Senso di colpa, emozione a due facce

di Estelle Leombruni

Colpa altruistica e colpa deontologica: una tesi dualistica

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, il neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini e la psicoterapeuta Amelia Gangemi affrontano il tema della colpa, offrendo al lettore le informazioni necessarie per un’approfondita comprensione di questa complessa emozione e delle sue implicazioni sulla sofferenza psichica.

La tesi portata avanti è quella dell’esistenza di due forme distinte di colpa: la “colpa altruistica”, che viene sperimentata quando si assume di aver compromesso uno scopo altruistico, e la “colpa deontologica”, derivante dall’assunzione di aver violato una propria norma morale.

Queste due forme di colpa generalmente coesistono nella vita quotidiana, tuttavia è possibile anche sperimentarle separatamente: sentirsi in colpa per non essersi comportati in maniera altruistica senza però violare una propria regola morale oppure trasgredire una norma morale senza che sia presente una vittima, ovvero in assenza di una persona danneggiata.

Sono numerose le evidenze empiriche che supportano tale distinzione: da un punto di vista comportamentale, per esempio, le ricerche mettono in luce come, inducendo uno dei due tipi di colpa, si ottengono azioni di risposta differenti (azione che tutela uno scopo altruistico o azione per uno scopo morale). Dal punto di vista dei circuiti neurali coinvolti in questi processi, gli studi condotti tramite la risonanza magnetica funzionale mettono in risalto come si attivino network cerebrali diversi a seconda del tipo di colpa sperimentato. La distinzione è evidente anche per quanto riguarda il rapporto che questi due sensi di colpa hanno con altre emozioni: per esempio, la colpa deontologica sembrerebbe che abbia una stretta connessione con il disgusto mentre la forma altruistica con il vissuto di pena.

Questa duplice visione del sentimento di colpa consente una maggiore comprensione di altri fenomeni (come del cosiddetto omission bias ovvero la tendenza sistematica a favorire un atto di omissione rispetto a uno di commissione) e ha importanti implicazioni circa la psicologia clinica, in particolare, nella comprensione del disturbo ossessivo- compulsivo, in cui la colpa deontologica svolge un ruolo cruciale, e di alcune forme di reazione depressiva, per cui sembra essere rilevante la colpa altruistica.

Una comprensione più approfondita dei disturbi consente di sviluppare interventi psicoterapici che mirino specificatamente al tipo di colpa che potrebbe essere alla base delle problematiche presentate, garantendo in questo modo una maggiore possibilità di successo terapeutico, ossia di raggiungimento e mantenimento degli obiettivi prefissati.

L’approfondimento proposto dai due autori consente, quindi, non solo di comprendere meglio le determinanti psicologiche e le implicazioni cliniche dei due sensi di colpa, ma anche di sviluppare interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni psicoterapiche e sulle future possibili ricerche.

Per approfondimenti:

https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.651937/full

Nuovo approccio al senso di colpa

di Redazione

La ricerca degli esperti della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) pubblicata sulla rivista dell’International Society for the Study of Individual Differences

Moralità e senso di colpa possono essere visti come due facce della stessa medaglia: la colpa è il risultato emotivo di un conflitto tra il nostro comportamento e la moralità che abbiamo interiorizzato in relazione al contesto e alle esperienze di vita. È quanto emerge da una ricerca condotta nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) diretta dal neuropsichiatra Francesco Mancini. La ricerca è stata coordinata dalla dottoressa Alessandra Mancini e i risultati sono stati pubblicati nell’ultimo numero di Personality and Individual Differences, la rivista accademica ufficiale dell’International Society for the Study of Individual Differences (ISSID), edita da Elsevier.

Secondo il “Modello intuizionista sociale del giudizio morale” dello psicologo statunitense Jonathan Haidt, la moralità è concettualizzata come multidimensionale e costituita da cinque fondamenti morali: danno/cura, che riguarda la sensibilità alla sofferenza e alla crudeltà; imparzialità/reciprocità, che si concentra sulla necessità di giustizia; associazione/lealtà, che implica cooperare e fidarsi del proprio gruppo; autorità/rispetto, che ha a che fare con la valorizzazione dell’obbedienza e del dovere; purezza/santità, che include il disgusto per la contaminazione e riguarda coloro che non riescono a superare i loro impulsi di base.

Le varie culture rispettano questi principi in modo diverso. A un livello più individuale, valori e ideali hanno un ruolo centrale e definiscono l’identità di una persona, motivandola a comportarsi coerentemente con essi. Poiché è accertato che le emozioni negative segnalino la percezione di una discrepanza tra la realtà e le convinzioni e gli obiettivi individuali, le emozioni morali potrebbero funzionare come allarme di una divergenza tra la moralità interiorizzata degli individui e la rappresentazione morale nella società.

In particolare, la colpa è stata definita come “sensazione disforica associata al riconoscimento che si ha violato uno standard morale o sociale personalmente rilevante”. Tuttavia, ci possono essere differenze individuali rispetto a ciò che è “personalmente rilevante”.

Nella convinzione che riconoscere diversi tipi di sensi di colpa rappresenterebbe un passo importante nella ricerca, nello studio Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, gli autori hanno creato uno strumento valido e affidabile – la Moral Orientation Guilt Scale (MOGS) – in grado di misurare in modo indipendente diversi tipi di sensi di colpa, testandolo su un ampio campione subclinico al quale sono stati sottoposti test classici e innovative tecniche di analisi.

L’obiettivo era di evidenziare diversi tipi di sensi di colpa riflessi nei valori morali interiorizzati dagli individui. Questo approccio di convalida incrociata ha indicato quattro fattori di colpa: “violazione delle norme morali”, “sporco morale”, “empatia” e “danno”. Se i primi due fattori sono risultati correlati positivamente con la sensibilità al disgusto, supportando il legame tra disgusto e colpa deontologica, il fattore “danno” è risultato correlato negativamente con i punteggi di sensibilità al disgusto, in linea con l’idea che l’altruismo e il disgusto si siano evoluti come parte di sistemi motivazionali contrastanti.

Dagli esiti dell’indagine è emersa dunque la distinzione tra sentimenti di colpa che attengono alla moralità deontologica e sentimenti di colpa che riguardano la moralità altruistica.

Per scaricare l’articolo

Mancini A., Granziol U., Migliorati D., Gragnani A., Femia G., Cosentino T., Saliani A.M., Tenore K., Luppino O.I., Perdighe C., Mancini F., (2022), Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, Personality and Individual Differences, 189

 

 

Foto di EKATERINA BOLOVTSOVA da Pexels

Colpa altruistica e colpa deontologica

di Estelle Leombruni

Una tesi dualistica della colpa

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, il neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini e la psicologa e psicoterapeuta Amelia Gangemi affrontano il tema della colpa, dando vita a un corposo lavoro che offre al lettore le informazioni necessarie per un’approfondita comprensione di questa complessa emozione e delle sue implicazioni sulla sofferenza psichica.

La tesi portata avanti è quella dell’esistenza di due forme distinte di colpa: la colpa altruistica, che viene sperimentata quando si assume di aver compromesso uno scopo altruistico, e la colpa deontologica, derivante dall’assunzione di aver violato una propria norma morale.

Queste due forme di colpa generalmente coesistono nella vita quotidiana. Tuttavia è possibile anche sperimentarle separatamente: sentirsi in colpa per non essersi comportati in maniera altruistica senza però violare una propria regola morale oppure trasgredire una norma morale senza che sia presente una vittima, ovvero in assenza di una persona danneggiata.

Sono numerose le evidenze empiriche che supportano tale distinzione: da un punto di vista comportamentale, per esempio, le ricerche mettono in luce come, inducendo uno dei due tipi di colpa, si ottengono azioni di risposta differenti (azione che tutela uno scopo altruistico o azione per uno scopo morale). Dal punto di vista dei circuiti neurali coinvolti in questi processi, gli studi condotti tramite la risonanza magnetica funzionale mettono in risalto come si attivino network cerebrali diversi a seconda del tipo di colpa sperimentato. La distinzione è evidente anche per quanto riguarda il rapporto che questi due sensi di colpa hanno con altre emozioni, per esempio la colpa deontologica sembrerebbe che abbia una stretta connessione con il disgusto, mentre la forma altruistica con il vissuto di pena.

Questa duplice visione del sentimento di colpa consente una maggiore comprensione di altri fenomeni (come per esempio del cosiddetto “omission bias”, ovvero la tendenza sistematica a favorire un atto di omissione rispetto a uno di commissione) e ha importanti implicazioni circa la psicologia clinica, come per esempio nella comprensione del disturbo ossessivo- compulsivo, in cui svolge un ruolo cruciale la colpa deontologica, e di alcune forme di reazione depressiva per cui sembra essere rilevante la colpa altruistica.

Una comprensione più approfondita dei disturbi consente di sviluppare interventi psicoterapici che mirino specificatamente al tipo di colpa che potrebbe essere alla base delle problematiche presentate, garantendo in questo modo una maggiore possibilità di successo terapeutico, ossia di raggiungimento e mantenimento degli obiettivi prefissati. L’approfondimento proposto dai due autori, consente quindi non solo di comprendere meglio le determinanti psicologiche e le implicazioni cliniche dei due sensi di colpa, ma offre anche la possibilità di sviluppare interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni psicoterapiche e sulle future possibili ricerche.

Per approfondimenti


https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.651937/full

Non allontanarmi anche se mi ribello

di Giuseppe Grossi

Il potere della relazione come ricetta per il cambiamento

Curioso, il bambino inizia a osservare gli altri, ad apprendere la lingua, a conoscere il mondo. La sua fragilità lo spinge a creare legami e fidarsi dell’altro; ma in alcuni casi si trova di fronte un muro di ostilità e freddezza, di odio e paura; un muro che lo costringe a ripiegare in una dimensione di totale solitudine, al riparo da qualunque contatto umano.

Nel tempo quel bambino, ormai cresciuto, entra nella stanza del suo terapeuta. Il capo coperto dal solito cappuccio, un po’ più basso della fronte, ma troppo poco per mascherare la vergogna; quella vergogna che molti negano, descrivendo il “mostro” oggi poco più che adolescente.
Si siede dopo aver osservato ogni angolo della stanza, in totale silenzio e come fosse la prima volta. In realtà, nonostante la sua età, è difronte al secondo, terzo o quarto terapeuta della sua vita, costretto questa volta dai genitori, dalla scuola, dai servizi sociali o chissà da quale altra “autorità”. Confessa quella promessa fatta ai genitori, spesso assurda e impossibile, accettata come moneta di scambio per la “sua” seduta dallo psicologo, quella che dovrebbe ancora una volta renderlo migliore, accettabile. Con voce ferma e beffarda si racconta: “Sono qui solo per ottenere quello che mi hanno promesso, solo pe’ fare contenta mia madre… Non tornerò”.

Subito dopo inizia un lungo silenzio. “Sdraiato” sulla sedia continua a giocare con un filo della sua maglia, resa quasi uno straccio, mentre nella sua mente inizia la ricerca di tutte quelle “scuse” che potrebbero giustificare l’ultimo dei tanti litigi, aggressioni o atti di ribellione. Improvvisamente, nella fantasia del paziente, si susseguono gli scenari peggiori e il terapeuta in quel momento riesce a percepire e ascoltare il suo desiderio di sentirsi al sicuro, di non sentirsi disprezzato, inadeguato, ancora una volta allontanato e rifiutato.

Tra lunghi sguardi e parole non dette, il solo respiro spezza il silenzio di uno spazio sempre più freddo, in cui forte si sente la puzza del sospetto. Un ambiente tanto familiare al paziente ma non sempre al suo terapeuta che a fatica riesce ad ascoltare e a rispondere alla sua domanda: “Mi posso fidare?”.
Così, tra continue provocazioni, durante la sua terapia, il ragazzo parla d’ingiustizia e di valori; di una morale che il terapeuta, disarmato, fatica a integrare con i suoi comportamenti. Racconta della sua famiglia, di una educazione rigida, di un luogo fatto di tante regole; troppe, a differenza di come molti pensano. Un luogo in cui si generano gli incubi peggiori.
Parla della colpa di non riuscire a sentirsi degno, meritevole, e della fatica nel seguire un ordine e un rigore per tanti semplice e naturale. E così, ridotto a un assemblaggio di etichette cucite male (pazzo, tossico, antisociale, terribile), il nostro bambino nato buono diventa il “mostro”, colui che non sa e non può mettersi al posto degli altri, che non prova colpa ed empatia; egoista, manipolatore e insensibile.

Chi non avvertirebbe forte una spinta al rifiuto, lasciando quel bambino solo al proprio destino e ai sui sensi di colpa? Chi può avere la forza di leggere nei sui comportamenti un tentativo di riparazione, forse il desiderio di mettere tutto in discussione, e non solo la dimostrazione della sua imperfezione? Chi accetterebbe la “condanna” di conoscere quel bambino, superando le sue provocazioni e regalandogli uno spazio sicuro in cui raccontarsi e cucire le ferite di una relazione malata?

Ricordo le parole del mio “maestro” durante il corso per diventare psicoterapeuti: “Chi di voi è disposto a passare un’ora del suo tempo con una persona che lo provoca, che non gli sta simpatica, che non ha nulla di interessante da dirgli, che forse ritiene poco intelligente e magari non stima?”. A volte, tra tecniche, protocolli e modelli, dimentichiamo la forza e il potere della relazione, che oltre a essere un fattore aspecifico nella terapia, può essere un elemento specifico del cambiamento.

Sensi di colpa e auto-perdono

di Antonella d’Innocenzo

La Compassion Focused Therapy per ridurre il timore di colpa nei pazienti ossessivi

È di recente pubblicazione sulla rivista Frontiers in Psychiatry il lavoro dal titolo “Compassion-Focused Group Therapy for Treatment-Resistant OCD: Initial Evaluation Using a Multiple Baseline Design”. Lo studio, condotto presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC), diretta dallo psichiatra e psicoterapeuta Francesco Mancini, ha avuto come obiettivo quello di verificare se promuovere lo sviluppo e la coltivazione di un atteggiamento compassionevole nei confronti di sé e di auto-perdono in un gruppo di pazienti con Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), porterebbe alla riduzione della sintomatologia ossessiva, in particolare del timore di colpa, delle compulsioni messe in atto per prevenirlo e della tendenza a criticarsi per questo.

Numerosi studi e osservazioni cliniche hanno evidenziato come il timore di colpa e di essere disprezzati moralmente per la propria condotta sia un aspetto centrale nella genesi e nel mantenimento del disturbo. Le esperienze precoci di rimprovero, da parte delle figure significative, potrebbero aver contribuito in questi pazienti alla formazione di credenze secondo cui commettere un errore significa essere una persona poco degna, meritevole di umiliazione e di disprezzo. Da qui, oltre allo sviluppo di un’attitudine a prevenire le colpe catastrofiche e imperdonabili, attraverso le compulsioni, lo sviluppo di una forte tendenza a criticarsi per il comportamento attuato e per la propria sofferenza, atteggiamento che mantiene e aggrava il problema principale.

L’intervento si è avvalso dell’utilizzo della Compassion Focused Therapy (CFT), terapia cognitivo- comportamentale sviluppata dallo psicologo clinico Paul Gilbert per il trattamento dell’autocritica, la cui efficacia è stata ampiamente dimostrata per svariate condizioni psicopatologiche: disturbi alimentari, Disturbo post-traumatico da stress (PTSD), ansia, depressione e psicosi. Le tecniche proposte da quest’approccio terapeutico mirano allo sviluppo di una motivazione di cura e supporto nei confronti di sé e degli altri (la compassione), che passa attraverso la comprensione empatica delle proprie difficoltà e il desiderio di prendersene cura, sviluppando abilità e attributi volti a raggiungere questa finalità (consapevolezza; empatia; calore; tolleranza del giudizio; interesse per il benessere).

Per lo studio è stato utilizzato un protocollo di gruppo di CFT su un campione di otto partecipanti con diagnosi di Doc, resistenti al trattamento cognitivo-comportamentale standard, che per otto incontri settimanali sono stati guidati nella pratica clinica da due terapeuti formati in CFT. Le sessioni hanno previsto momenti di psicoeducazione, pratiche meditative e d’immaginazione per lo sviluppo della compassione verso sé e verso gli altri, condivisione di gruppo e assegnazione di homework. I risultati dello studio pilota hanno mostrato che al post-intervento il 100% dei pazienti ha ottenuto riduzione significativa dei sintomi rispetto alla baseline e che gli effetti sono mantenuti al follow-up per sei degli otto pazienti. Per molti si è osservata, inoltre, una riduzione dei sintomi della depressione, del timore di colpa e della tendenza ad autocriticarsi. Sembrerebbe dunque che promuovere una maggiore accettazione delle proprie sofferenze e imperfezioni, considerandole esperienze connaturate alla condizione umana, aiuterebbe i pazienti a essere più disposti ad accettare la minaccia di colpa, i dubbi ossessivi, ad astenersi dalle compulsioni e a criticarsi di meno per esse (“Sono solo un essere umano e, come tutti, non posso evitare di commettere errori: quando succederà, mi prenderò cura di me, perdonandomi e facendo qualcosa di utile per stare meglio”). Ulteriori studi saranno necessari per verificare l’effetto specifico della terapia utilizzata e per migliorare l’implementazione della stessa.

Per approfondimenti:

http://journal.frontiersin.org/article/10.3389/fpsyg.2020.594277/full?&utm_source=Email_to_authors_&utm_medium=Email&utm_content=T1_11.5e1_author&utm_campaign=Email_publication&field=&journalName=Frontiers_in_Psychology&id=594277

Senso di colpa in età evolutiva

dalla Redazione

Un importante lavoro di ricerca, utile per coloro che si occupano di psicopatologia in età evolutiva, è stato di recente pubblicato nella sezione dedicata a infanzia e adolescenza della rivista  Journal Frontiers in Psychiatry,.

A Systematic Review of Instruments To Assess Guilt In Children and Adolescents: questo il titolo dello studio realizzato da Vittoria Zaccari, Marianna Aceto e Francesco Mancini dell’Associazione Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC – SPC) di Roma, con l’intento di far luce sulla valutazione psicodiagnostica della colpa nei bambini e negli adolescenti.

Fino ad ora, la relazione tra l’emozione di colpa e la psicopatologia è stata poco approfondita in relazione all’età evolutiva. Tuttavia alcuni studi hanno dimostrato che il senso di colpa gioca un ruolo fondamentale nei comportamenti adattivi e disadattivi, evidenziando correlazioni significative con diverse manifestazioni sintomatologiche.

Lo studio dell’Associazione Scuola di Psicoterapia Cognitiva raccoglie e passa in rassegna tutti gli studi che hanno utilizzato specifici strumenti di valutazione che misurano il senso di colpa in bambini e adolescenti, analizzando i contributi esistenti in letteratura che illustrano la validità empirica degli strumenti disponibili utilizzati e che rivelano la natura del loro background teorico.

Per approfondimenti:

https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyt.2020.573488/full?&utm_source=Email_to_authors_&utm_medium=Email&utm_content=T1_11.5e1_author&utm_campaign=Email_publication&field=&journalName=Frontiers_in_Psychiatry&id=573488

Il timore della colpa

di Miriam Miraldi

La scala FOGS per indagarlo e misurarlo

L’origine e il mantenimento del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) sono strettamente legati sia all’emozione di colpa sia a un costrutto affine ma ben distinto, ovvero il timore della colpa: la paura di provare quella sensazione che può comportare la messa in atto di comportamenti disfunzionali, per esempio ritualistici o di esplicito evitamento, tesi a eludere questa condizione percepita come sgradevole. La persona con DOC attua attività ossessive con uno scopo protettivo, volto ad anticipare e annullare la possibilità di sentirsi in colpa e, quindi, moralmente deplorevole.

È ragionevole aspettarsi che, nella diagnosi del DOC e nella valutazione della gravità dei sintomi correlati, la paura della colpa svolga un ruolo diverso rispetto alla propensione e alla sensibilità alla colpa. È bene, infatti, sottolineare che propensione alla colpa, sensibilità alla colpa e timore di colpa sono costrutti diversi, che possono prendere anche direzioni differenti: con “propensione alla colpa” intendiamo la tendenza del soggetto a sperimentare tale emozione; con “sensibilità alla colpa” ci riferiamo alla scarsa tolleranza nei confronti dell’emozione di colpa, che viene valutata negativamente; il “timore di colpa” ha invece a che fare con la paura di sentirsi e valutarsi colpevoli per una propria irresponsabilità, giudicando tale irresponsabilità più grave del danno in sé. Le persone con DOC non necessariamente provano livelli di colpa più elevati, ma temono i sensi di colpa che potrebbero provare e quindi agiscono preventivamente per attenuare la colpa.

Sappiamo bene quanto sia importante, nella ricerca così come nella pratica clinica, disporre di strumenti specifici, idonei a misurare le variabili psicologiche. Allo stato attuale, in lingua italiana troviamo questionari che misurano la propensione alla colpa – come la Guilt Inventory di Jones, Schratter e Kluger – e la sensibilità individuale verso questa emozione – come la scala proposta nel 2015 da Perdighe e colleghi; tuttavia non vi è nessuno strumento atto a valutare il timore di colpa e l’impegno profuso nel prevenire o neutralizzare questa esperienza. Nel 2016 gli studiosi canadesi Chiang, Purdon e Radomsky hanno pubblicato la scala denominata Fear of Guilt Scale (FOGS), composta da 17 item volti a valutare l’intensità della paura della colpa, considerando due diversi fattori: a) il fattore punitivo, ovvero l’impulso a punirsi per i sentimenti di colpa e la convinzione che la colpa designi il proprio sé come immorale e imperfetto; b) il fattore di prevenzione dei danni, cioè la spinta proattiva a prevenire danni o altre cause di colpa.

Visto che la scala FOGS si è rivelata essere una misura valida e affidabile della paura del senso di colpa, il gruppo di ricerca di Teresa Cosentino e colleghi, della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma, ne ha di recente tradotto e validato statisticamente la versione italiana, per poter così disporre di uno strumento che consenta di indagare meglio il peso di questo costrutto nell’origine e nel mantenimento del DOC. A tal fine, sono stati realizzati due studi: il primo, volto a valutare la struttura e la validità psicometrica della scala, è stato condotto su due campioni non clinici e a tutti i partecipanti è stata sottoposta una batteria di questionari, per misurare la sensibilità all’ansia, la colpa, la sensibilità alla colpa, la depressione e i sintomi ossessivi; il secondo studio ha proposto la stessa batteria di questionari ma si è rivolto a una popolazione clinica, a sua volta suddivisa in tre sottogruppi: uno con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo, un altro con diagnosi di disturbo depressivo maggiore e, infine, un terzo con diagnosi di disturbo d’ansia. La finalità era indagare se la paura della colpa fosse prominente per i sintomi di DOC sia rispetto ad altre misure legate alla colpa (ad esempio la propensione, misurata dalla Guilt Inventory e la sensibilità alla colpa, misurata invece con la Guilt Sensitivity Scale), nonché rispetto ad altri disturbi psicologici, come la depressione e l’ansia.

In linea con i risultati di ricerche precedenti, Cosentino e colleghi hanno rilevato che la FOGS mostra alte correlazioni con altre misure relative al DOC che indagano la colpa e che, tali associazioni, sono più forti rispetto a quelle che presenta con le misure di depressione o ansia. Inoltre, la FOGS si è mostrata in grado di discriminare l’appartenenza dei pazienti al gruppo DOC, piuttosto che ai gruppi di pazienti con disturbi ansiosi o depressivi: questo ha supportato l’ipotesi che la paura della colpa caratterizzi, in particolare, i pazienti con sintomi ossessivi rispetto ai pazienti con altre diagnosi. La misura del timore di colpa, ottenuta tramite la FOGS, è un predittore significativo della gravità dei sintomi ossessivi, suggerendo che nel DOC la paura di sentirsi in colpa giochi un ruolo chiave, e che una maggiore intensità di tale emozione rappresenti un’indicazione precisa della presenza di sintomi ossessivi.

Concludendo, il timore di colpa, derivante dal significato attribuito a una condotta percepita come immorale, misurato mediante la FOGS, può contribuire a migliorare la nostra comprensione del DOC. Le analisi hanno fornito prove empiriche sulla bontà della versione italiana dello strumento nel misurare il costrutto, nonché la sua idoneità a distinguere e cogliere le due dimensioni chiave del timore di colpa proposte da Chiang e colleghi, ovvero il fattore punitivo e il fattore di prevenzione del danno.

La FOGS, anche nella sua recente versione italiana, si rivela dunque uno strumento estremamente utile per tutti quei ricercatori e per i clinici che vogliono indagare l’impatto del timore di colpa sulle decisioni e il comportamento e il suo peso specifico nello sviluppo e mantenimento della sintomatologia ossessiva.

Per approfondimenti

Cosentino, T., Pellegrini, V., Gacomantonio, M., Saliani, A. M., Basile, B., Saettoni, M., Gragnani, A., Buonanno, C., & Mancini, F. (2020). Validation and psychometric properties of the Italian version of the Fear of Guilt Scale. Rassegna di Psicologia37(1), 59-70.

Chiang, B., Purdon, C., & Radomsky, A. S. (2016). Development and initial validation of the Fear of Guilt Scale for obsessive-compulsive disorder (OCD). Journal of Obsessive-Compulsive and Related Disorders11, 63-73.

Jones, W.H., Schratter, A.K., & Kugler, K. (2000). The guilt inventory. Psychological Reports, 87, 1039-1042.

Perdighe, C., Cosentino, T., Faraci, P., Gragnani, A., Saliani, A.M., & Mancini, F. (2015). Individual differences in guilt sensitivity: The Guilt Sensitivity Scale (GSS). Testing, Psychometrics, Methodology in Applied Psychology, 22, 349-362. 

“Aiace” deve morire anche oggi?

 di Irene Tramentozzi ed Erika Cellitti

Nell’Iliade, Omero, narra la caduta di Aiace, che colpito da un accesso di follia per opera di Atena, massacra gran parte delle greggi sottratte ai Troiani, credendo di uccidere i suoi nemici. Il mattino seguente, dopo essere rinsavito, piomba nella disperazione e sovrastato dalla vergogna, decide di togliersi la vita.

Il mito greco di Aiace mette in luce le differenze tra la “società della vergogna” dell’antica Grecia e la “società della colpa” odierna. Per gli antichi greci non era importante la voluntas dell’individuo, ma contava l’aver assunto un comportamento considerato riprovevole e disonorevole, a prescindere dalla responsabilità. Vergogna e senso di colpa caratterizzano il vissuto di ogni individuo e sono annoverate come emozioni “secondarie”, specifiche degli esseri umani, legate alla capacità di introspezione e socializzazione e basate su norme e aspettative comportamentali che coinvolgono il concetto di sé. Più in generale, le emozioni sono delle esperienze multi-componenziali, costituite da componenti somatiche, cognitive e motivazionali. Svolgono una duplice funzione, una informativa che riguarda la relazione con l’ambiente, evidenziando il raggiungimento, o fallimento, di un obiettivo, ed una motivazionale, attivando l’individuo a perseguire gli scopi desiderati o, ad evitarne, l’eventuale fallimento. Cos’è che contraddistingue la vergogna dal senso di colpa?

La vergogna e il senso di colpa sono due emozioni connotate generalmente da un’accezione spiacevole, ed entrambe sono accomunate da un aspetto di “autocritica”, che assume però due forme di autovalutazione completamente differenti, in base alle quali è possibile identificare quegli specifici ingredienti cognitivi che le contraddistinguono.

Il senso di colpa è considerata un’emozione prosociale poiché associata all’empatia, dal greco en-pathos “sentire dentro” intesa come la capacità di riconoscimento delle emozioni, dei sentimenti e dei punti di vista dell’altro, come se fossero propri. Per sperimentare senso di colpa è inoltre necessario assumere la prospettiva altrui, cioè riuscire a vedere, attraverso gli occhi dell’altro, le conseguenze del proprio comportamento e delle proprie attitudini. Quand’è che si sperimenta il senso di colpa? L’ingrediente fondamentale della colpa è l’assunzione di responsabilità che preclude il riconoscimento di aver generato un danno ad un altro, di averlo fatto intenzionalmente e di attribuirsi il potere di evitamento del danno causato. Quando si parla di responsabilità, ci si riferisce non solo alla responsabilità effettiva, ma anche a quella percepita, particolarmente esplicativa di alcune forme di senso di colpa, come quella del “sopravvissuto”, nel quale una persona si attribuisce la colpa della sua “buona sorte”. Tale emozione, non viene attribuita solamente ai propri comportamenti ritenuti illeciti, ma si può sperimentare anche verso quei tratti identificativi del proprio sé valutati come negativi, a condizione che ci si senta responsabili di questi e si riconosca il potere di modificarli, omettendo però, di compiere tale cambiamento e non riuscendo così a prevenire il danno, potenziale o reale, da essi generato. L’altro aspetto caratterizzante il senso di colpa è la dimensione di nocività, potenziale o effettiva, del proprio comportamento o dei propri tratti. La colpa si riferisce quindi al sé come “agente”, in particolare Miceli e Castelfranchi, suggeriscono la presenza di discrepanza tra il sé reale e il sé morale, il quale definisce come ci si dovrebbe comportare e si dovrebbe essere in base ai propri standard morali. Il senso di colpa elicita generalmente azioni di espiazione e riparazione del danno e quindi nell’accezione comune assume una valenza, come espresso precedentemente, prosociale. Tuttavia, è associata anche ad azioni autopunitive e antisociali, supportata quest’ultima da manovre difensive nel quale la sofferenza dell’altro viene sdrammatizzata o giudicata come meritata.

Quindi il senso di colpa è legato ad un’autovalutazione morale negativa, al contrario la vergogna risulta invece legata ad un’autovalutazione “non morale” o amorale, accezione non riconducibile al concetto di immoralità, che si riferisce al contrario ad una dimensione di responsabilità, appartenente più specificatamente al senso di colpa. Pertanto, con “non morale” si intende la discrepanza tra sé reale e sé ideale, dove il sé reale viene percepito in “difetto” rispetto al sé ideale.

La vergogna è anch’essa contraddistinta da specifici ingredienti cognitivi. Viene sperimentata quando è percepita come compromessa la buona immagine di sé, ossia una dimensione del sé viene valutata come inadeguata o carente rispetto ai propri standard. Ciò non implica che la persona si valuti come non responsabile dei propri difetti, ma la sua attenzione in questo caso viene prevalentemente focalizzata sulla mancanza di potere rispetto al raggiungimento dell’“io” ideale. Una domanda a tal proposito, sembra sorgere spontanea: come si formano gli standard che definiscono il sé ideale? Il sé ideale è socialmente costruito e si sviluppa a partire dai valori e dalle aspettative altrui, ma affinché abbiano un’influenza sull’individuo, è necessario che esse vengano interiorizzate e quindi siano condivise dal soggetto stesso. Tale aspetto sembrerebbe spiegare perché la vergogna possa essere sperimentata anche quando si è soli, in assenza cioè di un “pubblico” giudicante, risultando in tal modo elicitata dalla percezione di deludere se stessi, non solo gli altri. La vergogna predispone generalmente ad azioni finalizzate al ripristino della buona immagine di sé, oppure al sentimento del “ritiro” sociale e alla tendenza a “nascondersi”. Tuttavia, anche questa emozione può essere considerata prosociale, poiché predisponendo alla riconciliazione, pacificazione, favorendo l’empatia ed il perdono altrui, sembrerebbe promuovere la coesione sociale basata sul rispetto dei valori e delle aspettative altrui.

Entrambe le emozioni comunque sembrano toccare la sfera dell’autostima, ma, mentre nella colpa, il dominio ricade su aspetti morali, nella vergogna ricade su aspetti estetici del sé, quindi non morali. È opportuno inoltre puntualizzare come la valutazione dell’autostima non sia riferita solamente al sé globale, ma anche a specifici aspetti del sé. Ad esempio un medico può ritenersi responsabile di un’azione dannosa verso un paziente, ma reputarsi un buon marito o buon padre non intaccando perciò gli altri domini del sé sociale, allo stesso modo una persona può vergognarsi di un aspetto fisico ma mantenere inalterata la valutazione di sé come intelligente o buono.

In conclusione, non è possibile identificare la vergogna e il senso di colpa come emozioni negative e disadattive in quanto spiacevoli, poiché ogni emozione può essere adattiva o meno in relazione al contesto e alle strategie utilizzate per la loro regolazione.

Riferimento bibliografico

Miceli, M., & Castelfranchi, C. (2018). Reconsidering the Differences Between Shame and Guilt. Europe’s Journal of Psychology, 14(3), 710-733. https://doi.org/10.5964/ejop.v14i3.1564

Delusioni e dintorni

  di Monica Mercuriu     

Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda. E lui si dice: “Il mio fiore è là in qualche luogo.”… Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto un tratto, tutte le stelle si spegnessero.
Antoine de Saint-Exupéry – Il Piccolo Principe                                                                      

La delusione rappresenta un sentimento di amarezza generato dalla mancanza di corrispondenza tra la realtà e una propria o altrui speranza.

Si può deludere qualcuno o essere deluso da qualcuno o qualcosa. In entrambe le situazioni, il soggetto non è passivo: genera un’aspettativa su sé stesso o sugli altri, immagina e si rappresenta uno scenario per lui positivo, e quando la realtà si scontra con la sua rappresentazione, senza adeguarsi ad  essa, la persona delusa si sente affranta, triste, prova emozioni sgradevoli che non sempre riesce ad accantonare.

Un bambino che prova delusione ha sicuramente immaginato una situazione in cui gli elementi presenti nella realtà vengono uniti insieme dalla migliore delle ipotesi: la speranza, talmente salda, a volte, da essere quasi irrealistica, nonostante la presenza scomoda di altri elementi pronti a contrastarla.

“Papà stasera ha detto che farà tardi, deve passare a ritirare una cosa… Forse si è ricordato che volevo l’album in edicola, sicuramente è così e vuole farmi una sorpresa”. La “migliore delle ipotesi” vince sul dubbio e, probabilmente, riesce a prevalere perché il bambino ha già sperimentato una situazione simile, con esito positivo, e ciò costituisce un antecedente forte e positivo.

La delusione che potrebbe nascere varierà d’intensità, da lieve a molto intensa, qualora il bambino non veda realizzata la sua aspettativa. Il genitore può essere però di grande aiuto nel processo di accettazione, poiché può confortare nell’immediato, facendo sentire il bambino al sicuro, e aiutarlo a capire dove il suo ragionamento, condito di speranza, ha seguito un’unica direzione, pur non avendo elementi di rinforzo o conferma. Da una delusione si guarisce, maggiori sono le aspettative infrante, maggiori saranno gli effetti di una delusione, ma pur sempre transitori.

Ma cosa accade quando il genitore comunica al bambino di essere stato deluso da lui, da un suo atteggiamento o comportamento, o magari dal fatto che non ha aderito a una sua richiesta? S’incontrano qui due stati d’animo: l’essere deluso del genitore e lo stato emotivo del bambino che ha deluso, caratterizzato spesso da elevati stati d’ansia, colpa e vergogna.

Un bambino, vulnerabile o sensibile alla colpa, può trovare inaccettabile questa condizione, sperimenta un fallimento per non essere riuscito nel suo intento o magari per aver fatto qualcosa che il proprio genitore non approva, e si può sentire colpevole, preoccupato, perché l’idea di aver generato nel genitore questo stato di forte amarezza è per lui grave. Può generarsi una credenza erronea di dover in tutti i modi far sì che i propri genitori non si sentano più delusi, alzando quindi costantemente il livello di controllo sulle proprie azioni, mantenendo alti standard di funzionamento a casa, a scuola, persino a livello sociale. Il bambino compie questo processo gradualmente con lo scopo di allontanare il più possibile l’eventualità di essere fonte di delusione. Questo vale anche per gli insegnanti e le altre figure di riferimento che fanno parte della sua vita; molto spesso il timore di deludere l’insegnante sovrasta il timore di prendere un brutto voto. Nella mente del bambino il voto si recupera, la fiducia una volta persa forse non si recupera più.

Alcuni test utilizzati nell’assessment in età evolutiva, soprattutto quelli che indagano la presenza di nuclei psicopatologici legati alla presenza dell’ansia, sono costituiti da questionari self report che il bambino può compilare da solo. Tra gli item proposti, spesso ricorrono le seguenti affermazioni: “temo di deludere i miei genitori”, “penso che i miei genitori non siano contenti di me”. Molti sono i bambini che, nell’intervista diagnostica, spiegano come questa sia una delle preoccupazioni più frequenti e importanti.

Un genitore o un insegnante può fare la differenza in queste circostanze. È importante comprendere come l’essere deluso e deludere faccia parte del processo maturativo di ogni individuo e come il superamento di tali emozioni porti, molto spesso, a cambiamenti positivi e stabili nel tempo, che tutelano il bambino e lo rendono allo stesso tempo autonomo e responsabile. È possibile, però, evitare conseguenze estreme o indesiderate, soprattutto in quelle famiglie dove il pattern di comportamento genitoriale si basa su uno stile di parenting autoritario o iperprotettivo, e dove l’essere colpevoli o fonte di delusione costituisce la base e la modalità di relazione preferenziale con i figli.

Concludendo questa riflessione, ancora una volta il romanzo “Il Piccolo Principe” può venirci in aiuto e costituire uno spunto di riflessione per l’adulto che di fronte ai singhiozzi di un piccolo principe, deluso e sconfortato può fare la differenza:

Era caduta la notte.
Avevo abbandonato i miei utensili.
Me ne infischiavo del mio martello, del mio bullone della sete e della morte.
Su di una stella un pianeta, il mio, la Terra, c’era un piccolo principe da consolare!
Lo presi in braccio. Lo cullai.
Gli dicevo:
“Il fiore che tu ami non è in pericolo. . . Disegnerò una museruola per la tua pecora. . .
e una corazza per il tuo fiore. . . Io. . .”
Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro.
Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo. . .
Il paese delle lacrime è così misterioso.”