di Alessia Bilato
curato da Francesco Mancini
L’eziologia del Disturbo Dissociativo dell’Identità (DDI) rappresenta uno dei temi più controversi della psicologia clinica contemporanea.
Nell’ultimo decennio sono emerse due teorie concorrenti rispetto alla genesi del DDI: il modello post-traumatico (D. H. Glaves, 1996), secondo il quale il disturbo si stabilirebbe come risposta difensiva ad un trauma avvenuto durante l’infanzia, e il modello sociocognitivo (Spanos, 1994), che concettualizza il DDI come una rappresentazione di ruoli sociali, derivanti dai suggerimenti dei terapeuti, dalle informazioni fornite dai media sul DDI e da esperienze personali.
In seguito ad un articolo di Glaves (1996), nel quale quest’ultimo critica il modello sociocognitivo, definendo che il modello post-traumatico fornisca una migliore spiegazione eziologica del DDI, Lilienfeld e collaboratori hanno pubblicato un articolo (1999) per dimostrare come tale conclusione sia ingiustificata.
In primo luogo, questi autori affermano che molte delle argomentazioni proposte da Glaves siano interpretazioni erronee degli assunti del modello sociocognitivo. Ad esempio, Glaves dichiara che un disturbo non può essere interamente iatrogeno o interamente non iatrogeno. Tuttavia, il modello sociocognitivo non ipotizza che l’eziologia del DDI sia completamente iatrogena, in quanto propone che le caratteristiche del disturbo possano essere costruite a partire da una varietà di fonti in aggiunta ai suggerimenti involontari dei terapeuti e che le influenze sociali non siano le solo cause rilevanti del DDI. Difatti, anche le differenze individuali nella personalità possono predisporre certi individui al disturbo in questione.
In secondo luogo, la letteratura sul trattamento del DDI suggerisce che i fattori iatrogeni giochino un ruolo importante nell’eziologia. Ciò è evidenziato dal fatto che il numero di pazienti ai quali è stato diagnosticato il disturbo sia aumentato considerevolmente durante i decenni passati, in concomitanza con l’incremento delle conoscenze dei terapeuti rispetto alle caratteristiche diagnostiche del DDI. Inoltre, la maggior parte dei pazienti con DDI mostra pochi segnali di questa condizione prima della terapia e il trattamento sembrerebbe rinforzare verbalmente la presenza di altre identità, che aumenterebbero nel percorso terapeutico.
In terzo luogo, le prove che mettono in relazione l’abuso infantile con il DDI risultano essere problematiche. Nonostante Glaves abbia esaminato numerosi studi che riportano un’alta prevalenza di abuso infantile tra i pazienti con DDI, in nessuno di questi studi l’abuso era confermato da fonti differenti dal paziente stesso. Per di più, anche se fosse confermato, rimarrebbe da determinare se una storia di abuso infantile sia più comune tra i pazienti con DDI che tra i pazienti psichiatrici in generale e se possa essere associata causalmente con il rischio di un successivo DDI.
In conclusione, numerose linee di evidenza convergono sulla conclusione che la iatrogenesi giochi un ruolo importante nell’eziologia del DID, ma è fondamentale indagare quale sia la sua rilevanza comparata con altre potenziali variabili causali, come l’influenza dei media.
La recente epidemia di diagnosi di DDI impartisce un’importante lezione agli psicoterapeuti di oggi: la psicoterapia può avere anche degli effetti nocivi e questo deve costituire un necessario promemoria per il clinico, in quanto egli può essere scopritore quanto creatore di psicopatologia.
Per approfondimenti:
Lilienfeld, S.O., Lynn, S.J., Kirsch, I., Chaves, J.F., Sarbin, T.R., Ganaway, G.K, Powell, R.A. (1999). Dissociative identity disorder and the sociocognitive model: recalling the lessons of the past. Psychological Bulletin, 125 (5), 507-523.