Storia, tecniche e utilità clinica
È il 1850 quando il direttore del manicomio femminile di Surrey, il dottor Hugh Welch Diamond, decide di utilizzare la fotografia come strumento di cura per le sue pazienti e di testimonianza dei loro progressi nel corso della terapia effettuata. Tra queste, i casi di due donne trattate con successo furono presentati alla Royal Society di Londra: una affetta da depressione post-partum e l’altra da delirio.
Entrambe le donne vennero fotografate nel corso del loro trattamento psichiatrico allo scopo di permettergli di osservare la trasformazione del loro aspetto e aumentare la consapevolezza circa i loro progressi attraverso l’interazione con la propria immagine.
È questo il cuore della foto-terapia, pratica perfezionata dalla psicologa e arte-terapeuta Judy Weiser che promuove l’utilizzo del materiale fotografico nel processo terapeutico: l’intento è fare emergere vissuti, ricordi e pensieri, a partire dalla convinzione che “il modo in cui una persona guarda le fotografie riflette il modo in cui si pone di fronte al mondo e agli altri”.
Si può dunque ricorrere all’uso di questo strumento all’interno di un percorso psicoterapeutico?
A Lione, Alain Baptiste e Claire Belisle propongono il metodo del photolangage, successivamente sviluppato da Claudine Vacheret, per favorire la mediazione del pensiero e della parola all’interno di un gruppo psicoterapeutico. Questo metodo, applicabile a gruppi composti da un massimo di dieci membri (adolescenti, adulti, anziani) con difficoltà a verbalizzare i propri stati emotivi, è strutturato in sei sessioni settimanali della durata di un’ora e un quarto circa, condotte da due psicoterapeuti. In un primo tempo i membri del gruppo vengono chiamati a scegliere una fotografia tra quelle proposte su una base tematica in linea con l’obiettivo terapeutico concordato e, successivamente, a condividere la propria scelta e le sue ragioni agli altri partecipanti. Ogni immagine viene così posta sotto la visuale di diversi punti di vista e “messa in discussione”, validando il punto di vista di ognuno che, guardato con flessibilità, diviene immediato spunto di riflessione sulla possibilità di adottare una prospettiva diversa, a volte più funzionale.
Il metodo del photolangage trova oggi applicabilità in svariati ambiti: dal sostegno alla genitorialità ai processi di transizione dei pazienti in attesa di essere dimessi da strutture pubbliche e private (ser.D., carceri, consultori, servizi di salute mentale) per favorire i processi di integrazione sociale.
Un’altra tecnica che integra l’utilizzo della fotografia al processo terapeutico di gruppo è il fotocollage. Questo metodo favorisce l’emergere dei conflitti e dei bisogni dell’individuo attraverso il contrasto delle immagini scelte e della loro localizzazione nello spazio, dando vita, attraverso le foto selezionate, a un dialogo interiore o alla “messa in scena” della propria storia di vita. Tale strumento si rivela, infatti, molto utile nella raccolta della vulnerabilità storica dei rifugiati e richiedenti asilo poiché, se inserito all’interno di un setting terapeutico strutturato, permette di fare emergere i vissuti emotivi e gli eventi di vita traumatici legati al viaggio migratorio. Uno studio condotto dall’arteterapeuta Debra Kalmanowitz ha mostrato come l’integrazione del fotocollage alla mindfulness abbia portato a un aumento della resilienza e delle strategie di gestione delle perdite subite dopo esperienze estreme e traumatiche. Similmente, lo psicologo Owen Fitzpatrick ha condotto una ricerca sulle donne bosniache sopravvissute ai conflitti bellici in cui l’uso di materiale fotografico ha favorito non solo l’esplorazione delle esperienze traumatiche legate alla guerra, all’oppressione e all’esilio, ma anche l’integrazione di queste esperienze lungo il continuum della propria vita.
Nel setting psicoterapeutico individuale possiamo invece ricorrere ai più svariati utilizzi della fotografia. Possiamo chiedere alla persona di raccogliere momenti di vita specifici finalizzati alla ricostruzione della propria storia di vita o foto che permettano la ricostruzione di eventi frammentati legati a scompensi traumatici. E ancora, con pazienti che difficilmente accedono alla parte più vulnerabile di sé o che hanno difficoltà di accesso a ricordi precoci, richiedere foto dell’infanzia può rivelarsi estremamente utile e favorirne il contatto compassionevole con la parte bambina. Ricorrere invece all’uso di fotografie del paziente scattategli da altre persone, magari da quelle per lui significative, potrebbe permettere di riflettere sulla sua immagine da un punto di vista esterno o sulle sue relazioni con gli altri per lui significativi. Judy Weiser propone inoltre l’uso dell’autoritratto: un metodo che permette al paziente di autodescriversi ed esprimere sé stesso in modo alternativo. Nell’autoritratto, infatti, l’individuo ha il pieno controllo di ogni aspetto dello scatto (posizione, sfondo, parte di sé da mostrare) e, di conseguenza, il risultato finale altro non sarà che quello che la persona tende o vuole mostrare di sé e quello che invece, rimasto invisibile dietro le quinte, vuole nascondere.
Il potere di questo strumento in chiave terapeutica è del resto l’oggetto di numerosi lavori artistici. Da “Some Disordered Interior Geometries” di Francesca Woodman a “The final project” di Jo Spence, sino al più recente “Someone to love” di Cristina Nunez. Quest’ultima, offre, ai nostri occhi, un processo di esplorazione interiore che, attraverso autoritratti scattati dal 1988 al 2011 con l’alternanza di foto di famiglia, non solo permette l’accesso a eventi significativi della sua vita (l’infanzia, l’adolescenza da tossicodipendente, l’emigrazione in Italia) ma ne rappresenta anche una disperata e lunga ricerca di qualcuno da poter amare: sé stessa. L’uso del materiale fotografico in psicoterapia si rivela pertanto possibile se inserito all’interno di un setting strutturato che allontana la fotografia dal valore puramente estetico per divenire utile strumento in grado di indagare, esprimere e rafforzare l’identità dell’individuo. Perché, del resto, per dirlo con le parole di Francesca Woodman: “You cannot see me from where I look at myself”.
Per approfondimenti:
Diamond, H. W. (1857). I. On the application of photography to the physiognomic and mental phenomena of insanity. Proceedings of the Royal Society of London, (8), 117-117.
Fitzpatrick, F. (2002). A search for home: The role of art therapy in understanding the experiences of Bosnian refugees in Western Australia. Art Therapy, 19(4), 151-158.
Kalmanowitz, D., & Ho, R. T. (2016). Out of our mind. Art therapy and mindfulness with refugees, political violence and trauma. The arts in psychotherapy, 49, 57-65.
Lacoste, L. (2007). Approche psychothérapique groupale d’un sujet psychiatrique âgé à travers un groupe Photolangage®. NPG Neurologie-Psychiatrie-Gériatrie, 7(42), 29-34.
Vacheret, C. (2008). Il Photolangage: un metodo gruppale a veduta terapeutica o formativa. Psicologia: Teoria e Prática, 10(2), 180-191.
Weiser, J. (1984). Phototherapy–becoming visually literate about oneself. Visual literacy: Enhancing human potential.
https://www.cristinanunez.com/portfolio/someone-to-love/
https://www.tique.art/exhibitions/jo-spence-the-final-project/