Si può rinunciare ai propri scopi?

di Irene Tramentozzi e Erika Cellitti
a cura di Cristiano Castelfranchi

L’essere umano è un agente cognitivo che regola il proprio comportamento sulla base di stati mentali interni, influenzati da credenze e scopi. Le credenze sono rappresentazioni mentali del mondo organizzate in una rete cognitiva “a nodi” in cui la conoscenza è suddivisa in due livelli, generalizzata (per classi) e specifica-episodica; le credenze definiscono il “come” perseguire gli scopi, intesi quest’ultimi come rappresentazioni mentali dello “stato voluto” che motivano il comportamento umano e attivano l’azione per il raggiungimento di un obiettivo desiderabile (i cosiddetti goal cibernetici) o per l’evitamento di situazioni temute o sgradite (gli avoidance-goal). Quando uno scopo si attiva, l’agente cognitivo cerca di identificare tutte le azioni necessarie al raggiungimento dello stato desiderato.

Cosa succede quando l’agente cognitivo va incontro ad un fallimento? Lo scopo verrà frustrato e la persona sperimenterà uno stato di sofferenza caratterizzato da vissuti emotivi negativi come tristezza, rabbia e senso di colpa. Non tutti gli scopi hanno però uguale valore, se uno scopo è “strumentale”, cioè caratterizzato da obiettivi concreti e specifici finalizzati al raggiungimento di scopi più  astratti e globali (definiti “terminali”), una volta frustrato potrà essere sostituito attraverso varie modalità, o basandosi sull’equivalenza (uno scopo strumentale sarà quindi “rimpiazzato” da un altro di pari valore), oppure per surrogazione  (in questo caso il soggetto rinuncerà ad una parte o ad un aspetto dello stato desiderato originale), o infine, per compensazione, sostituendo lo scopo strumentale non attuabile con uno che risulti realizzabile (ad esempio se il mio scopo terminale è “essere una persona di successo” e non posso diventare “un bravo calciatore”, ripiegherò su un altro obiettivo come “essere un bravo genitore”).

Ci sono però alcuni casi in cui gli scopi non risultano sostituibili basandosi sulle tre modalità sopra descritte, poiché non applicabili al contesto, oppure quando si parla di scopi terminali, relativi al sé-con-l’altro e coincidenti con il progetto di vita della persona. In questi casi, dopo aver elaborato la frustrazione e le emozioni negative ad esse associate, lo scopo diventa inattivo e immagazzinato nella memoria a lungo termine, ma non per questo dimenticato. È il destino di molto scopi reputati irraggiungibili e irrealizzabili, ai quali le persone smettono di pensare e rinunciano a perseguirli. Tuttavia, ci sono alcuni obiettivi irraggiungibili e insostituibili a cui non si riesce a rinunciare, in quanto rimangono attivi nella propria mente. La persona sembra incapace di accettare lo stato delle cose e percepisce quello scopo come irrevocabile. Quest’ultimo non riuscendo ad essere sostituito, rende meno desiderabili gli altri, che divengono di poco valore e sembrano essere troppo difficili, pesanti e costosi da perseguire. Questa condizione è associata ad un vissuto di tristezza, pensieri depressivi, perdita di interesse, ruminazione e tendenza al pessimismo. Le persone non riescono a spostarsi in altri domini del sé e rimangono ancorate all’obiettivo irraggiungibile.

Ma cosa spinge le persone a continuare ad investire su uno scopo “impossibile”?

Secondo la psicologia dei “sunk cost” (“costi sommersi”) è possibile spiegare questo meccanismo poiché l’aumento del valore dello scopo è direttamente proporzionale all’aumentare dei costi già sostenuti, quindi nonostante il sicuro fallimento, la scelta del decisore sarà influenzata dalla motivazione di base di evitare lo “spreco” dei costi sostenuti sino ad allora. Pertanto, anche se il soggetto rinuncia al perseguimento dello scopo, questo rimarrà attivo mentalmente proprio a causa dell’investimento delle risorse già attuato.

Si individuano in particolare due classi di scopi irrevocabili: gli scopi di autodefinizione, che permettono di mantenere il senso della propria identità, e gli scopi di attaccamento, che permettono altresì di mantenere i legami affettivi.  Gli scopi irrinunciabili e irraggiungibili comportano, per loro natura, dei pesanti costi di “mantenimento” tuttavia, è possibile affermare che svolgano anche una duplice funzione positiva: da una parte, permettono di avere un’immagine sociale stabile, condizione basilare per l’interazione sociale poiché permette al soggetto di essere reputato come affidabile e prevedibile; dall’altra, permettono di avere coerenza dando un significato e uno scopo alla propria vita, così da mantenere l’identità personale.

Ma quando risulta conveniente perseguire in scopi irrevocabili e irraggiungibili? È necessario valutare caso per caso, considerando primo fra tutti la durata della “fissazione”, fondamentale per distinguere una tristezza fisiologica e transitoria, da uno stato depressivo permanente e invalidante. Va ricordato che la tristezza, e più in generale, gli stati emotivi negativi, quando non sono permanenti e protratti nel tempo, svolgono una funziona adattiva poiché evitano scelte pericolose, permettono di riflettere e riorganizzare gli schemi cognitivi e rivalutare la propria gerarchia dei bisogni.

Bibliografia:

“Irrevocable goals” di M.Miceli e C.Castelfranchi; Review of General Psychology 2017, Vol. 21, No. 1, 69–81; http://dx.doi.org/10.1037/gpr0000094

Il ruolo dei bisogni sentiti

di Alessandra Santoro
a cura di Cristiano Castelfranchi

I bisogni sono scopi di grande forza motivante, hanno una natura molto particolare, non solo perché sono rappresentati come imprescindibili necessità la cui mancata soddisfazione è concettualizzata come un danno, ma anche perché si possono “sentire”.
Castelfranchi (2004) delinea l’importante differenza tra “avere un bisogno” e “sentire il bisogno” di qualcosa, e l’efficacia del ruolo cruciale svolto dal corpo e dalla propriocezione nei bisogni “sentiti”, ovvero soggettivamente percepiti e particolarmente “pressanti”.

Si può pensare al passaggio tra i diversi bisogni come un susseguirsi di livelli.

Nella cognizione umana, avere un bisogno, significa che si ha una mancanza di qualcosa (ad esempio: una risorsa, una condizione, un’azione) che si rappresenta come necessaria al raggiungimento di uno scopo, per cui diventa uno scopo-mezzo, che implica un’azione compiuta sotto la spinta di un impulso o istinto, in cui no n entra in gioco il ruolo del corpo.

Prima di affrontare il livello del sentire un bisogno, è opportuno considerare un livello intermedio: quello dei bisogni oggettivi assunti, che ancora non coincidono con i bisogni sentiti, in quanto l’essere umano, può venire a conoscenza di un suo bisogno e tuttavia continuare a non “sentirlo”.

E’ al livello dei bisogni sentiti che il corpo assume una funzione discriminante. Per poter essere attivati, questi bisogni, necessitano di condizioni particolari: una persona deve percepire una  sensazione proveniente dal proprio corpo, deve avere la credenza di avere bisogno di una determinata cosa per raggiungere il suo scopo, ed inoltre deve attribuire la sensazione provata a quella mancanza che non gli permette di soddisfare il bisogno, per cui si attiva la ricerca in termini cognitivi e comportamentali.

Un bisogno sentito, di natura psicologica, che definiamo secondo la classificazione di Castelfranchi come bisogni sentiti astratti, non coinvolgono un segnale somatico periferico, ma ciò che si “sente” è un segnale o una traccia percettiva che è nel cervello e si trova associata a una data configurazione di scopi e credenze.
Sentire bisogni psicologici comporta una forma di disagio, dolore o sofferenza “mentale”, che implica anch’essa un segnale proveniente dal corpo, in questo caso a livello cerebrale non periferico ed inoltre, sentire questi bisogni può comportare l’attivazione di un “marcatore somatico” (Damasio, 1994), cioè di una traccia centrale di esperienze emotive o percettive associate alle rappresentazioni mentali implicate da tali bisogni.

L’importanza del riconoscere i bisogni sentiti, permette di comprendere in che maniera coinvolgono le credenze, gli scopi e l’ emozioni.
Un bisogno sentito si basa sulla credenza che la causa di ciò che si sente è una mancanza, inoltre secondo il meccanismo feeling as information, il sentire un bisogno può essere la base per formare una credenza.

I bisogni, in quanto scopi, hanno la capacità di elicitare un altro scopo, che siano essi mentali o pratici, come quelli che inducono ad  un’azione per essere soddisfatti.

I bisogni sentiti, ovviamente, possono sia associarsi che evocare altre emozioni, ad esempio relative anche al bisogno stesso, in cui la persona che le sperimenta può giudicarsi, positivamente o negativamente, per provare quel bisogno e ciò determina un’altra emozione.

Bibliografia:

Castelfranchi C. & Miceli M.(2004). Gli scopi e la loro famiglia: Ruolo dei bisogni e dei bisogni “sentiti”. Cognitivismo Clinico, 1, 5-19.
Damasio, A.R. (1994). Descartes’ error. New York: Putnam’s Sons.

 

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Il cervello emotivo 2.0

di Manuel Petrucci

Le emozioni, le loro basi neurali e i rapporti con cognizione e motivazione nella prospettiva di Luiz Pessoa

 Negli ultimi decenni di fioritura della ricerca neuroscientifica, lo studio delle emozioni ha certamente occupato un posto di primissimo piano. La sfida è stata, ed è, quella di comprendere i meccanismi attraverso i quali attribuiamo salienza, valore agli stimoli esterni o interni, dando origine a una specifica reazione emotiva, e orientando selettivamente le risorse cognitive e comportamentali. Una funzione, quella di valutazione (appraisal) che risulta fondamentale se consideriamo innanzitutto i limiti delle risorse di elaborazione che abbiamo a disposizione. Questo problema, come sottolineato dagli studiosi dell’attenzione, impone ai sistemi cognitivi una selettività strutturale per poter risolvere la “competizione” tra gli stimoli simultaneamente presenti nell’ambiente a favore di alcuni e a discapito di altri.

Nell’ambito del XIX Congresso Nazionale della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), il prof. Luiz Pessoa, del dipartimento di psicologia della University of Maryland, ha tenuto una invited lecture dal titolo “The cognitive-emotional brain: from interactions to integration”. Secondo Pessoa, sono gli stimoli rilevanti per gli scopi dell’individuo a vincere la competizione, ed è in funzione del significato che gli eventi-stimolo rivestono per gli scopi attivi che l’emozione viene elicitata, guidando i processi cognitivi successivi e preparando all’azione più appropriata.
L’emozione, dunque, è intimamente collegata alla motivazione, e contribuisce in maniera decisiva alla creazione di una “mappa delle priorità” (priority map) fin dai primissimi stadi dell’elaborazione percettiva, per poi esercitare due specifiche influenze sul controllo cognitivo: un aumento della velocità e dell’efficienza dell’elaborazione (sharpening) e la direzione (shunting) ottimale delle diverse funzioni esecutive (aggiornamento, inibizione, flessibilità) verso il perseguimento degli scopi.
Questa visione integrata dei processi cognitivi, emotivi e motivazionali rappresenta un superamento dei classici modelli “a scatole e frecce”, a connotazione modulare. In questi modelli, la complessità dei fattori e delle funzioni può essere rappresentata solo da interazioni mono o bidirezionali e spesso orientate in senso “verticale”, come nelle dicotomie tra processi top-down/bottom-up o elaborazione corticale/sottocorticale, che risentono pesantemente di ben più antiche dicotomie tra ragione e passione, o tra cognizione ed emozione, appunto.

Appare chiaro che il funzionamento di base dell’individuo è guidato dagli scopi (top-down), ma la necessità di mantenere una flessibilità adattiva verso l’ambiente e le sue variazioni consente che stimoli salienti, dal punto di vista percettivo o emotivo, catturino l’attenzione (bottom-up), ri-orientando eventualmente gli scopi.

Un corollario di questa concettualizzazione è che se ci interroghiamo sul dove si trovi l’emozione nel cervello. La risposta sarà: “In tanti luoghi”. Per molti anni è stata dominante una visione secondo cui l’elaborazione dell’informazione emotiva avviene in maniera rapida, automatica, potenzialmente inconscia attraverso una via sottocorticale specializzata in cui l’amigdala svolge il ruolo principale. Questa visione è stata promossa dalle importanti scoperte della ricerca animale che hanno mostrato che l’attivazione delle connessioni tra il talamo uditivo e l’amigdala è sufficiente per sviluppare alcune forme di condizionamento pavloviano alla paura. Tuttavia, con i suoi studi e le sue influenti rassegne della letteratura, Pessoa ha contribuito a una sostanziale revisione di questo modello, evidenziando innanzitutto come le aree corticali, in particolare quelle coinvolte nelle funzioni esecutive, siano massivamente coinvolte anche nell’elicitazione, e non solo nella regolazione delle emozioni. Ad esempio, considerare “top” la corteccia prefrontale mediale, e “down” l’amigdala non consente di apprezzare la ricchezza delle connessioni bidirezionali di queste due aree, oltre che delle rispettive connessioni che intercorrono con altre aree coinvolte nella regolazione emotiva e nei processi di estinzione della paura, come l’ippocampo ventrale, il talamo mediodorsale, l’ipotalamo, la corteccia orbitofrontale.

Le implicazioni per la clinica, e in particolare per la terapia cognitiva, di queste conoscenze neuroscientifiche sulle emozioni sono molteplici e complesse, e spaziano dalla sopracitata regolazione emotiva alle strategie di cambiamento degli scopi, dal rapporto tra emozione e coscienza alle modificazioni innescate dai meccanismi di apprendimento e di esposizione. In conclusione, i processi cognitivi, emotivi e motivazionali non sono intercambiabili, e una loro considerazione specifica è utile sia nell’ambito della ricerca che della clinica (credenze, emozioni, scopi). Tuttavia, essi sono inestricabilmente legati, e una comprensione della mente, delle sue basi neurali e del funzionamento patologico richiede l’adozione di una prospettiva integrata, basata sul coordinamento di diverse funzioni sostenute dall’attività coordinata di diverse aree cerebrali, superando dunque intuitive, ma inconcludenti, dicotomie o schematizzazioni neuro-psico-filosofiche.

 

 

Per approfondimenti:

 

Pessoa, L. (2017). A network model of the emotional brain. Trends in Cognitive Sciences, 21(5), 357-371

 

Pessoa, L. (2017). Cognitive-motivational interactions: beyond boxes-and-arrows models of the mind-brain. Motivation Science, 3(3), 287-303

 

Pessoa, L., & Adolphs, R. (2010). Emotion processing and the amygdala: from a “low road” to “many roads” of evaluating biological significance. Nature Reviews Neuroscience, 11(11), 773-783

Perché la noia è interessante?

di Barbara Basile

Poco sopportata e evitata a tutti i costi… La sua intolleranza predispone all’abuso di sostanze e ad assumere comportamenti rischiosi: eppure la noia ha dei risvolti positivi

La noia, temuta e combattuta, risulta essere, dopo la rabbia, l’emozione che più spesso si cerca di sopprimere, con conseguenze a volte drammatiche. Emozioni di noia sono associate all’impulsività e alla ricerca di forti sensazioni e inversamente correlate alla qualità della vita e dei rapporti sociali. Di fatti, le persone che hanno difficoltà a tollerare questa emozione spesso ricorrono a comportamenti dannosi pur di liberarsene.

Da alcune ricerche è emerso che la noia è, assieme ai vissuti ansiosi e depressivi, il più frequente attivante delle abbuffate (binge eating). In un altro studio, tramite un simulatore di guida, è stato misurato il livello di distraibilità al volante. Si è osservato che chi ha una maggiore tendenza alla noia guida più velocemente, ha riflessi meno pronti nel gestire gli imprevisti e guida più spesso al centro della strada. In un’altra indagine si è osservato che oltre il 50% di studenti statunitensi con elevata tendenza alla noia faceva un uso significativamente maggiore di tabacco, droghe e alcol, rispetto ai colleghi meno sensibili  a questa emozione.

La società di oggi è sempre più complessa e articolata, offrendo un numero crescente di stimoli. A livello del Sistema Nervoso Centrale, la stimolazione produce un rilascio di dopamina e più la mente viene stimolata, più diventa dipendente e va alla ricerca di nuovi input. Di conseguenza, la capacità di restare concentrati su un compito per un tempo più lungo diventa sempre più difficile. In un esperimento sorprendente, alcuni ricercatori dell’Ohio hanno mostrato come persone sane a cui veniva chiesto di restare per 20 minuti soli e inoperosi in una stanza, sceglievano spontaneamente di provare dolore pur di interrompere l’esperienza della noia. Il 24% delle donne e il 67% degli uomini hanno scelto, almeno una volta, di auto-somministrarsi uno stimolo elettrico doloroso pur di “sentire qualcosa”.

In Germania un gruppo di studiosi ha identificato cinque diverse forme di noia partendo da una noia “indifferenziata”, più lieve e innocua (attiva per esempio, quando si assiste a lezioni o convegni o quando si è in attesa in fila), a una forma più acuta (definita “epathetic boredom”), a cui corrisponde un abbassamento dell’attivazione fisiologica e che sembra associata alla depressione. Proprio in Italia, un gruppo di psicoterapeuti cognitivisti sta indagando il ruolo di questa emozione nell’ambito della psicopatologia, con particolare focus sui disturbi dell’umore. In occasione del recente Congresso della Società Italiana di Terapia Cognitivo-Comportamentale (SITCC) a Verona, i colleghi toscani hanno presentato i dati di una ricerca in cui la noia è stata misurata in tre gruppi di pazienti affetti da Disturbo Bipolare di Tipo 1 (DB1), Disturbo Bipolare di Tipo 2 (DB2) o da un Disturbo Ciclotimico. I dati preliminari hanno mostrato che, rispetto agli altri, i pazienti con DB1 erano più suscettibili a questa emozione e tendevano a cercarne la causa nell’ambiente esterno. Analogamente, solo nel DB1, la noia era significativamente correlata con alcuni indici di malessere soggettivi, quali l’attivazione psicomotoria, l’umore instabile, l’irritabilità, tendenze suicidarie e uso di sostanze.

Intesa come un momento di stallo in cui gli scopi sono disattivi, la funzione della noia sembrerebbe ingaggiare in nuove attività, ricercando nuovi scopi e obiettivi. Diversi ricercatori sostengono che la noia promuova il mind wondering, il fantasticare, e che questo possa a sua volta facilitare il problem solving e il pensiero creativo. Alcune persone sono riuscite a trasformare l’intolleranza alla noia in qualcosa di positivo, abbracciando serenamente l’incessante bisogno di nuovi stimoli in modo adattivo.

Obiettivi personali e benessere

di Rosanna De Angelis
curato da Roberta Trincas

“La qualità non è mai casuale; è sempre il risultato di uno sforzo intelligente”. John Ruskin

Nell’ultimo decennio, si è andata affermando una Teoria Motivazionale del Benessere Soggettivo. L’approccio fondato su questa teoria si basa sul presupposto che il successo in obiettivi significativi abbia un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento del benessere psicologico delle persone. In questa prospettiva, il benessere soggettivo è tanto più elevato quanto più l’individuo è impegnato in progetti di vita – piani di azione estesi tesi al raggiungimento di obiettivi personali – significativi, ben strutturati, supportati da altri, non eccessivamente stressanti e generativi di un senso di autoefficacia.
Uno studio longitudinale a breve termine, condotto su un campione di 88 studenti universitari, ha cercato di esaminare in che modo le caratteristiche degli obiettivi personali possono spiegare le differenze e i cambiamenti del benessere soggettivo nel tempo.
La ricerca si è focalizzata su tre caratteristiche degli obiettivi personali: l’impegno nel perseguimento dell’obiettivo, la valutazione che il soggetto formula sulla raggiungibilità dell’obiettivo e i progressi percepiti nel raggiungimento dell’obiettivo.
L’impegno nel perseguimento dell’obiettivo indica fino a che punto l’obiettivo personale è associato ad un forte senso di determinazione nel perseguirlo, all’urgenza di investire le proprie energie nel suo conseguimento e alla disponibilità a compiere un grande sforzo per realizzarlo.
La valutazione soggettiva sulla raggiungibilità dell’obiettivo rappresenta il risultato del confronto che il soggetto fa tra l’esistenza di condizioni favorevoli e l’esistenza di condizioni sfavorevoli al raggiungimento del suo obiettivo. Le condizioni favorevoli indicano che una persona ritiene di avere abbastanza tempo e opportunità per dedicarsi al suo obiettivo, di avere il potere di raggiungerlo e di ricevere un adeguato sostegno sociale nella sua realizzazione.
Dopo aver chiesto ai partecipanti di elencare sei obiettivi personali che si proponevano di realizzare nei primi mesi dell’anno accademico ed aver rilevato il loro stato di benessere iniziale, le tre dimensioni-obiettivo ed i livelli di benessere soggettivo sono stati misurati in 3 tempi diversi in un arco temporale di 14 settimane. Il benessere soggettivo è stato considerato nei suoi aspetti sia affettivi (umore euforico/depresso) che cognitivi (soddisfazione di vita).
Dallo studio in esame, è emerso che l’intensità dell’impegno dedicato al perseguimento dei propri obiettivi è una variabile di moderazione, perché determina la misura in cui le differenze nella percezione della loro raggiungibilità spiegano i cambiamenti positivi e negativi del benessere soggettivo nel tempo. Questo significa che, rispetto agli individui che dedicano uno scarso impegno alla realizzazione dei loro obiettivi, le differenze nella stima della loro raggiungibilità non sono indicative di differenze nel benessere soggettivo, mentre, rispetto a coloro che si impegnano molto per realizzare i propri scopi, la percezione di raggiungibilità degli obiettivi è predittiva di maggiori livelli di benessere soggettivo e, al contrario, la percezione di difficoltà o ostacoli nella raggiungibilità degli obiettivi implica una compromissione significativa dei livelli di benessere.
È emerso, altresì, che i progressi percepiti nel raggiungimento degli obiettivi hanno un effetto diretto sui livelli di benessere soggettivo e mediano l’effetto dell’interazione tra l’impegno e la raggiungibilità degli obiettivi sul benessere.

Per approfondimenti:

Brunstein J.C. (1993). Personal Goals and Subjective Well-Being: a longitudinal study. Journal Personality and Social Psychology, Vol. 65, No. 5, 1061-1070.

Chi rumina si focalizza meglio su uno scopo

di Roberta Trincas

“L’atto di cercare di raggiungere i propri obiettivi è tanto importante quanto in effetti è il raggiungerli”. Josh Hinds

La ruminazione depressiva si focalizza sulle cause, significati dell’umore depresso. La ruminazione quindi sarebbe caratterizzata da un insieme di pensieri ricorrenti su un tema o uno stato emotivo e dalla difficoltà nel cambiare il tipo di pensieri. Diversi studi hanno osservato che gli individui con alta tendenza alla ruminazione presentano inflessibilità cognitiva, in altre parole hanno difficoltà in compiti che richiedono cambiamento o inibizione di set-mentale.

Una volta che certi pensieri negativi vengono integrati in memoria, difficilmente vengono eliminati, e ciò impedirebbe lo spostamento verso pensieri più positivi o nuovi obiettivi.

Nonostante l’inflessibilità mentale sia spesso svantaggiosa, specialmente in situazioni che richiedono un rapido cambiamento di obiettivi, alle volte può invece risultare vantaggiosa, per esempio quando per ottenere una prestazione di successo è necessario sia mantenere un particolare obiettivo sia ignorare stimoli distraenti o obiettivi conflittuali. In tali circostanze, la capacità dei ruminatori di mantenere l’attenzione su un singolo obiettivo può risultare utile.

Alcuni autori hanno testato questa ipotesi sull’inflessibilità cognitiva. Su un campione di 99 studenti, hanno misurato la tendenza alla ruminazione e alla disforia, e hanno confrontato la prestazione dei soggetti su due compiti che richiedevano controllo esecutivo. In particolare, un compito (letter naming) misura la capacità di cambiare obiettivo, il secondo compito è una versione modificata dello Stroop con il quale è possibile misurare la capacità di mantenere un obiettivo.

Ciò che hanno osservato è che chi tendeva a ruminare di più era meno accurato nel compito che richiedeva un rapido cambiamento di obiettivo. Mentre nel compito che richiedeva di mantenere l’obiettivo, le tendenze a ruminare prediceva un’alta accuratezza di risposta.

Inoltre, ruminazione e disforia sembrano avere effetti diversi sui processi cognitivi. La ruminazione si associa a miglior mantenimento degli obiettivi, mentre la disforia si associa ad una difficoltà maggiore nel mantenerli.

Sulla base di questi risultati, quindi, gli autori assumono che la ruminazione possa essere un processo di pensiero utile nel mantenimento di un obiettivo.

Questo studio porta un’ulteriore prova a favore della funzione adattiva della ruminazione.

Nonostante le spiegazioni teoriche si siano focalizzate sulle conseguenze negative della ruminazione, questo studio dimostra l’importanza di prestare maggiore attenzione ai potenziali benefici del pensiero ripetitivo, dato che la ricerca sui vantaggi di tali processi è ancora scarsa. Questo studio quindi suggerisce che un attivo mantenimento di un obiettivo può essere considerato un vantaggio cognitivo della ruminazione.

Inoltre, la differenza che si osserva tra le tendenze ruminative e i livelli di disforia indica che, sebbene in alcuni casi siano aspetti strettamente connessi, la ruminazione  e la disforia possono influire diversamente sui processi cognitivi. Questa osservazione è in linea con altri risultati che mostrano come la tendenza a ruminare si associ a minori pensieri non legati al compito rispetto a chi ha alti livelli di disforia.

Questa differenza ci aiuta a distinguere gli effetti della ruminazione e della disforia e suggerisce che nel mantenimento di un obiettivo importante la ruminazione può non interferire negativamente così come l’umore depresso.

Questi risultati portano ulteriori prove a favore della prospettiva scopistica, e ci indicano come alcuni processi cognitivi, come la ruminazione, possano essere di fondamentale importanza nel momento in cui facilitano il perseguimento di scopi di vita importanti.

 

Per approfondimenti:

Altamirano, L.J., Miyake, A., Whitmer, A.J. (2010). When mental inflexibility facilitates executive control: beneficial side effects of ruminative tendencies on goals maintenance. Psychological Science, 21, 1377-1382.

Le mie credenze: la mia felicità?

di Giuseppe Grossi

Riuscire a navigare nella propria vita, esplorando credenze e convinzioni nuove, ci aiuta a capire cosa ci guida e ci permette di decidere: continuare a lasciarsi guidare o prendere in mano il timone?

A volte capita di ascoltare i pazienti iniziare una prima seduta con: “Non capisco, io sono una persona fortunata, proprio ora che ho tutto, che sono una persona felice, perché mi sta capitando tutto questo?”; altri, invece, riferiscono di conoscere molto bene il loro problema e di sapere come risolverlo, ma di stare comunque molto male.

Spesso, queste persone sono spinte a iniziare un percorso terapeutico da una emotività nuova e a volte sconvolgente, mai sperimentata prima, ma non per questo sbagliata o “cattiva”.

Lavorare con loro è come ricostruire pian piano un puzzle i cui tasselli sono le esperienze, i comportamenti. Leggi tutto “Le mie credenze: la mia felicità?”