso i 13 anni (e durante tutto l’arco dell’adolescenza). La FS si presenta spesso in comorbilità con sintomi depressivi, abuso di alcol e sostanze ed è spesso accompagnata da tentativi suicidari. Secondo gli ultimi dati la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è efficace nel 40% dei casi.
I punti principali da affrontare secondo l’autore e Wells (1995), nel modello sulla FS comprendono:
Il focus sul sé, invece che sugli altri e su quello che accade nel contesto reale.
L’utilizzo di informazioni interne, piuttosto che esterne, per valutare ed interpretare l’immagine di sé che hanno gli altri. Frasi tipiche sono: “Se mi sento ansioso significa che sembro ansioso anche agli altri”, “Gli altri possono certamente vedere quanto sono ansioso”, etc.. Diverse ricerche (Mansell et al., 2003; Hirsch, Mansell & Clark, 2004) hanno mostrato in modo abbastanza univoco che, quando ci si sente agitati, automaticamente si tende a sovrastimare il livello di ansia che traspare all’esterno (mood as information bias). Di fatti, i pazienti con FS che vengono filmati e a cui poi viene mostrato il loro video, solitamente si sorprendono per quanto osservano! In altre parole, essi si aspettano di sembrare molto più nervosi e ansiosi di quanto, invece, non appaiano nei video (“Ma sono molto meno rosso di quanto non pensassi!”).
L’utilizzo di safety behaviours(comportamenti protettivi/di sicurezza), in modo da evitare la catastrofizzazione delle situazioni sociali e il mantenimento di bias che mantengono le convinzioni fobiche. Se, per esempio, una persona, in situazioni sociali, è costantemente concentrata nel memorizzare e nel rassicurarsi sui propri comportamenti ansiosi, finirà per non prestare attenzione alla relazione in corso, trasmettendo agli altri sensazioni di distacco o scarso interesse che, inequivocabilmente, finiscono per confermare lo scarso coinvolgimento altrui nella relazione e, quindi, le convinzioni negative del paziente (cicli interpersonali negativi confirmatori).
Un altro aspetto fondamentale che sembra contribuire all’esordio della FS, è caratterizzato dall’aver vissuto esperienze traumatiche (Wild & Clark, 2011). In queste occasioni i pazienti possono aver vissuto direttamente o assistito a situazioni ansiose o associate alla vergogna che possono avere avuto un ruolo nello sviluppo dell’ansia sociale.
Condivisione del modello personalizzato con il paziente.
Promozione di esercizi che mostrano gli svantaggi che derivano da uno spostamento dell’attenzione sul sé (piuttosto che sugli altri) e dei comportamenti protettivi (safety behaviours).
Utilizzo di video con il paziente per confrontarlo con i suoi bias su come appare all’esterno.
Training attentivo, per incrementare la capacità di focalizzarsi sugli altri.
Esperimenti comportamentali con lo scopo testare le proprie predizioni catastrofiche nelle situazioni sociali.
De-catastrofizzazione (i.e., “cosa succede di cosi tremendo se accade X?”. Ad esempio, truccarsi il viso di rosso intenso per sondare le reazioni degli altri, o gettarsi volontariamente dell’acqua addosso, in modo da verificare le eventuali reazioni altrui ad eccessive sudorazioni).
Utilizzare l’imagery with rescripting per modificare esperienze traumatiche precoci (Wild & Clark., 2011).
Clark suggerisce anche “Cosa non fare” nel trattamento CBT della FS, ovvero:
Creare liste ordinate per livello di ansia delle situazioni ansiose.
Ripetere le esposizioni per favorire l’abituazione.
Valutazione dell’intensità dell’ansia durante tutte le situazioni sociali (questo rischia di aumentare l’attenzione focalizzata sul sé).
L’usare il diario di monitoraggio o gli ABC per registrare le situazioni ansiose (poiché entrambi favoriscono il rimuginio).
Ri-attribuzione in termini razionali delle situazioni sociali ansiogene.
Effettuare un social skill training, poiché, secondo l’autore, i pazienti sono già in possesso delle abilità sociali che permetterebbero loro di far fronte alle situazioni sociali. In realtà essi sono soltanto incapaci di usarle, a causa delle loro credenze patogene e dell’eccesiva attenzione sul sé.
In merito agli studi di efficacia sul modello CBT per la FS di Clark, questo si è mostrato essere più efficace rispetto alla Terapia Interpersonale, alla quella Psicodinamica, al placebo, al TAU, al trattamento farmacologico a base di SSRI, alla semplice esposizione o all’assenza di trattamento (Clark ,2006; Stangier et al., 2011; Boecking, Ehler & Clark 2011; Hedeman et al., 2013). Inoltre, in uno studio recentissimo (Clark & Ehler, 2014) si è mostrato che la CBT che si avvale per la metà delle sedute di training individuale (self-assisted CBT) risulta più efficace della CBT tradizionale effettuata vis a vis con il terapeuta. Questo dato motiva, suggerisce Clark, alla necessità di mettere a punto dei nuovi trattamenti basati sull’utilizzo di programmi via internet, in modo da permettere una maggiore fruibilità di questo modello ai pazienti affetti da ansia sociale.