Chi si accontenta gode. È vero?

di Maurizio Brasini

Oppure, come canta Ligabue, ”chi si accontenta gode così così”? Tutto dipende da cosa intendiamo per accontentarci

Apparentemente, l’idea che chi si accontenta poi è soddisfatto/contento è una verità tautologica. In realtà è diverso essere soddisfatti/contenti, una condizione di fatto che possiamo raggiungere senza alcuno sforzo, ad esempio perché la nostra squadra del cuore vince una partita, e accontentarsi, che implica, invece, il dover fare qualcosa, adattare il nostro stato d’animo agli avvenimenti in modo tale da essere contenti, per esempio se la squadra del cuore non ha vinto ma io posso pensare che comunque ha giocato bene. Questo è accontentarsi. Ma è un bene o un male?

Partiamo dal significato della parola. “Contento” deriva dal latino contentus, ovvero “contenuto”, e quindi rimanda all’idea di contenere o contenersi, vale a dire di rimanere entro certi limiti, non spingersi oltre, suggerendo un’idea di moderazione, di limitazione delle proprie aspettative e aspirazioni. Questa è la prima accezione di accontentarsi, quella più moraleggiante, a cui rimanda il proverbio: gode davvero chi non cede al peccato capitale dell’avarizia (brama insaziabile di cose materiali) o anche della gola o della lussuria.

Nella Divina Commedia, l’esempio illuminante dell’incontinenza sono Paolo e Francesca: peccatori per i quali è previsto che “men crucciata / la divina vendetta li martelli” (Inferno, Canto XI, vv. 89-90). Non a caso Dante, in accordo con la morale aristotelica, ci invita a un comprensivo moto di pietà verso i due amanti; lo fa perché si intende meno grave il loro peccato, che consiste nel non aver saputo “frenare e mantenere entro i limiti dell’onesto e del giusto, la volontà eccitata dalle passioni nell’ordine d’istinti e di appetiti naturali e quindi per sé stessi, se mantenuti con moderazione, sani e legittimi” (Encicolpedia Dantesca Treccani). L’incontinenza è dunque amore mal indirizzato.

In senso psicologico, contenere significa saper “reggere”, sostenere e tollerare alcuni stati mentali o emotivi. Il contenimento è quella funzione che fin dai primi mesi di vita svolge chi si prende cura di noi, nell’aiutarci a tollerare in particolare le condizioni di disagio, e più in generale tutti quegli aspetti della realtà che non sappiamo fronteggiare. Generalmente gli stati d’animo sono il centro di questa operazione di contenimento, e la relazione con la madre insegna al bambino a “reggere” i suoi stessi stati d’animo: che si tratti di una paura, o di un dolore o anche di una gioia incontenibile, la relazione ha una funzione di contenimento, cioè consente di tollerare ciò che accade e gli effetti emotivi che provoca. Pian piano, col tempo, il bambino impara a svolgere questa funzione in modo autonomo, vale a dire a “contenersi” da solo.

In questo senso, sapersi accontentare significa appunto essere capaci di contenersi, di fare da argine alle proprie reazioni emotive di fronte alla realtà. Se la mia squadra del cuore perde, io posso imparare a tollerare la delusione e la rabbia, e a considerare gli aspetti positivi di questo evento per me sfavorevole o comunque a non lasciarmene travolgere.

Torniamo all’accontentarsi nella sua accezione più comune, inteso come farsi bastare ciò che si ha, accettare la distanza tra i nostri desideri, aspettative, aspirazioni e la realtà. Per esempio, vorrei avere i soldi per andare a sciare nel weekend, ma in realtà ho i soldi sufficienti per un cinema e una pizza. Quello che posso avere, dal mio punto di vista, è di meno di ciò che vorrei. Che cosa è meglio fare? Mi accontento?

Qui entra in gioco una questione interessante e ben nota: la questione dell’uovo oggi e della gallina domani. Prendete un bambino e mettetegli davanti un dolcetto. Poi avvisatelo che state per uscire dalla stanza, che tornerete presto, e che se al vostro ritorno non avrà mangiato il dolcetto potrà averne altri due. Il bambino si ritroverà da solo con un cioccolatino a portata di mano, sapendo che se resiste alla tentazione di mangiarselo subito, a breve potrà averne tre al posto di uno solo. Questo semplice test, che gli americani chiamano “marshmallow test”, misura efficacemente la capacità di “contenersi”, di tollerare le frustrazioni e regolare gli impulsi che spingono alla soddisfazione immediata del bisogno in vista di una maggiore soddisfazione in futuro. Tornando all’uovo e alla gallina, se riesco a rinunciare all’uovo oggi anche se ho fame, posso puntare ad ottenere la gallina domani. La cosa più interessante è che il marshmallow test si è dimostrato una misura affidabile delle probabilità di successo nella vita.

Ora, se accontentarci significa mangiare il dolcetto subito (o l’uovo oggi), allora ha ragione Ligabue nella canzone “Certe notti”: saremo soddisfatti così e così. Ma questa idea di accontentarsi è molto vicina a rinunciare. Se invece accontentarci significa saper contenere noi stessi, accettare la scomoda situazione di avere davanti un dolcetto (o un uovo) che ci fa gola ma scegliere di non mangiarlo e tollerare questa scomoda circostanza in vista di un obiettivo ancora di là da venire, allora è vero che chi si contenta gode.

In altre parole, accontentarsi non significa rinunciare, ma saper accettare i limiti imposti dalla realtà, tollerando disagi e frustrazioni. Questo può aiutarci a mantenere vivi i nostri obiettivi e a perseguirli con impegno. Accontentarsi allora diventa il primo requisito per avere successo e soddisfazione, perché ci consente di indirizzare efficacemente il nostro entusiasmo, che è una forma d’amore, è scintilla divina.