Il tema del giudizio nella fobia sociale e il contributo del movimento Punk – prima parte

di Roberto Petrini e Vittorio Lannutti

Quando una risorsa ci appare necessaria ma limitata, oppure distribuita in modo iniquo tra le parti; se percepiamo segnali di sfida, ma anche quando ci sentiamo giudicati si attiva in noi il sistema motivazione competitivo (Liotti, Monticelli 2008).

Se pensiamo di poter far valere le nostre ragioni potremmo dar vita a una contesa dove potremmo uscirne vincitori e in posizione dominante e provare quindi orgoglio, oppure sottometterci, o rimanere coinvolti in una lotta. Se pensiamo che l’altro abbia maggiori capacità nella contesa ci sembrerà utile sottometterci e allora compariranno collera, paura, ma anche vergogna. (Liotti, Monticelli 2008).

Di sicuro un grande compito di vita in adolescenza è legato al tema della competizione, la meta di questo comportamento è la definizione del rango sociale di colui che si appresta a divenire un adulto (Gilbert 1999).

Il passaggio dalla cura dei genitori al gruppo dei coetanei è fondamentale, ma occorre guadagnarsi il rispetto e la stima che prima erano garantite dai genitori. Nelle relazioni sociali “adulte” chi offre amicizia a alleanza, protezione emette anche dei giudizi sul destinatario di quelli che possono essere anche descritti come “beni sociali”. Le interazioni sociali richiedono una complessa psicologia in un processo dinamico reciproco dove si valutano affidabilità, valore, forza, impegno, e volontà di reciprocare.

Battersi per lo status e il riconoscimento sociale è fondamentale, e quando ci sentiamo inferiori decidiamo di isolarci, e iniziamo a vedere il mondo in chiave pessimistica. Shively 1998 in alcuni studi di laboratorio ha notato che le scimmie che passavano più tempo da sole erano quelle che nella scala gerarchica erano posizionate in fondo.

Se penso di non essere all’altezza e ho timore del giudizio altrui probabilmente mi ritirerò e penserò che visto che mi percepisco così anche gli altri probabilmente ravvisino in me tali problemi. Il tema centrale potrebbe divenire quello di non fare brutta figura e come strategia principale si potrebbe scegliere l’evitamento delle situazioni potenzialmente pericolose.

Competere per l’attenzione, l’accettazione degli altri, per l’affetto, sembra sia l’unico modo per ottenere accettazione sociale. Come suggerisce Nietzsche siamo diventati “delle bestie dalle guance rosse” proviamo vergogna se è a rischio la nostra buona immagine.

Spesso giudichiamo noi stessi in conformità di come ci giudicano gli altri, e legarci alla valutazione degli altri, mantiene e aggrava il problema. Se valuto me stesso sulla base dei segnali di stima che ricevo, mi metto in una condizione di sottomissione fin dall’inizio della relazione. La percezione di fragilità disporrà la persona ad avere ansia e probabilmente per rassicurarsi cercherà di prevedere possibili minacce, continuando così a fare inferenze sulle possibili interazioni e nel tentativo di controllarle si invischierà in un circolo vizioso.

Probabilmente si andrà ad immaginare tutta una serie d’immagini e pregiudizi negativi, in quanto l’attenzione è posta sul fatto di sentirsi inadeguati e in balia del giudizio altrui. Nel tentare di trovare una soluzione a questo grande problema probabilmente si andranno ad evitare quelle situazioni che potrebbero causare una brutta figura, e gli eventi temuti con il passare del tempo si moltiplicheranno.

 

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Self criticism in psicoterapia

di Andrea Paulis

Le tecniche per promuovere lo sviluppo di un dialogo interno sano e per ridurre l’impatto dell’autocritica

Ogni essere umano può fare esperienza di un “dialogo interno” dalle connotazioni più o meno critiche, in cui riflette sul sé e sulla propria condizione. Tuttavia, in alcuni individui questo può polarizzarsi, prendendo una forma così ostile da provocare e mantenere intensi sentimenti di indegnità.

Secondo lo psichiatra Sidney Blatt, questo processo, che in letteratura prende il nome di “self criticism” (o “self blame”), può variare per livello di gravità e si manifesta attraverso un’autocritica caratterizzata da forte preoccupazione per la propria realizzazione, sentimenti di fallimento, colpa, inferiorità e vergogna.

Lo psicologo clinico Paul Gilbert suggerisce l’esistenza di due diverse forme di autocritica denominate “sé odiato” (hated-self) e “sé inadeguato” (inadequate-self). La prima forma, il sé odiato, sarebbe un tipo di dialogo interno focalizzato sull’odio di sé, sull’aggressività autodiretta e sul desiderio di eliminare degli aspetti indesiderati del sé. La seconda forma, il sé inadeguato, sarebbe indirizzato a sottolineare ed enfatizzare le proprie inadeguatezze, mantenendo una funzione auto-correttiva anziché auto-persecutoria.

Nonostante la differenziazione, entrambe queste tipologie di dialogo risultano correlate a una bassa autostima, una ridotta soddisfazione per la propria vita e rappresentano un fattore discriminante tra popolazione clinica e non clinica. Infatti, la presenza di self criticism all’interno del quadro clinico si associa a comportamenti autolesionistici, suicidi, disturbi depressivi, ansia sociale, disturbi alimentari, disturbo borderline di personalità, deliri persecutori e disturbo post-traumatico da stress. La letteratura in merito indica che, a prescindere dalla diagnosi, gli individui con livelli più elevati di autocritica tendono ad avere peggiori outcome psicoterapeutici e che, quando l’autocritica viene ridotta con successo durante la terapia, migliorano gli esiti. La moltitudine di ricerche sottolinea la natura transdiagnostica e la rilevanza clinica del self criticism nel mantenimento del disagio psicologico.

Evidenze come queste stimolano il dibattito clinico e pongono l’accento sul considerare il self blame, quando e se presente, come un obiettivo particolarmente rilevante per la cura delle difficoltà psicologiche.

Ma come è possibile promuovere lo sviluppo di un dialogo interno più sano e ridurre l’impatto dell’autocritica?

Una delle tecniche spesso utilizzate a tale scopo è il Chairwork, intervento ideato originariamente dallo psichiatra Jacob Moreno nel 1948 e successivamente assorbito da diversi approcci psicoterapeutici come quelli di matrice cognitivo comportamentale.

Il Chairwork, a prescindere dal tipo di psicoterapia che ne prevede l’uso, si basa su tre principi generali:

    • molteplicità: il sé è sfaccettato e le “parti del sé” rilevanti possono essere differenziate attraverso il posizionamento in sedie separate;
    • personificazione: le parti del sé possono essere interpretate dall’individuo in modo da facilitare lo scambio di informazioni;
    • dialogo: le parti del sé sono incoraggiate a parlare tra loro, con il paziente o con il terapeuta al fine di alleviare il disagio.

Molte forme di terapia cognitivo comportamentale che incorporano questa pratica si sono dimostrate clinicamente efficaci e i pochi studi che hanno testato direttamente la tecnica sembrano confermarne l’utilità.

Un dato interessante riguarda l’indagine condotta da Matthew Pugh e colleghi, su 102 terapeuti cognitivo comportamentali per indagare l’uso e la propensione al lavoro con le sedie: la maggioranza degli intervistati percepiva l’intervento come clinicamente efficace e coerente con il modello cognitivo comportamentale, tuttavia, solo il 35% dei professionisti era adeguatamente formato all’uso della tecnica. I feedback rilevati hanno identificato l’ansia del terapeuta e l’accesso limitato alla formazione come preponderanti fattori inibitori per l’uso della tecnica.

In conclusione, oltre a rendersi necessarie ulteriori ricerche relative al Chairwork, i dati suggeriscono che una formazione specifica su questo tipo di intervento, e in generale sul trattamento dei fattori  di mantenimento transdiagnostici, potrebbe migliorare gli outcome terapeutici.

Per approfondimenti

    • Wakelin, K. E., Perman, G., & Simonds, L. M. (2022). Effectiveness of self‐compassion‐related interventions for reducing self‐criticism: A systematic review and meta‐analysis. Clinical Psychology & Psychotherapy, 29(1), 1-25.
    • Pugh, M. (2018). Cognitive behavioural chairwork. International Journal of Cognitive Therapy, 11(1), 100-116.
    • Biermann, M., Bohus, M., Gilbert, P., Vonderlin, R., Cornelisse, S., Osen, B., Graser, J., Brüne, M., Ebert, A., Kleindienst, N., & Lyssenko, L. (2020). Psychometric properties of the German version of the Forms of Self-Criticizing/Attacking and Self-Reassuring Scale (FSCRS). Psycho- logical Assessment, 33(1), 97–110. https://doi.org/10.1037/ pas0000956
    • Pugh, M., Bell, T., Waller, G., & Petrova, E. (2021). Attitudes and applications of chairwork amongst CBT therapists: a preliminary survey. The Cognitive Behaviour Therapist, 14.

Foto di Tima Miroshnichenko:
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Il ruolo della vergogna nel DOC

di Giuseppe De Santis
a cura di Barbara Basile

Il DSM-5 riconosce il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e disturbi correlati come una recente classificazione diagnostica. La categoria include il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da dismorfismo corporeo, la tricotillomania, la dermatillomania e il disturbo da accumulo.

Gli studi hanno dimostrato come il timore di colpa per irresponsabilità giochi un ruolo chiave nell’esordio e nel mantenimento del DOC. Tuttavia, nel presente articolo l’emozione di senso di colpa non verrà presa in considerazione. Per un approfondimento clinico e scientifico aggiornato si veda “La mente ossessiva” (Mancini, 2016).

In che cosa sono simili tutti i quadri clinici menzionati?

Oltre alle emozioni comunemente considerate come la colpa o l’ansia, diversi autori tra cui Weingarden (2015) suggeriscono che la vergogna potrebbe essere un anello trasversale di congiunzione tra queste diverse condizioni.

Secondo la definizione di Castelfranchi (2017), la vergogna è un’emozione sociale con la funzione di proteggere i nostri scopi di buona immagine, ovvero essere valutati positivamente da noi stessi e dagli altri. Si prova vergogna quando si teme un fallimento personale rispetto a degli standard ideali che ci si è posti, sentendosi quindi inadeguati.

La vergogna motiva al ritiro e all’isolamento sociale, compromettendo il funzionamento. È associata alla depressione, al suicidio e agisce come ostacolo per il trattamento terapeutico.

La vergogna dovuta ai sintomi e la vergogna per il proprio corpo sono particolarmente rilevanti nel DOC. La prima consiste in una valutazione secondaria di inadeguatezza rispetto alla presenza di un disturbo mentale; la seconda è un giudizio di indegnità dovuto alla percezione di difetti fisici.

Consideriamo ora il ruolo della vergogna in maniera più specifica.

La letteratura sul disturbo ossessivo-compulsivo suggerisce che la vergogna si riferisce al contenuto delle ossessioni e ai comportamenti compulsivi. Le ossessioni con contenuti violenti, sessuali o blasfemi potrebbero innescare più di tutte la vergogna dovuta ai sintomi. Successivamente, le compulsioni possono essere eseguite per neutralizzare sia l’ansia che la vergogna.

Nella tricotillomania e nella dermatillomania la vergogna dovuta ai sintomi è in relazione ai comportamenti dello strappare i capelli, stuzzicare la pelle e ai comportamenti post-compulsivi. La vergogna per il corpo, sperimentata in risposta ai danni derivanti dai comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo, insorge come emozione secondaria.

La vergogna dovuta ai sintomi nel disturbo da accumulo potrebbe accompagnare i pensieri sull’essere difettoso, dovuti al convivere con il disordine. La bibliografia sottolinea una variabile cognitiva che può essere correlata alla vergogna: l’insight critico. I soggetti con sintomi ego-distonici possono sperimentare vergogna in modo più pervasivo.

La vergogna per il proprio corpo è stata considerata un’emozione primaria sin dalle prime descrizioni cliniche del disturbo da dismorfismo corporeo. All’interno di un modello cognitivo, si ipotizza che bias cognitivi come l’attenzione selettiva al corpo e la generalizzazione eccessiva dei difetti fisici portino a cognizioni irrazionali sull’immagine corporea che generano vergogna.

L’attenzione alla vergogna potrebbe aumentare l’efficacia dei trattamenti del DOC, considerando alcune proposte critiche.

I clinici dovrebbero fornire una precoce psico-educazione ai pazienti in trattamento. Ricevere informazioni accurate e obiettive sul ruolo delle emozioni ha probabilmente il potenziale di ridurre la vergogna, diminuire i comportamenti protettivi e incoraggiare la ricerca di aiuto.

Le terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione potrebbero inoltre fornire interventi utili sulla vergogna da incorporare all’interno degli attuali trattamenti di ristrutturazione cognitiva, funzionali ad affrontare la vergogna come problema secondario e fattore di mantenimento.

Infine, sono necessarie ulteriori ricerche sulla vergogna come fattore di rischio e barriera al trattamento. I supporti empirici incoraggerebbero ad occuparsi della vergogna, con l’obiettivo di promuovere il miglior benessere psicologico possibile da un punto di vista globale.

Riferimenti bibliografici

Castelfranchi C., Che figura. Emozioni e immagine sociale, Bologna: Il Mulino, 2017.

Del Rosso A., Beber S., Bianco F., Di Gregorio D., Di Paolo M., Lauriola A.L., Morbidelli M., Salvatori C., Silvestri L., Basile B., La vergogna in psicopatologia, Cognitivismo Clinico (2014) 11, 1, 27-61.

Mancini F., La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo, Milano: Raffaello Cortina, 2016.

Weingarden H., Renshaw K.D., Shame in the obsessive compulsive related disorders: a conceptuale review, Journal of Affective Disorders, vol. 171 (2015): 74-84.

“Aiace” deve morire anche oggi?

 di Irene Tramentozzi ed Erika Cellitti

Nell’Iliade, Omero, narra la caduta di Aiace, che colpito da un accesso di follia per opera di Atena, massacra gran parte delle greggi sottratte ai Troiani, credendo di uccidere i suoi nemici. Il mattino seguente, dopo essere rinsavito, piomba nella disperazione e sovrastato dalla vergogna, decide di togliersi la vita.

Il mito greco di Aiace mette in luce le differenze tra la “società della vergogna” dell’antica Grecia e la “società della colpa” odierna. Per gli antichi greci non era importante la voluntas dell’individuo, ma contava l’aver assunto un comportamento considerato riprovevole e disonorevole, a prescindere dalla responsabilità. Vergogna e senso di colpa caratterizzano il vissuto di ogni individuo e sono annoverate come emozioni “secondarie”, specifiche degli esseri umani, legate alla capacità di introspezione e socializzazione e basate su norme e aspettative comportamentali che coinvolgono il concetto di sé. Più in generale, le emozioni sono delle esperienze multi-componenziali, costituite da componenti somatiche, cognitive e motivazionali. Svolgono una duplice funzione, una informativa che riguarda la relazione con l’ambiente, evidenziando il raggiungimento, o fallimento, di un obiettivo, ed una motivazionale, attivando l’individuo a perseguire gli scopi desiderati o, ad evitarne, l’eventuale fallimento. Cos’è che contraddistingue la vergogna dal senso di colpa?

La vergogna e il senso di colpa sono due emozioni connotate generalmente da un’accezione spiacevole, ed entrambe sono accomunate da un aspetto di “autocritica”, che assume però due forme di autovalutazione completamente differenti, in base alle quali è possibile identificare quegli specifici ingredienti cognitivi che le contraddistinguono.

Il senso di colpa è considerata un’emozione prosociale poiché associata all’empatia, dal greco en-pathos “sentire dentro” intesa come la capacità di riconoscimento delle emozioni, dei sentimenti e dei punti di vista dell’altro, come se fossero propri. Per sperimentare senso di colpa è inoltre necessario assumere la prospettiva altrui, cioè riuscire a vedere, attraverso gli occhi dell’altro, le conseguenze del proprio comportamento e delle proprie attitudini. Quand’è che si sperimenta il senso di colpa? L’ingrediente fondamentale della colpa è l’assunzione di responsabilità che preclude il riconoscimento di aver generato un danno ad un altro, di averlo fatto intenzionalmente e di attribuirsi il potere di evitamento del danno causato. Quando si parla di responsabilità, ci si riferisce non solo alla responsabilità effettiva, ma anche a quella percepita, particolarmente esplicativa di alcune forme di senso di colpa, come quella del “sopravvissuto”, nel quale una persona si attribuisce la colpa della sua “buona sorte”. Tale emozione, non viene attribuita solamente ai propri comportamenti ritenuti illeciti, ma si può sperimentare anche verso quei tratti identificativi del proprio sé valutati come negativi, a condizione che ci si senta responsabili di questi e si riconosca il potere di modificarli, omettendo però, di compiere tale cambiamento e non riuscendo così a prevenire il danno, potenziale o reale, da essi generato. L’altro aspetto caratterizzante il senso di colpa è la dimensione di nocività, potenziale o effettiva, del proprio comportamento o dei propri tratti. La colpa si riferisce quindi al sé come “agente”, in particolare Miceli e Castelfranchi, suggeriscono la presenza di discrepanza tra il sé reale e il sé morale, il quale definisce come ci si dovrebbe comportare e si dovrebbe essere in base ai propri standard morali. Il senso di colpa elicita generalmente azioni di espiazione e riparazione del danno e quindi nell’accezione comune assume una valenza, come espresso precedentemente, prosociale. Tuttavia, è associata anche ad azioni autopunitive e antisociali, supportata quest’ultima da manovre difensive nel quale la sofferenza dell’altro viene sdrammatizzata o giudicata come meritata.

Quindi il senso di colpa è legato ad un’autovalutazione morale negativa, al contrario la vergogna risulta invece legata ad un’autovalutazione “non morale” o amorale, accezione non riconducibile al concetto di immoralità, che si riferisce al contrario ad una dimensione di responsabilità, appartenente più specificatamente al senso di colpa. Pertanto, con “non morale” si intende la discrepanza tra sé reale e sé ideale, dove il sé reale viene percepito in “difetto” rispetto al sé ideale.

La vergogna è anch’essa contraddistinta da specifici ingredienti cognitivi. Viene sperimentata quando è percepita come compromessa la buona immagine di sé, ossia una dimensione del sé viene valutata come inadeguata o carente rispetto ai propri standard. Ciò non implica che la persona si valuti come non responsabile dei propri difetti, ma la sua attenzione in questo caso viene prevalentemente focalizzata sulla mancanza di potere rispetto al raggiungimento dell’“io” ideale. Una domanda a tal proposito, sembra sorgere spontanea: come si formano gli standard che definiscono il sé ideale? Il sé ideale è socialmente costruito e si sviluppa a partire dai valori e dalle aspettative altrui, ma affinché abbiano un’influenza sull’individuo, è necessario che esse vengano interiorizzate e quindi siano condivise dal soggetto stesso. Tale aspetto sembrerebbe spiegare perché la vergogna possa essere sperimentata anche quando si è soli, in assenza cioè di un “pubblico” giudicante, risultando in tal modo elicitata dalla percezione di deludere se stessi, non solo gli altri. La vergogna predispone generalmente ad azioni finalizzate al ripristino della buona immagine di sé, oppure al sentimento del “ritiro” sociale e alla tendenza a “nascondersi”. Tuttavia, anche questa emozione può essere considerata prosociale, poiché predisponendo alla riconciliazione, pacificazione, favorendo l’empatia ed il perdono altrui, sembrerebbe promuovere la coesione sociale basata sul rispetto dei valori e delle aspettative altrui.

Entrambe le emozioni comunque sembrano toccare la sfera dell’autostima, ma, mentre nella colpa, il dominio ricade su aspetti morali, nella vergogna ricade su aspetti estetici del sé, quindi non morali. È opportuno inoltre puntualizzare come la valutazione dell’autostima non sia riferita solamente al sé globale, ma anche a specifici aspetti del sé. Ad esempio un medico può ritenersi responsabile di un’azione dannosa verso un paziente, ma reputarsi un buon marito o buon padre non intaccando perciò gli altri domini del sé sociale, allo stesso modo una persona può vergognarsi di un aspetto fisico ma mantenere inalterata la valutazione di sé come intelligente o buono.

In conclusione, non è possibile identificare la vergogna e il senso di colpa come emozioni negative e disadattive in quanto spiacevoli, poiché ogni emozione può essere adattiva o meno in relazione al contesto e alle strategie utilizzate per la loro regolazione.

Riferimento bibliografico

Miceli, M., & Castelfranchi, C. (2018). Reconsidering the Differences Between Shame and Guilt. Europe’s Journal of Psychology, 14(3), 710-733. https://doi.org/10.5964/ejop.v14i3.1564

Superare la vergogna senza evitarla


di Sonia Di Munno

Il trattamento della vergogna nell’Acceptance and Commitment Therapy

La vergogna è uno stato emotivo doloroso basato su una percezione di sé come individuo vulnerabile o imperfetto e si accompagna spesso a molti disturbi, come l’ansia, l’autolesionismo, la depressione, il disprezzo di sé. Può diventare un fattore di mantenimento della psicopatologia e complicarne l’efficacia del trattamento: in vittime di abusi, ad esempio, la vergogna può dare origine a comportamenti di autocritica e di autodisprezzo. Dato il suo impatto sui problemi di salute mentale, è utile quindi mirare a un trattamento specifico su questa emozione.

Le caratteristiche della persona che tende a provare vergogna sono: intensificata autoattenzione, alta riflessione su di sé e, talvolta, senso di colpa. I ricercatori Stephen Parker e Rebecca Thomas hanno descritto le differenze cognitive, affettive e motivazionali tra vergogna e senso di colpa. Le due emozioni, infatti, sono diverse dal punto di vista affettivo poiché nella colpa vi è maggiore empatia verso gli altri mentre nella vergogna si è più centrati su di sé, e dal punto di vista motivazionale perché nella vergogna vi è la tendenza a isolarsi per proteggersi dagli altri mentre nella colpa il rimorso spinge a ripagare il danno (sia percepito che reale) arrecato agli altri.
Alcuni studi sulla diminuzione della vergogna hanno rilevato esiti positivi di approcci basati sulla mindfulness e sull’accettazione, tra cui la terapia cognitivo comportamentale di terza generazione dell’ACT (Acceptance an Commitment Therapy). 

Le applicazioni dell’ACT sono state oggetto di oltre 65 studi pubblicati, per un totale di 4000 partecipanti a livello internazionale. Il suo approccio originale e peculiare è basato nel modo in cui si affrontano i pensieri e le emozioni del paziente.

Per quanto riguarda la vergogna, l’ACT concettualizza una fusione cognitiva della persona con pensieri autodisprezzanti e con l’evitamento di entrare in contatto con gli stessi pensieri, sentimenti e ricordi. Nel tentativo di evitare sentimenti vergognosi, infatti, il paziente evita di percepire il potenziale supporto delle relazioni, agisce compulsivamente sugli stimoli e il che non fa altro che esacerbare questi sentimenti dolorosi. Le persone alle prese con la vergogna (come con le altre emozioni) possono sentirsi obbligati a modificarle perché credono che dovrebbero, o non dovrebbero, sperimentarle o che non possono affrontarle. Questo controllo fa in modo che il paziente rimanga “fuso” (ancorato) a questo pensiero e il che può portare a un aumento della ruminazione sulla vergogna e valutazioni negative di sé. Questo ciclo di autoperpetuazione impedisce all’individuo di apprendere altre strategie efficaci: di vedersi come qualcosa oltre la sua vergogna e di essere consapevole dei momenti in cui questo sentimento è meno preponderante. In un esperimento sulla vergogna di pazienti che abusano di sostanze, condotto nel 2011 dall’americano Jason Luoma e da suoi collaboratori, l’ACT ha influito a ridurre la vergogna ed i pensieri autovalutativi denigranti e a ridurre l’uso di sostanze, con un aumento dell’efficacia del trattamento. Queste tecniche aiuterebbero, quindi, le persone ad allontanarsi dai comportamenti di evitamento. Per questo motivo l’ACT promuoverebbe non solo di accettare i sentimenti associati alla vergogna, ma anche di accettare la natura variabile della sofferenza, nel senso che ci saranno alcuni giorni in cui la proverà di più e altri di meno, portandolo a concentrarsi sui valori e gli obiettivi importanti per vivere a pieno la propria vita.

Per approfondimenti

Gutierrez e Bryce Hagedorn. The Toxicity of Shame Applications for Acceptance and Commitment Therapy; 2013; Volume 35; Number I; Pag 43-59; Journal of Mental Health Counseling

Hayes,  Strosahl e Wilson  (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behavior change. New York: Guilford Press.

Luoma, Drake, Koholenberg, Hayes (2011). Substance abuse and psychological flexibility: The development of a new measure. Journal Addiction Research & Theory, Volume 19, 2011 – Issue 1

Parker, Thomas (2009). Psychological Differences in Shame vs. Guilt: Implications for Mental Health Counselors. Journal of Mental Health Counseling Volume 31/Number 3/July 2009/Pages 213-224

 

La logica delle fantasie sessuali

di Giuseppe Femia

La colpa, la vergogna e il bisogno di sentirsi al sicuro: le fantasie sessuali sono il buco della serratura attraverso cui è possibile vedere il nostro vero sé

Le diverse fantasie sessuali (quelle masochiste, di feticismo, quelle legate al voyeurismo, quelle sadiche) che non vengono vissute in modo sano, che lottano con l’etica corrente, che si scontrano con valori normativi rigidi e culturalmente rinforzati, spesso procurano una cascata di emozioni fra cui la colpa e la vergogna, che sembrano essere cruciali sia nella genesi sia nella loro manifestazione.
Dalla normalità alla patologia, le fantasie diventano disfunzionali quando assumono caratteristiche di rigidità, ripetitività, e quando dirigono, precludono e bloccano il piacere.
In un film non troppo recente dal titolo “Shame”, venivano ben rappresentati i vissuti di vergogna, frustrazione, rabbia e tristezza che spesso nascono dalla necessità di separare l’affetto e la sessualità per la paura di essere giudicati a causa delle proprie fantasie sessuali.
È forse proprio il timore di essere ritenuti perversi e disgustosi a determinare una chiusura e un isolamento della fantasia sessuale proibita?
Nel film diretto da Steve McQueen, il protagonista non riesce a vivere le proprie fantasie sessuali in relazione alla propria sfera affettiva. Quando questo avviene e si sente coinvolto, quando i sentimenti emergono, allora il sesso si inibisce, scompare, fallisce.
Le due sfere non possono andare assieme, le fantasie sessuali andrebbero a sporcare gli affetti: la colpa blocca, la fantasia protegge.
Proprio queste sono le considerazioni che vengono trattate in modo dettagliato e clinico nel libro “Eccitazione” di Michael Bader.
L’autore spiega come le fantasie sessuali spesso abbiano lo scopo di disconfermare le proprie preoccupazioni in relazioni a situazioni traumatiche da cui si andrebbero a strutturare credenze patogene: l’individuo, mediante l’ideazione sessuale, andrebbe ad attivare un confronto con  le proprie convinzioni patogene, spesso finendo con l’adattare il proprio comportamento sessuale al credere disfunzionale. Lo scopo ultimo sarebbe quello di cercare delle zone di sicurezza in cui poter esprimere le proprie fantasie senza essere giudicati.
La fantasia sessuale in qualche modo trova la sua origine in stati di animo negativi e spesso, secondo la chiave di lettura proposta, svolge la funzione di contrastare i sentimenti di colpa. Ad esempio, nella descrizione di un caso clinico, viene spiegata la storia e l’origine di una credenza patogena di responsabilità temuta in cui il paziente, al fine di non procurare alcuna forma di sofferenza alle donne (credenza connessa a un vissuto traumatico in cui la madre soffriva), decide di poter ottenere piacere solo in una zona di sicurezza, vale a dire dietro uno specchio unidirezionale da cui osserva, ma dove non può essere visto nelle sue pratiche erotiche, e da cui si assicura di non poter essere cattivo o sprezzante verso il femminile.
Un’altra storia raccontata nel testo vede Amanda, trascurata da bambina, alla ricerca di  uomini con un certo ruolo di autorità; la sua fantasia sessuale coinvolge solo un maschile autoritario e affermato. Alla base di questa ricerca sembra risiedere una scarsa auto-stima: “l’odio di sé è nemico dell’eccitazione sessuale”.  La paziente cerca risarcimento mediante “il maschile potente”, vuole riscatto dalle esperienze di trascuratezza emotiva, impotenza e vergogna pregresse.
Questa spiegazione relativa alla genesi di talune condotte nella sfera del comportamento sessuale, e la connessione tracciata fra sessualità, emozioni, credenze patogene (in qualche senso anti-scopi: ad esempio, “Non voglio essere come mio padre”), sembra  una lettura integrata e innovativa dei fenomeni legati all’ideazione sessuale, ai suoi contenuti, alle sue manifestazioni.

S.O.S. cameretta: la vergogna

di Roberto Petrini

Uno spazio per pensare, per cercare di capire, ma anche per giudicare successi e insuccessi rispetto a un obiettivo

La vergogna è un’emozione spiacevole e intensa, da ridimensionare al più presto. Se ci vergogniamo, proviamo un forte stimolo a nasconderci, sentiamo anche forte rabbia e dolore, ci sentiamo inadeguati, indegni, incapaci. La vergogna sconvolge l’attività in corso e ci costringe a concentrarci su di noi.
Charles Darwin ha ripetutamente scritto che la vergogna dipende dalla sensibilità alle opinioni altrui, buone o cattive. Il non essere all’altezza di uno standard di condotta, di un modello, di una norma, genera questa emozione morale, dove ci si vede piccoli, impotenti, bloccati e feriti. Diveniamo consapevoli della nostra inadeguatezza e proviamo una sorta di disprezzo nei confronti della nostra immagine, la svalutiamo.
La vergogna viene spesso erroneamente confusa con la colpa. Se il messaggio è “attenzione, stai trasgredendo, devi rimediare!” si tratta indubbiamente di colpa perché nella vergogna il comando è molto più violento ed è un giudizio globale negativo che blocca o spinge a nascondersi o a fuggire.
Abbiamo modelli di riferimento e sistemi di valori che ci dicono quando trasgrediamo o se facciamo una determinata azione con successo. Ci sono persone che usano criteri troppo esigenti per giudicare sé stesse e altre che incolpano sempre gli altri per gli insuccessi e si prendono il merito dei successi.
Genitori con alte pretese crescono, a loro volta, figli che pretendono molto da sé stessi: quando non sono all’altezza, si sentono a disagio e se si considerano i responsabili del fallimento, provano vergogna. La vergogna è uno strumento efficace per far interiorizzare valori e modi di comportamento e di condotta, ma se indotta in modo eccessivo diviene motivo di disagio.
L’uso della mimica del disgusto-disprezzo per far sì che il bambino provi vergogna ha i suoi vantaggi (evita di alzare la voce e di fare scenate in pubblico, di usare punizioni corporali) come la minaccia del ritiro dell’amore paterno o materno, ma questi metodi generano attribuzioni globali negative, cioè l’ingrediente essenziale della vergogna.
Se questa emozione sgradevole è aggirata, negata, rimossa, eserciterà comunque la sua azione nociva intrapsichica poiché potremmo non capire quello che ci succede e utilizzare l’ideazione in modo eccessivo per prendere le distanze e cercare così di dissipare la spiacevole sensazione che proviamo. Nella vergogna riconosciuta avremmo l’inverso, cioè un’abbondante reazione emotiva e un’ideazione ridotta al minimo.
Nel caso dell’aggiramento della vergogna a una momentanea sensazione dolorosa segue un’ossessiva reiterazione della scena, dove cerchiamo di non concentrare l’attenzione su quello che sentiamo nel tentativo di ridurre il dolore e magari cerchiamo di porre l’attenzione su altro, su altre emozioni. Tali strategie di sostituzione emotiva hanno una funzione adattiva poiché ci proteggono dalla sofferenza, ma l’emozione continuerà a esistere e ci sentiremo confusi. Il modo migliore per fare i conti con questa emozione, come con le altre, è di accettarla, cioè farsene carico e poi lasciare che si dissolva col tempo. Alla fine finirà per affievolire e sarà sostituita da altre emozioni o pensieri.
Per approfondimenti:
Lewis M. (1992). “Il sé a nudo”. Giunti editore

Se la vergogna non fa più vergognare

di Alessandra Mancini

Effetti della riduzione del problema secondario sull’ansia primaria nella fobia sociale

Per chi soffre di fobia sociale la paura più grande è quella di fare una figuraccia davanti agli altri (“problema primario”). Ad aggravare il problema, vi è la tendenza a valutare se stessi negativamente per il fatto di provare emozioni negative, come vergogna e ansia, e di sperimentarne sintomi come rossore, aumento della frequenza cardiaca e della sudorazione, ecc. (“problema secondario”). Pertanto, è comprensibile che chi si vergogna e si vergogna di vergognarsi tenderà a fuggire il più lontano possibile dalle situazioni che potrebbero esporlo a tale minaccia, alimentando così il circolo vizioso tipico della fobia sociale. Dal punto di vista della psicoterapia cognitiva, il problema secondario o “meta-emotivo” (percepire le proprie emozioni negative come problematiche e inaccettabili) è comune a molti disturbi a base affettiva.

Ma ridurre il problema secondario riduce automaticamente il problema primario?

Questa è l’ipotesi esplorata dalla tesi magistrale di Noemi Morticcioli, supervisionata dal dott. Alessandro Couyoumdjian dell’Università “La Sapienza” di Roma, che ha coinvolto 33 persone con elevati punteggi di fobia sociale. Ai partecipanti è stato chiesto di leggere ad alta voce un brano molto difficile, sottolineando che la loro prestazione sarebbe stata audio-registrata e valutata. Successivamente, sono stati misurati: il valore personale; l’intensità degli stati emotivi soggettivi; la frequenza e la variabilità cardiaca (correlati fisiologici dell’ansia e indici di attivazione del sistema nervoso simpatico). Il campione è stato poi diviso in due condizioni sperimentali e una di controllo. Nelle due condizioni sperimentali, per ridurre il problema secondario, un terapeuta specializzato ha somministrato rispettivamente le tecniche di “defusione” e del “doppio standard”. Al terzo gruppo, invece, è stato chiesto di ripensare alla propria prestazione per indurre la così detta “ruminazione post-evento”, nota per alimentare il circolo vizioso della fobia sociale. I partecipanti sono stati poi esposti a una seconda manipolazione analoga alla prima, per osservare gli effetti prodotti dalle tre condizioni. Come previsto, i due gruppi sperimentali hanno riportato punteggi di valore personale percepito più elevati rispetto al gruppo di controllo, in particolare il gruppo trattato con la defusione. Questo primo risultato sembra essere il più solido e parzialmente in linea con l’ipotesi degli autori. Tuttavia, in questi due gruppi è stata riscontrata anche una tendenza all’aumento nella percezione della sintomatologia ansiosa e dell’attivazione del sistema nervoso simpatico.

Stando a questi dati preliminari, sembrerebbe dunque che la riduzione del problema secondario non conduca automaticamente a una riduzione dell’ansia. È necessario, però, sottolineare che questo dato, che si discosta dalle ipotesi di partenza degli autori, potrebbe derivare da alcuni limiti dello studio; primo fra tutti il fatto che l’esposizione al compito sia avvenuta immediatamente dopo gli interventi terapeutici. Infatti, affinché l’aumento dell’autostima influisca positivamente sulla sintomatologia ansiosa, potrebbero essere necessari altri passaggi (ad esempio, un aumento della disposizione ad affrontare le conseguenze emotive delle situazioni temute). In effetti, gli stessi autori suggeriscono la necessità di studi futuri, che prevedano più di una sessione terapeutica e di un follow-up, che misuri gli effetti del trattamento nel medio periodo. Infatti è possibile che, nel breve periodo, l’innalzamento dei livelli di autostima abbia prodotto una svalutazione della situazione temuta, con conseguente aumento delle pretese personali e un incremento dell’ansia stessa.

Si aggiunge, infine, che potrebbe essere interessante valutare gli effetti della riduzione del problema secondario anche sull’ansia che precede l’esposizione alla situazione temuta (ansia anticipatoria).

In conclusione, la ricerca getta delle basi importanti per lo studio del problema meta-emotivo e conferma l’efficacia della defusione (proveniente dall’Acceptance and Commitment Therapy) nel ridurre i livelli del problema secondario.

 

Per approfondimenti:

 Morticcioli, N. e Couyoumdjian, A. (2018). Effetti della modulazione del problema secondario nella fobia sociale: uno studio sperimentale. Cognitivismo clinico, 14, 2, 153-172.

Vergogna e psicopatologia

di Cristina Salvatori

Associata al timore di evocare una valutazione negativa negli altri, riguarda anche la rappresentazione che l’individuo ha di se stesso

La vergogna è un’emozione sociale secondaria, a valenza negativa. Secondo alcuni autori, scopo di questa emozione è quello di tutelare la buona immagine e l’autostima dell’individuo, costituendo un’emozione fondamentale nel confronto sociale. Generalmente associata al timore di evocare una valutazione negativa negli altri, che vengono considerati superiori, la vergogna non riguarda però solo la rappresentazione di sé nella mente dell’altro ma anche la rappresentazione che l’individuo ha di sé. A tal proposito viene distinto tra “vergogna interna” e “vergogna esterna”, la prima associata ad una serie di valutazioni negative riguardo le proprie caratteristiche, la seconda agli aspetti di sè che si teme gli altri giudicheranno o rifiuteranno se resi pubblici. Questa emozione può portare a inibire i processi di autoconsapevolezza di alcuni stati mentali e la comunicazione, condizionando in questo modo lo sviluppo delle competenze sociali e generando errori sia nella comprensione della mente altrui che nel valutare le conseguenze dei propri comportamenti sugli altri. Si è visto come questa emozione, essendo legata a un’immagine di sé come manchevole e difettoso, abbia un ruolo fondamentale sia nell’esordio che nel mantenimento di alcune forme psicopatologiche. Leggi tutto “Vergogna e psicopatologia”