2 aprile 2020: autismo in quarantena

di Giulia Giovagnoli

Oggi ricorre la Giornata Mondiale dell’autismo. Non siamo tutti uguali in questo straordinario momento di isolamento e di paura

Passa una pubblicità: una famiglia sorridente si gode la quarantena, condivide momenti di gioia ritrovata per la coatta possibilità di vivere insieme giornate altrimenti trascorse dietro a mille impegni. Con una musica che ormai ci nausea, la televisione consiglia come trascorrere le giornate. Il Coronavirus ci sta regalando ciò che avevamo perso: il tempo con i nostri cari.

Questo vale, però, solo per alcune famiglie, quelle dove il tempo trascorso a casa è prezioso, ricco, da raccontare nei Natali che verranno.

Tuttavia, esiste anche un’altra realtà, ben diversa, dove la quarantena non regala tempo, ma lo sottrae: è il tempo della terapia, della riabilitazione e della socializzazione.

In Italia, le persone che presentano un disturbo dello spettro autistico sono migliaia e ora, come tutti, sono costrette a rimanere a casa. La situazione allora è molto diversa dalla pubblicità.

I genitori che ancora hanno un impiego sono occupati nello smart working e il lavoro non fa sconti nemmeno se si ha nella stanza accanto un bambino che ha bisogno di attenzioni e stimoli costanti. Madri e padri si alternano nel cercare di intrattenerli, ma non è semplice. Gli interessi non sono quelli dei loro coetanei neurotipici, spesso non si può semplicemente fare un puzzle o un disegno. Bisogna inventarsi attività a misura del bambino, tenere conto dei suoi interessi, delle sue capacità e rispettare tempi di attenzione spesso brevi. Se il figlio è grande, intrattenerlo è forse ancora più dura. D’altra parte, lasciarlo da solo significa sapere che penserà ai suoi interessi stereotipati, ripeterà frasi apparentemente senza senso, camminerà avanti e indietro senza uno scopo preciso. I dispositivi elettronici arrivano in soccorso intrattenendolo più a lungo, ma spesso con la conseguenza di aumentare quel soliloquio senza senso. Il genitore lo sa: gli deve lasciare quel tempo da solo, è inevitabile. Intanto, il telefono squilla, il capo chiama, c’è una scadenza da rispettare, un lavoro da mantenere.

Il costo da pagare è il conto emotivo che si presenta quando il genitore si chiede se tutto quel tempo da solo gli abbia fatto male; quando si angoscia pensando alle ore di terapia perse, alle occasioni di socializzazione ormai inesistenti, alla paura di veder svanire le conquiste faticosamente raggiunte; quando si rimprovera per non aver avuto pazienza, si sente in colpa e si rinnova la sofferenza e il senso di impotenza.

Certo, la salute fisica è un bene più grande. Lo sanno perfettamente questi genitori che dal giorno della diagnosi si chiedono: “Cosa succederà quando non ci sarò più?”. Chissà, allora, quanta paura si prova per il contagio, per la morte, quanto timore si può provare di lasciare un bambino o un ragazzo senza aver avuto il tempo per programmare il suo futuro. Chissà come può essere angosciante il pensiero di vedersi sottrarre un posto in terapia intensiva riservato a qualcuno “sano”, qualora il proprio figlio venisse contagiato.

Il disturbo dello spettro autistico ci impone di considerare che l’uguaglianza non è giustizia e che “tutti” è una parola che fa rabbia. Non siamo “tutti uguali” nella vita quotidiana, quando i pomeriggi sono scanditi dagli orari delle terapie, i pasti dai gusti selettivi dei bambini, lo stipendio dal pagamento delle terapie spesso private, la scuola dai programmi differenziati e dagli insegnanti di sostegno. Non siamo “tutti uguali” quando i genitori devono imparare da specialisti come interagire con i loro figli, come stimolarli, come gestirli. Non siamo allora “tutti uguali” adesso, in questo straordinario momento mondiale di isolamento e di paura.

Oggi, 2 aprile, ricorre la Giornata Mondiale per la consapevolezza dell’autismo e forse i palazzi della politica e della cultura verranno illuminati di blu. Forse “tutti gli altri” ricorderanno che esiste anche questa realtà e che ha diritto di essere ascoltata soprattutto adesso. Se non siamo “tutti uguali” nelle difficoltà, non dobbiamo esserlo nemmeno nel riconoscimento dei diritti: il diritto di uscire di casa, di avere un sostegno economico per proseguire le terapie, di avere degli esoneri prolungati dal lavoro, di usufruire di una didattica specializzata e individualizzata.

Forse le luci blu serviranno a ricordare a tutti che il disturbo dello spettro autistico non è il problema di pochi ma una responsabilità comune e, come diceva Fabrizio De André: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.