Disgusto e moralità: una relazione complessa

di Olga Luppino

La sensibilità al disgusto è legata a particolari tipologie di esperienze precoci?

Se sei particolarmente sensibile al disgusto e magari anche piuttosto attento a rispettare norme etico-morali per non sentirti in colpa questo breve post potrebbe interessarti e offrirti qualche spunto di riflessione.

Il disgusto si presenta come una delle più complesse tra le emozioni di base. Numerosi contributi di letteratura ne hanno chiarito, negli ultimi anni, domini e funzioni, mettendo in luce attraverso evidenze comportamentali, neurofisiologiche e di neuroimaging, la stretta associazione che intercorre tra il disgusto e la moralità.

In termini evolutivi, oltre a proteggere il corpo fisico dalla contaminazione, il disgusto si sarebbe infatti sviluppato a tal punto da divenire “sentinella morale”, segnale innato a garanzia dell’integrità etico-morale dell’individuo e a salvaguardia della sua appartenenza alla comunità sociale.

Ma come si spiega il link tra disgusto e morale a livello della storia del singolo individuo? L’esposizione a specifiche esperienze gioca forse un ruolo nel determinare una maggiore o minore predisposizione a provare disgusto? E in che modo in questo processo entra in campo la moralità?

Un recente studio condotto nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) di Roma ha provato a dare un prima risposta a queste domande.

Gli autori, dopo aver reclutato un campione di 60 soggetti non clinici, hanno loro indotto sperimentalmente l’emozione del disgusto mediante l’immedesimazione in uno scenario audioregistrato per poi favorire la rievocazione di memorie precoci disgusto-correlate.

Interessante quanto emerso dalla disamina dei contenuti delle memorie evocate, affidata al lavoro di 10 valutatori indipendenti.

Una maggiore sensibilità all’emozione del disgusto si è mostrata positivamente correlata alla rievocazione di memorie inerenti esperienze precoci dal contenuto morale: più nel dettaglio esperienze in cui da bambini si è stati oggetto di rimprovero, criticismo, rabbia e iper-responsabilizzazione.

Tali esiti, sebbene preliminari, confermano la stretta associazione tra disgusto e moralità e aprono la strada ad ulteriori studi in questa direzione.

Per scaricare l’articolo:

Luppino, O. I., Tenore, K., Mancini, F., Mancini, A. (2023). The Role of Childhood Experiences in the development of Disgust Sensitivity: a preliminary study on early moral memories. Clinical Neuropsychiatry, 20(2), 109-121. doi.org/10.36131/cnfioritieditore20230203

 

La psicologia dei desideri formulati al contrario

di Giuseppe Femia e Isabella Federico

Quando scopi e intenzioni generano fuga, evitamento e non direzione

La nostra psicologia è governata da desideri e scopi che guidano i nostri pensieri e i nostri comportamenti.

Talvolta ci rappresentiamo i desideri in modo alterato, capita di essere molto bravi a descrivere quello che NON vogliamo piuttosto che capire quello di cui veramente abbiamo bisogno, ad esempio non ci diciamo “voglio essere una persona amata” ma “non voglio essere solo”.

Questa forma alterata del desiderio, quando diventa una modalità stabile, una sorta di abitudine cognitiva di formulare i propri bisogni o i propri scopi di vita, genera confusione e frustrazione. Metaforicamente questo clima esistenziale in cui governa “la paura di cadere e non la voglia di volare” potrebbe somigliare ad un tempo supplementare di una lunga e stancante partita durante la quale si gioca in difesa, sperando di non subire un altro goal dell’avversario, piuttosto che in attacco, con la volontà di segnare e portare a casa una vincita con energia. Una lotta contro la sconfitta e non una corsa verso la vittoria.

La psicologia dei desideri formulati al contrario diventa dunque un percorso faticoso, una salita fatta di sacrificio, inibizione, sconforto, ansia, tristezza.

Questo tipo di formulazione anziché rappresentare uno stato desiderato a cui ambire, da raggiungere con soddisfazione, reclama – nella nostra mente – un timore, o un gruppo di paure e diventa quasi uno scenario spaventevole che ci prefiguriamo come anticamera del fallimento.

Questo tipo di atteggiamento mentale, anziché motivarci in modo funzionale verso il raggiungimento dei nostri bisogni, produce una psicologia della paura, genera sofferenza e angoscia.

Spesso in psicopatologia osserviamo una specie di ancoraggio a tematiche specifiche e/o timori specifici con la paura di fallire in domini particolarmente rilevanti per l’architettura mentale, cognitivo/emotiva di ciascun disturbo.

Ad esempio, nel caso della depressione la persona riferisce di NON voler essere triste, di NON voler essere bisognosa, di NON voler essere una persona sola e poco amabile. Alla formulazione negativa sembra corrispondere il quasi contrario in termini di credenza: non voglio essere una persona sola, una persona poco amabile, o disprezzabile dagli altri, triste e isolata, o depressa (come mio padre), corrisponde una credenza in cui la persona si dice “sono una persona poco amabile” con delle regole assolutistiche che generano sofferenza, ad esempio: se mi faccio vedere triste, allora sarò una persona sola e poco amabile”.

Per continuare, ad esempio, nel caso del Disturbo Ossessivo-Compulsivo la persona NON vuole essere colpevole, NON vuole essere irresponsabile, piuttosto che desiderare di essere una persona giusta e una persona responsabile.

In qualche modo, la persona ha nella sua mente ben rappresentato lo scenario temuto, che a sua volta – in un circolo vizioso di mantenimento – aumenta la sofferenza psicologica esperita, che amplia – quasi come una lente d’ingrandimento deformante – la fonte della sofferenza stessa: lo scenario temuto, appunto, dal quale la persona cerca a tutti i costi di fuggire, ma come un’ombra quest’ultimo le rimane attaccato addosso, la insegue senza tregua, appare ingigantito nella sua mente, fino a paralizzarla nel buio della sua stessa ombra.

Similmente, nell’area dei Disturbi di Personalità, ci muoviamo in un campo intriso, da sempre, da teorie motivazionali che ruotano attorno al concetto di bisogni psicologici fondamentali, di cui Dweck (2017) ha proposto un’integrazione all’interno di una teoria unificata della personalità.  Gli scopi o gli antiscopi rivestono un ruolo centrale nella genesi, nel mantenimento e nell’aggravamento della sofferenza psicopatologica, soprattutto quando connotati da iper-investimento (Mancini e Mancini, 2021 in Perdighe e Gragnani (a cura di), 2021).

Prendiamo, ad esempio, il Disturbo Borderline di Personalità (DBP): chi soffre di tale disturbo si rappresenta uno scenario temuto di tipo abbandonico in modo totalizzante, anticipando con la mente la catastrofe paventata. NON voglio essere abbandonato/a diventa il focus centrale da cui conseguono gli sforzi incessanti per evitare l’abbandono: più che remare verso uno scenario desiderato, sono intenti a remare contro una corrente che vorticosamente li risucchia: l’abbandono viene letto come una conferma della propria indegnità, dell’essere “sbagliati”, “dei vasi rotti da lasciare nel retro bottega”. E quanto più la corrente è forte – vale a dire quanto maggiore è la valenza/l’importanza attribuita all’antiscopo del non voler essere abbandonati – tanto più si rafforzano le credenze psicopatologiche nucleari di non essere degni di amore e di vivere una vita degna di essere vissuta (macro-goal quest’ultimo da costruire nella terapia con pazienti con DBP).

Nel disturbo narcisistico di personalità, anche nelle forme più grandiose, sembrerebbe nascondersi un nucleo di inadeguatezza/vergogna e un timore di NON essere mai all’altezza, NON essere mai abbastanza speciali, NON essere mai abbastanza di valore. Per cui, in alcuni casi – specialmente nei quadri più vulnerabili (“covert”) – lo scenario temuto, da fuggire a tutti i costi, viene spesso riferito con un NON davanti: NON voglio essere inferiore rispetto agli altri, NON voglio deludere le aspettative ed essere, per questo, umiliato. Da qui le continue oscillazioni relative all’autostima e all’idea di Sè, la compromissione dei domini interpersonali – di empatia e intimità -, la competizione (sottile o manifesta) che annusano nell’aria, in un continuo confronto tanto con gli altri quanto con se stessi.

La psicologia dei desideri formulati al contrario, dunque, sembrerebbe presentare un meccanismo simile a quello delle sabbie mobili: tanto più la persona cerca di dimenarsi disperatamente per evitare di essere sommerso, tanto più vi affonda.

Forse il compito della psicoterapia è proprio quello di aiutare la persona ad “uscire dalle sabbie mobili” e di spronarla a muoversi guidata dal raggiungimento di desideri o meglio da scopi raggiungibili, perseguibili e che possano promuovere un piano di vita più ampio, appagante e maggiormente flessibile.

Riferimenti bibliografici

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Dweck, C.S. (2017). “From needs to goals and representations: Foundations for a unified theory of motivation, personality, and development”. In Psychological Review, 124, pp. 689-719.

Johnson-Laird P.N., Mancini F., Gangemi A. (2006). A hyper-emotion theory of psychological illnesse. In: Psychological Review 113, No. 4, 822–841, 113 (4), pp. 822–841.

Lorenzini R. (2013). Tribolazioni 05- Gli Antigoal. In Lorenzini R. Tribolazioni (monografia a cura di), State of Mind, id 29681, aprile 2013

Lorenzini R. (2016). Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali. In Lorenzini R. Ciottoli di psicopatologia generale (rubrica), State of Mind, id 117470, gennaio 2016.

Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Mancini F., Perdighe C. (2012); Perché si soffre? 
iIl ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotive. Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115

Mancini F., Romano G. (2014). Bambini che mangiano poco, bambini che mangiano troppo: il trattamento CBT per i disturbi alimentari in età evolutiva. Relazione presentata al convegno “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione”. Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, Roma.

Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

Mancini, F., Mancini, A., (2021) Il ruolo degli scopi nei disturbi di personalità. In Perdighe, C. e Gragnani, A. (a cura di) (2021). Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore (ISBN 978-88-3285-322-3), pp. 833-874.

Paglieri F., Castelfranchi C. (2008). Decidere il futuro: scelta intertemporale e teoria degli scopi. Giornale italiano di psicologia / a. XXXV, n. 4, dicembre 2008, 739-771.

Perdighe, C. e Gragnani, A. (a cura di) (2021). Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore (ISBN 978-88-3285-322-3).

Foto di Pixabay: https://www.pexels.com/it-it/foto/donna-in-piedi-sul-soffitto-all-interno-della-stanza-207858/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sentirsi al sicuro

di Sabrina Bisogno

Cosa accade quando si ha la percezione di un pericolo imminente

Durante la manifestazione di apertura dell’ultimo congresso della Società Italiana di Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva, uno dei chair ha affermato: “In condizioni di sicurezza, ci assomigliamo un po’ tutti”.

Lo psicologo e psicanalista Peter Fonagy, professore alla University College di Londra e ospite del congresso, ha ricordato il vissuto di profonda alienazione sperimentato quando, profugo ungherese, si è ritrovato in Inghilterra e, per far fronte al proprio malessere, ha intrapreso un percorso di cura. Ha quindi sottolineato quanto sia potenzialmente danneggiabile lo “strato epidermico” che ci protegge dalla malattia mentale e come sentirsi al sicuro sia un fattore protettivo per la psiche.

Ma cosa vuol dire sentirsi in pericolo?

Possiamo affermare che ciascun essere umano ha un personale impianto di sorveglianza, ossia il sistema nervoso autonomo, che è pronto a rilevare segnali di pericolo grazie alla “neurocezione”: ciò che sente istintivamente il corpo.

Quando viene rilevato un pericolo, l’attivazione del sistema nervoso simpatico permette strategie di difesa, di attacco o fuga. E quando non si è in grado né di lottare né di fuggire, il tratto dorso vagale della branca parasimpatica permette la sopravvivenza attraverso l’immobilizzazione.

Questo è ciò che accade a ciascun essere umano di fronte ad un pericolo reale e oggettivo, come ad esempio la comparsa improvvisa di un animale minaccioso.

Tuttavia è interessante tener presente che questo accade anche di fronte a pericoli meno oggettivi ma ugualmente percepiti come significativi e imminenti, come ad esempio la minaccia di un rifiuto, di un abbandono o di una umiliazione: quando dunque il pericolo non è fuori ma è legato ai contenuti mentali e a come ci si sente in specifiche situazioni.

Quando invece ci si percepisce in una condizione di sicurezza, queste strategie di auto-protezione sono depotenziate, silenti, e a essere attivo è il tratto ventro vagale della branca parasimpatica. Quando ci si sente al sicuro, quindi, il sistema nervoso autonomo non è impegnato nel reclutare energie per difendersi e ci si sente calmi.

In una condizione di pericolo percepito, tutte le energie sono investite nella difesa e non c’è spazio per l’apprendimento sociale. Manca quella sufficiente sensazione di fiducia che permette la sperimentazione, il cambiamento, la costruzione di relazioni, l’intimità.

Ricordare quindi che il cervello umano funziona nello stesso identico modo sia che si tratti di un pericolo oggettivo e facilmente riconoscibile (animale minaccioso) sia che si tratti di un pericolo soggettivo (paura di restare soli, di essere rifiutati, etc.) aiuta a comprendere come mai si sperimenti la sensazione di non essere “lucidi” o in grado di gestire le  proprie reazioni di fronte ad alcuni stimoli specifici.

Nel momento in cui viene percepito il pericolo, anche se non a un livello di piena consapevolezza, il sistema nervoso autonomo disattiva le funzioni superiori non necessarie e attiva quelle primitive volte alla sopravvivenza. Se si avverte ad esempio il rischio di essere abbandonati, si ha quindi la sensazione di poter non sopravvivere e si agisce al fine di salvarsi.

E allora ci si ritrova, spesso senza neppure sentirsi pienamente al comando, ad attaccare o fuggire o bloccarsi.

Questi presupposti teorici hanno un significativo impatto sui modelli operativi di coloro che a più livelli si occupano di salute mentale, perché chiariscono quanto possa essere essenziale implementare lo stato di sicurezza e aiutano a comprendere come mai l’essere umano si mostri resistente al cambiamento. I comportamenti umani, infatti, se pur disfunzionali, rappresentano spesso l’istintivo tentativo di sopravvivenza e quando si è impegnati a sopravvivere emotivamente, non c’è spazio per nessuna riflessione o azione di buon senso.

Una maggiore consapevolezza di sé e dei propri personali segnali di minaccia aiuta a modulare e padroneggiare meglio i comportamenti.

Foto di MART PRODUCTION da Pexels

Metodo socratico in psicoterapia

di Andrea Paulis

Nonostante affondi le proprie radici nella filosofia greca, il metodo socratico è ancora oggi uno strumento utile nella ristrutturazione cognitiva

Il Metodo Socratico, in terapia cognitiva è solitamente descritto come una modalità di dialogo utile per ottenere informazioni clinicamente rilevanti, considerare punti di vista alternativi e aumentare l’insight nel paziente. Tale metodo presuppone che il terapeuta, seguendo i principi filosofici della scoperta guidata, conduca genuinamente l’interlocutore verso intuizioni o scoperte in grado di generare nuove conclusioni. Pertanto, l’obiettivo primario del dialogo socratico in psicoterapia non è quello di “cambiare” la mente dell’altro, ma di guidarlo nella scoperta di nuovi punti di vista.

Molti terapeuti esperti considerano l’uso del metodo socratico come una caratteristica centrale della terapia cognitivo comportamentale (CBT), mentre altri lo percepiscono come uno strumento prezioso ma non necessario ai fini di un buon trattamento. Nell’interessante studio di Gavin I. Clark e Sarah J. Egan è stata indagata proprio la percezione dell’importanza dell’uso del metodo socratico in un campione di terapeuti CBT esperti e i risultati hanno sottolineato come tutti i partecipanti identifichino tale metodo come efficace nel facilitare diversi effetti positivi all’interno della terapia; in particolar modo: il cambiamento delle credenze, la produzione di nuovi insight, la possibilità di interiorizzare il metodo socratico, l’aumento del coinvolgimento attivo all’interno della terapia e la capacità di arrivare a nuove conclusioni mediante il ragionamento.

Sebbene sia fondamentale comprendere quanto il clinico reputi utile tale metodo, è altresì importante lo sforzo fatto da Louise Heiniger e colleghi, i quali si sono occupati di indagare la preferenza, in una popolazione non clinica, tra una modalità di colloquio socratico e una modalità più didattica e direttiva di rivolgersi e interagire con il paziente. È stato chiesto ai partecipanti dello studio di esprimere una preferenza nei confronti di uno dei due metodi presi in esame, valutando l’utilità percepita delle domande dei terapeuti, il supporto all’autonomia e la probabilità di impegnarsi in attività terapeutiche. I risultati mostrano che i partecipanti esaminati preferiscono l’utilizzo di un metodo socratico da parte del terapeuta piuttosto che l’uso di un metodo “didattico”; nel primo caso, infatti, le domande sono state percepite come più utili e le modalità del colloquio sono state giudicate come più empatiche e di supporto all’autonomia.

Considerate queste differenti prospettive sul metodo, rimane da stabilirne empiricamente l’efficacia; un interessante spunto al riguardo arriva dal recente studio di Lisa N. Vittorio e colleghi, i quali hanno indagato l’efficacia del metodo socratico nel trattamento della depressione. Gli studiosi hanno individuato che l’uso di domande socratiche permette di prevedere un miglioramento dei sintomi nei soggetti che sono influenzati da aspettative particolarmente pessimistiche circa il proprio futuro.

Nell’insieme, questi recenti lavori permettono di riflettere sull’utilità del metodo socratico nel favorire la ristrutturazione cognitiva tipica dell’approccio CBT e sulla validità di un metodo che, nonostante affondi le proprie radici nella filosofia greca, resta attuale. Tuttavia, è bene sottolineare la profonda carenza di studi che indagano con accuratezza il ruolo e l’efficacia del dialogo socratico nel produrre un miglioramento. Probabilmente la poca chiarezza circa le modalità di impiego dello stesso e la mancanza di una definizione univoca e condivisa del metodo non ne rendono semplice l’indagine. Si auspica, pertanto, che studi futuri chiariscano il peso effettivo del metodo socratico nel trattamento psicoterapeutico cognitivo comportamentale.

Per approfondimenti:

Heiniger, L. E., Clark, G. I., & Egan, S. J. (2018). Perceptions of Socratic and non-Socratic presentation of information in cognitive behaviour therapy. Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 58, 106-113.

Carona, C., Handford, C., & Fonseca, A. (2020). Socratic questioning put into clinical practice. BJPsych Advances, 1-3.

Clark, G. I., & Egan, S. J. (2018). Clarifying the role of the Socratic method in CBT: a survey of expert opinion. International Journal of Cognitive Therapy, 11(2), 184-199.

Vittorio, L. N., Braun, J. D., Cheavens, J. S., & Strunk, D. R. (2021). Cognitive Bias and Medication Use Moderate the Relation of Socratic Questioning and Symptom Change in Cognitive Behavioral Therapy of Depression. Cognitive Therapy and Research, 1-11.

Foto di SHVETS production da Pexels

“Non voglio mettere la maglietta blu!”

di Giada Di Biase

Il trattamento cognitivo comportamentale applicato all’interpretazione dei capricci e all’approccio alla regolazione emotiva

“Mamma ti ho detto che non voglio mettere la maglietta blu!”
“Ecco, è iniziata la lotta!”

Carlotta, dall’alto dei suoi quattro anni, urla, pesta i piedi, grida a squarciagola e non riesce a trattenere le sue emozioni. Non ha alcuna difficoltà a sostenere le sue idee e le sue richieste, ad affermare il bisogno e la voglia di essere autonoma nelle scelte, mentre la madre, di contro, crede siano solo capricci.
Dove trovare la chiave di lettura per comprendere cosa sta accadendo, i perché di questi capricci e di queste crisi?
Il pianto, le urla e l’opposizione appaiono come manifestazioni di rabbia, esternazioni di emozioni negative e frustrazioni alle quali l’adulto non sa attribuire un significato e, per tale motivo, vengono spesso percepiti come una modalità volontaria per essere provocati, testati e messi in difficoltà.

A livello più profondo, i capricci sembrano essere il sintomo di una mancata soddisfazione rispetto a un bisogno emotivo. Dietro a ogni capriccio, quindi, si possono leggere una serie di messaggi che i bambini provano a inviare attraverso canali comunicativi conosciuti e utilizzati a seconda dell’età di sviluppo. L’adulto è chiamato a dar loro un significato, individuando la necessità emotiva che può essere orientata in modo funzionale.

Le neuroscienze hanno consentito, negli ultimi anni, una conoscenza approfondita dei meccanismi di funzionamento del cervello dei bambini, illustrando le cause principali di specifici comportamenti attuati e, contestualmente, munendo gli adulti di un “kit di sopravvivenza” che offra loro la possibilità di comprenderli e relazionarcisi in modo adeguato. Il capriccio, in questo scenario, rappresenterebbe una risposta del cervello del bambino a situazioni ed emozioni particolarmente complesse da governare, dal momento in cui le zone cerebrali deputate a tale gestione non sono ancora pienamente funzionali. Il processo di maturazione cerebrale, nello specifico della corteccia prefrontale ventromediale, implicata in complessi compiti cognitivi come il controllo degli impulsi, l’inibizione delle risposte emotive e l’autoregolazione, inizierà con la formazione delle sinapsi eccitatorie a partire dai cinque anni, terminando il suo sviluppo con la formazione delle sinapsi inibitorie all’inizio dell’età adulta. Per tale motivo, i bambini non presenterebbero un completo sviluppo delle funzioni esecutive (FE), processo supportato dalla maturazione della corteccia pre-frontale.

Precursori di tali funzioni sono osservabili già a partire dal primo anno di vita, con un incremento rapido visibile nel periodo prescolare, che raggiunge alti livelli di performance durante l’adolescenza. Tali abilità mentali agiscono come centro di comando del cervello, permettendo all’individuo di vagliare, pianificare e modificare il proprio comportamento per renderlo adeguato ai cambiamenti del contesto,  per  affrontare situazioni nuove, risolvere i problemi, portare a termine l’esecuzione di un dato compito e regolare le proprie emozioni. Quest’ultima capacità, in particolare, appare essere inversamente proporzionale all’età: ciò significa che dato il processo di sviluppo cerebrale, più si è piccoli e meno si è in grado di controllare e gestire le proprie emozioni. Per questo motivo il bambino non appare in grado di controllare le risposte emozionali e tende a esprimere ciò che prova senza utilizzare nessun genere di filtro.

Nello sviluppo iniziale assume un ruolo di grande rilievo l’attività regolatoria del genitore o del caregiver: in questa prima fase chi si prende cura del bambino interpreta i suoi segnali e favorisce la modulazione delle sue emozioni, in uno scambio diadico regolato dall’attenzione. Nei primi anni, tale processo di regolazione degli stati interni è guidato dall’esterno (etero-regolazione) e, in evoluzione, cederà gradatamente il posto alla capacità di auto-regolazione emotiva, che permetterà al bambino di mettere in atto strategie di coping adatte ai diversi contesti sociali in modo autonomo.

Gestire un capriccio risulta quindi possibile, il segreto è dosare la giusta quantità di alcuni ingredienti fondamentali, cercando di non essere iperprotettivi né troppo assecondanti, aiutando così il bambino ad accogliere, tollerare e gestire la frustrazione: ascoltandolo nei suoi bisogni e seguendolo nei suoi desideri, lasciandogli spazi di azione dove affermare sé stesso muovendosi in modo autonomo, insegnandogli a esternare il vissuto unitamente alle sue emozioni, a ciò che ha provato, favorendo così una elaborazione e un’organizzazione efficace del vissuto.

Legittimare un capriccio e concedere qualcosa solo perché lo si desidera, quindi, potrebbe insegnare, in una visione più ampia e matura, che è possibile concedere a sé stessi qualcosa senza sentirsi in colpa. In tal senso, uno stile educativo autorevole e contestualmente attento ai vissuti del bambino (sensitive parenting), appare associato a maggiori capacità di regolazione degli stati interni e del comportamento. Diversamente, uno stile autoritario e punitivo si associa a minori capacità di regolazione emotiva e comportamentale.

L’acquisizione di modalità efficaci di gestione dei propri stati emotivi si mostra, inoltre, come un importante fattore di protezione rispetto alla manifestazione di problematiche psicologiche. Di contro, la presenza di difficoltà nella regolazione delle emozioni (disregolazione emotiva) nello sviluppo del bambino, si presta, unitamente ad altri fattori, a essere elemento di rischio per la manifestazione di problematiche, come iperattività, condotte oppositive e aggressive.

Studi hanno confermato, in questo ambito, l’efficacia del trattamento cognitivo comportamentale nell’infanzia e nell’adolescenza, grazie alla presenza di innumerevoli strategie finalizzate ad aiutare l’individuo a riconoscere e gestire, in modo funzionale, i propri stati emotivi non graditi e all’utilizzo di interventi psicologici psicoeducativi rivolti ai genitori come il parent training, approccio utile in età evolutiva che permette alla coppia genitoriale di apprendere delle strategie funzionali da applicare nei momenti critici della crescita, con lo scopo di raffinare le loro competenze rispetto al monitoraggio e alla gestione delle emozioni provate dai bambini.

Per approfondimenti

Bagdadi, M. P. (2002). Genitori non si nasce ma si diventa. Come affrontare capricci, manie, enuresi notturna, pedofilia, separazione sessualità adolescenziale. Franco Angeli.

Barkley R.A. (1997). ADHD and the nature of self control. New York, Guilford Press.

Barone L. (2007). Emozioni e sviluppo: percorsi tipici e atipici. Carocci.

Buonanno C., Muratori P., (2020). Modelli di parent training. Quaderni di Psicoterapia  Cognitiva.

Isola, Romano, Mancini (2016). Psicoterapia cognitiva dell’infanzia e dell’adolescenza. Milano, Franco Angeli.

Lenroot, R.K., Giedd, J. N. (2006). Brain development in children and adolescents: insights from anatomical magnetic resonance imaging. Neuroscience and Biobehavioural Reviews.

Pat Harvey, Britt H. Rathbone (2021). Adolescenti con emozioni intense: come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio. Edizione italiana a cura di Laura Rigobello e Giulia Rancati.  Milano, Franco Angeli.

Perdighe Claudia (2015). Il linguaggio del cuore: riconoscere e accettare le emozioni dei propri figli e accompagnarli nella crescita. Trento, Erickson.

Robert L. Leahy, Dennis Tirch, Lisa A. Napolitano. La regolazione delle emozioni in psicoterapia. Guida pratica per il professionista. Edizione Italiana a cura di Cesare Maffei. Erikson.

Alla scoperta della gentilezza

di Elena Cirimbilla

Come il comportamento in età evolutiva può influenzare il successivo sviluppo sociale dell’individuo

Nel momento in cui pensiamo alla gentilezza, nelle nostre menti compaiono immagini legate a concetti come compassione, empatia, generosità o altruismo. Tali concetti appartengono al “comportamento prosociale”, inteso come l’agire in modo gentile, cooperativo e compassionevole, in una costellazione di atti volontari orientati al beneficio altrui.

L’età evolutiva, grazie alla scoperta e interazione continua con il prossimo, si configura come uno dei periodi critici che influenzano il successivo sviluppo sociale dell’individuo.

Durante l’infanzia e l’adolescenza, la progressiva capacità del soggetto di assumere la prospettiva dell’altro consente la decodifica delle emozioni e la comprensione degli stati mentali del prossimo e contribuisce allo sviluppo dei comportamenti prosociali.

Numerosi studi si sono occupati di indagare questo tipo di comportamento nei giovani e, in particolare, le successive ripercussioni sullo sviluppo sociale.

In un recente studio, un campione di giovani è stato suddiviso in quattro gruppi, da bassa ad alta prosocialità. I quattro profili sono stati suddivisi in base al livello di comportamento prosociale mostrato dai giovani, misurato con item come: “Il bambino sembra preoccupato quando gli altri bambini sono in difficoltà”, “Il bambino è gentile verso i pari” o ancora “Il bambino offre aiuto o conforto quando gli altri bambini sono turbati”.
Due anni dopo è stata esaminata l’associazione tra i profili sociali individuati e le relazioni tra pari nella prima adolescenza, partendo dall’idea che elevati livelli  di comportamento prosociale potessero essere legati a relazioni interpersonali più positive negli anni a seguire. Le variabili misurate in adolescenza riguardavano, in particolare: l’aggressività, l’esclusione sociale, il bullismo e la vittimizzazione.

Coerentemente con l’ipotesi e le precedenti ricerche, gli autori hanno evidenziato come il comportamento prosociale sia un predittore critico delle successive relazioni tra pari.

I risultati hanno infatti mostrato che il gruppo caratterizzato da bassa prosocialità era significativamente più a rischio di mostrare aggressività e bullismo e di sperimentare vittimizzazione ed esclusione sociale rispetto ai giovani di tutti gli altri profili sociali. Al contrario, i ragazzi altamente prosociali hanno riportato bassi punteggi in tutte le aree problematiche.

In altre parole, i ragazzi che avevano ottenuto bassi punteggi sugli indicatori dei comportamenti prosociali avevano rapporti tra pari più problematici nella prima adolescenza, all’opposto di quelli con elevata prosocialità.

I risultati della ricerca favoriscono una riflessione sull’importanza di attuare comportamenti a beneficio del prossimo, in una chiave altruistica e orientata all’altro. In più, gli studi evidenziano che essere gentili o, in generale, compiere atti prosociali aumenta il benessere. In linea con la letteratura, i dati di una ricerca in pubblicazione di un gruppo di psicologi e psicoterapeuti della Scuola di Psicologia Cognitiva di Roma (SPC), coordinato dalla dott.ssa Claudia Perdighe, mostrano una correlazione positiva tra felicità, moralità e gratitudine.

In quest’ottica, condividere la merenda, mandare un messaggio carino a un amico, aiutare il compagno in un compito o ascoltarlo quando si sente triste, possono configurarsi come piccoli, ma fondamentali, gesti quotidiani.

Accompagnare i bambini e ragazzi nella ricerca e nella scoperta della gentilezza può sembrare difficile o impegnativo ma, come ogni cosa nuova, è possibile allenarsi. Ad esempio, insieme a nostro figlio, fermiamoci di tanto in tanto e soffermiamoci sul ricordo di un momento in cui si è stati disponibili o gentili con qualcun altro, in cui è stato offerto il proprio aiuto o un abbraccio e, se è vero che la gentilezza è contagiosa, proviamo anche a notare i momenti in cui gli altri lo sono con noi.

Per approfondimenti:

Hui B.P.H, Ng J.C.K., Berzaghi E., Cunningham-Amos L.A., Kogan A. (2020). Rewards of kindness? A meta-analysis of the link between prosociality and well-being. Psychological Bulletin doi: dx.doi.org/10.1037/bul0000298

Iannucci A., Albanese A., Cascone R., Cirimbilla E., Maravolo R., Mignogna C., Mignogna V., Napoli E., Patriciello M., Pelosi G., Rosini P., Villirillo C., Giacomantonio M., Perdighe C., (2017) “Standard morali: ostacolo od opportunità per la felicità?”. In pubblicazione

Ma T.L., Zarrett N., Simpkins S., Vandell D.L., Jiang S. (2020). Brief report: Patterns of prosocial behaviors in middle childhood predicting peer relations during early adolescence. Journal of Adolescence, 78:1-8. doi: 10.1016/j.adolescence.2019.11.004

Foto di Alexander Suhorucov da Pexels

Mamma controlla, papà aspetta

di Barbara Basile

Riconoscere e affrontare le dinamiche genitoriali

La madre è comunemente la principale figura di accudimento del bambino, soprattutto nei suoi primi anni di vita. Di conseguenza, la madre è la figura che trascorre più tempo con il bambino e che lo conosce meglio. Sa riconoscere il significato del suo pianto, ne identifica i bisogni e corrisponde le sue esigenze.

La mamma, vicina e presente, rischia così di diventare il “guardiano” di tutto ciò che riguarda il bambino, incluso l’avvicinarsi degli altri. Questo controllo, in parte naturale e in parte giustificato dalle esigenze ambientali, può portare sia al burnout della mamma – dopotutto, se guardi sempre tuo figlio, anche quando è il turno di qualcun altro che si prende cura di lui, ti sentirai presto esausto e esaurito – sia a un crescente conflitto tra i due genitori.

Accanto alle “mamma guardiana” (dall’inglese maternal gatekeeping), infatti, si delinea il “papà che aspetta”. Il papà in attesa del riconoscimento del proprio ruolo di padre e della possibilità di poterlo espletare. Quando il padre rientra a casa e cerca di inserirsi nel nucleo familiare non sempre trova lo spazio o il tempo per esplorare e conoscere i bisogni del piccolo. La mamma è sempre lì, pronta a fornire indicazioni, ad anticipare e spiegare cosa fare e come farlo al meglio, criticando o sbuffando alla prima cosa che non va come secondo lei dovrebbe andare, dalla temperatura del latte del biberon, al giusto abbinamento degli abitini indossati, all’elargizione di premi e punizioni: con diritto o meno, la madre è pronta a giudicare o inibire gli interventi del padre. A questa immagine si associano frasi come “quando saprà parlare…”, “quando lo capirà”, “quando saprà camminare…”. Quando, quando, quando. I vantaggi e i traguardi di cui potrà godere il padre vengono sempre posticipati al futuro, dilatando di anno in anno la possibilità di creare un legame con il figlio e correndo il rischio di non vederli mai arrivare.

Le ragioni per cui una madre si impegna nel gatekeeping variano. Le madri potrebbero avere difficoltà a rinunciare alla responsabilità della cura della prole, potrebbero voler convalidare il loro ruolo ed essere riconosciute per i sacrifici che fanno per le loro famiglie oppure potrebbero considerare il padre come incapace o addirittura un pericolo per i figli. Quest’ultimo punto di vista potrebbe essere basato su prove reali, sui comportamenti passati del padre o sui suoi fallimenti come uomo e padre.
La dinamica della “mamma guardiana” e del “papà che aspetta” si mantiene nel tempo, lasciando spazio a una madre che gira come una trottola attorno ai bisogni e alle necessità dei figli e a un padre assente. Questa dinamica, reiterata, può provocare conflitti e può accrescere la distanza tra i partner, logorandone il legame.

Se come genitori vi riconoscete in questa dinamica non cercatene la causa o l’origine. Per uscirne  non serve trovare il colpevole o individuare chi ha iniziato! Per lui il punto d’inizio potrebbe essere stato: “non mi lasciavi mai prendere in braccio il bambino”, mentre per lei forse era: “non mostravi alcun interesse per lui, non mi hai mai chiesto di poterlo cambiare”.  Seguire questa linea rischia di dare avvio a ulteriori discussioni interminabili, senza realmente offrire una soluzione. Il punto è che entrambi avete bisogno l’uno dell’altro nel percorso di genitorialità e della vostra coppia. Provate ad allontanarvi dal contenuto delle discussioni e spostatevi, invece, sui vostri bisogni. Come donna forse avresti bisogno di avere un partner che si mostri più coinvolto nella cura dei bambini e nella loro gestione quotidiana? E come uomo, invece, forse vorresti che la tua compagna ti consentisse di fare il papà? Provate ad essere più dolci l’uno per l’altro.

Prendiamo un esempio classico: il caricare la lavastoviglie. È il tipico stereotipo che fa sorridere, ma che divide le famiglie da quando hanno inventato la lavapiatti! Ciascuno vuole farla a proprio modo. Capita che quando un partner inserisce le stoviglie a modo suo, l’altro intervenga criticando o imponendo il proprio, più corretto. Come affrontare in modo più sereno questo  gesto di vita di coppia quotidiana?

La prima cosa da fare è prendere le distanze:

  • qual è lo scopo del caricare la lavastoviglie?  Che piatti, posate e bicchieri vengano puliti.
  • è possibile che questo avvenga in diversi modi? Certamente!
  • E ora… Qual è lo scopo dell’educare i figli? Che crescano e diventino adulti e che sappiano perseguire i valori e rispettare le regole che voi trovate importanti nella vita
  • È possibile che questo avvenga in modi diversi? Certamente!

Questo significa che dobbiamo lasciar andare tutto e far fare agli altri quello che gli pare? Oppure, che la lavastoviglie debba girare anche con un piatto e una postata, senza dire nulla in merito se non siamo d’accordo? Certamente no.

Significa, piuttosto, non alimentare una discussione infinita, cercando, invece, di restare nella relazione senza cadere in un circolo di accuse. In un attimo ci si trova a dire “ma cosa stai facendo ora?! Lasci partire la lavastoviglie senza niente dentro?”. Se l’altro partner ha avviato la lavastoviglie con cinque pezzi, forse aveva un buon motivo per farlo? Forse i piatti erano rimasti sporchi e oleosi oppure preferiva giocare con i bambini, invece di sprecare il proprio tempo lavando piatti e, magari, desiderava farti un piacere facendoti trovare tutto pulito al rientro a casa?

I bambini hanno bisogno che i padri abbiano il loro ruolo. I modi diversi di prendersi cura e di gestire le incombenze domestiche rappresentano un arricchimento peri bambini, senza dimenticare che pensare che ci sia una differenza nei modi di assolvere certi ruoli o compiti non implica necessariamente che questa differenza realmente esista!

Per approfondimenti
Nina Mouton (2020). Mild Ouderschap. Zelfs tijdens de woedeaanval in de supermarkt

Foto di Katie E da Pexels

Che cos’è la felicità

di Carlo Buonanno

Topolino, Faust e la promozione di emozioni positive in età evolutiva

Se vi chiedessero di scegliere tra l’elisir di lunga vita e la felicità, cosa scegliereste? Io avrei scelto Mickey Mouse. Topolino non è un bambino, non è sposato e non ha nemmeno uno zio ricco. Pippo, fedele e stralunato come Pluto, è l’amico che, maldestro, gli guarda le spalle. Topolino è un adolescente e non sarà mai nonno, è integerrimo, ha l’anima del detective delle cause impossibili e aiuta il commissario Basettoni a incastrare Gamba di Legno o Macchia Nera.
Topolino è felice, ma ha lo sguardo offuscato e lotta con i demoni per una somma virtù. Ma che cos’è che lo rende così sorridente? È davvero felice? Ed è possibile diffondere la felicità come un contagio benefico?
Recentemente è stata pubblicata una ricerca condotta su un campione di adolescenti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA), che nel titolo promette di rispondere in parte alla domanda. Lo studio è stato realizzato da Caterina Villirillo, Claudia Perdighe, Elena Cirimbilla e Gilda Franceschini, psicologhe e psicoterapeute della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma. Si tratta di uno studio pilota che ha l’obiettivo di valutare l’efficacia di un protocollo sperimentale di promozione del benessere, che mira a migliorare la qualità e la quantità delle relazioni interpersonali negli adolescenti con DSA. Il protocollo è nato da una duplice riflessione. Le relazioni interpersonali soddisfacenti, in particolar modo con i pari, hanno un ruolo critico per la felicità in età evolutiva e, dunque, anche nei ragazzi con DSA; nell’80% dei casi, i ragazzi con DSA manifestano problematiche di tipo relazionale, laddove la presenza di un buon supporto sociale è un fattore di protezione per la salute mentale. Ma di quale felicità si parla? La felicità intesa come “eudemonia”, vale a dire connessa a una valutazione globale di sé come persona virtuosa e che vive in linea con i propri valori morali. Proprio come Topolino.
Anche Faust, insidiato da Mefistofele e guardato da Dio con ammirazione per lo stesso motivo, supera i limiti della conoscenza, conducendo una vita dedita allo studio e alla virtù. Questa è una felicità che ha uno scopo, motore della condotta individuale e fondamento della morale. Non una felicità effimera, infantile, che si consuma rapidamente nell’attimo in cui si scioglie in bocca il sapore di una caramella, ma una felicità pratica e impegnata. In questi termini, la felicità coincide con uno stato di benessere e soddisfazione che si esprime sia nella presenza di emozioni positive sia, soprattutto, nel buon funzionamento psicologico, inteso come capacità di mettere in atto quotidianamente comportamenti che favoriscono il benessere e riflettono i propri valori. Contro ogni pregiudizio, questo tipo di felicità sembra essere tipico degli adolescenti, mentre nei bambini la felicità è edonica, legata agli aspetti concreti del piacere quali il gioco, le attività di gruppo, il numero di amicizie, le frequenze delle visite agli amici. E a proposito di praticità, gli ingredienti che in età evolutiva correlano con la felicità si dispongono lungo una gerarchia concreta che vede all’apice le relazioni interpersonali con i coetanei e poi l’autonomia, la competenza, avere una buona autostima, avere un sistema di valori da perseguire, avere un locus of control interno. Il protocollo sviluppato dalle autrici è stato realizzato assemblando tecniche di tipo cognitivo-comportamentale standard con procedure mutuate dall’Acceptance and Commitment Therapy. Il protocollo si sviluppa in dieci sedute a cadenza settimanale, più due di follow-up a cadenza quindicinale e si divide in tre fasi:

  • La prima fase, “Conosco me stesso e i miei valori”, è dedicata alla promozione della consapevolezza dei punti di forza e di debolezza del soggetto e alla condivisione di obiettivi da raggiungere in riferimento ai propri valori.
  • La fase centrale, “Mi impegno a perseguire i miei valori e i miei obiettivi”, è focalizzata sull’individuazione di micro-obiettivi da raggiungere settimanalmente, allo scopo di realizzare gli obiettivi stabiliti nella fase precedente. In questa fase, una parte importante è dedicata sia alla ristrutturazione di eventuali credenze disfunzionali, sia all’acquisizione di abilità assertive.
  • La fase conclusiva, “Io più abile socialmente e consapevole delle mie risorse”, consiste nella valutazione degli obiettivi raggiunti e nella generalizzazione delle competenze apprese.

Dall’analisi qualitativa dei dati pre e post-trattamento emerge una significativa riduzione dei sintomi di ansia e depressione rilevati nella fase di pretrattamento, un aumento dell’autostima e dell’autoefficacia e un aumento della qualità e della quantità dei rapporti interpersonali. Inoltre, dai risultati è emerso un miglioramento significativo nel rendimento scolastico. Le abilità acquisite sono confermate anche al follow-up di un mese. In definitiva, pare che l’adolescenza sia la vera età della ragione e la felicità è roba terribilmente impegnata. Tra un’indagine di Topolino e la dura ricerca di Faust, oltre i limiti della conoscenza.

Per approfondimenti

Villirillo, C., Perdighe, C., Cirimbilla, E., & Franceschini, G. (2021). Promuovere la felicità: uno studio pilota con un campione di ragazzi con Disturbo Specifico di Apprendimento. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, Italian Journal of Cognitive and Behavioural Psychotherapy, 27(1) pp 17-44.

Malattie intestinali e disagio psicologico

di Sonia Di Munno

Quali sono le cause che possono portare ad ansia e depressione e i trattamenti più efficaci

Le malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) sono tutte quelle patologie infiammatorie croniche e recidivanti dell’intestino: le più comuni sono il morbo di Chron e la colite ulcerosa. Attualmente hanno origine sconosciuta e risultano dovute a un’interazione tra fattori ambientali, genetici e di microbica intestinale. Sono malattie con alti tassi di recidive o ricadute e lo stress psicologico è un fattore importante che contribuisce alla manifestazione frequente. Chi ne soffre sviluppa sintomi e patologie di ansia e depressione: in una revisione sistematica del 2016 si è visto che il 21% dei pazienti soffriva di una patologia ansiosa conclamata mentre il 35% presentava sintomi ansiosi subclinici; il 15% soffriva di depressione e il 22% dei pazienti riportava sintomi depressivi. Viste le alte percentuali di disagio psicologico, uno studio dello psichiatra statunitense Douglas A. Drossman ha cercato di indagare le macroaree che creano ansia e depressione in questi pazienti, per poter poi intervenire in maniera diretta ed efficace. Ne ha individuate quattro: impatto della malattia, preoccupazioni sul trattamento, intimità, stigma.

Per impatto della malattia si intende il cambiamento che la malattia porta a chi ne soffre. Nel caso specifico delle MICI, un cambiamento importante è nello stile alimentare come scelta del cibo con eliminazione completa di alcune pietanze. Inoltre, seguire a lungo termine dei regimi dietetici ristretti può portare ad atteggiamenti disadattivi, provocando ansia nei confronti del cibo e nel consumare il cibo in contesti conviviali. Alcuni incorrono in un’alimentazione disordinata o in comportamenti alimentari disfunzionali, come abbuffate, restrizioni e digiuno. Oltre ai problemi alimentari, nei pazienti con MICI è stata riscontrata un’alta soglia di stanchezza – diventata clinicamente significativa – presente nel 86% nei pazienti con patologia attiva e nel 22-41% con malattie quiescenti. Questo affaticamento è dovuto sia alla malattia che al disagio psicologico che questa comporta. Spesso i pazienti sviluppano anche insonnia e in alcuni casi possono sviluppare un disturbo postraumatico in cui l’evento traumatico è la diagnosi della malattia di fronte alla quale ci si può sentire spaventati e impotenti. Per lo sviluppo del disturbo da stress post-traumantico vi sono alcuni fattori di rischio predisponenti come: essere di sesso femminile, appartenere a un basso status socio-economico, essere affetti da una malattia più grave, avvertire dolore incontrollato, avere una giovane età al momento della diagnosi, aver subìto un intervento chirurgico, percepire in maniera molto intensa i sintomi e aver avuto almeno una recidiva della malattia.

Anche l’aspetto dell’intimità è di grande importanza nelle MICI: ben 2/3 dei pazienti riferiscono di avere problemi relativi all’immagine corporea e problemi sessuali. L’interesse sessuale ha un sostanziale decremento in molti pazienti, che può essere dovuto sia alla depressione ma anche al dolore che alcune donne riferiscono di avere durante il rapporto (25%) che non è associato al tipo di malattia o all’attività, all’uso di steroidi o alla presenza di malattia perianale ma può essere correlato alla disfunzione del pavimento pelvico.
L’aspetto della maternità risulta essere un tasto dolente per molte donne: il 18-22% riferisce di non voler avere figli per paura di trasmettere la malattia e la paura di portare avanti la gravidanza assumendo dei farmaci. Un altro macro aspetto per cui i pazienti sviluppano ansia e depressione è lo stigma che percepiscono dagli altri e la vergogna che possono provare di fronte a questa malattia che può portare a un maggiore isolamento e ritiro sociale, aumentando così ansia e depressione.

Di fronte a queste malattie croniche e recidive, lo sviluppo di un disagio psicologico è molto frequente e bisogna intervenire tempestivamente ed efficacemente per non incorrere in un sostanziale peggioramento della qualità delle vita. Attualmente le terapie più efficaci sono: la terapia cognitivo comportamentale, la mindfulness e l’ipnosi medica. La terapia cognitivo comportamentale attenua i sintomi psicologici che queste malattie comportano, poiché ai pazienti viene insegnato a comprendere la relazione tra situazioni, pensieri, comportamenti, reazioni fisiche ed emozioni. I pazienti imparano a cambiare pensieri (attraverso la ristrutturazione cognitiva), comportamenti (attraverso cambiamenti programmati o prescritti nell’attività o nelle risposte) e livelli di eccitazione fisiologica (attraverso esercizi di rilassamento) al fine di ridurre il disagio emotivo. Nelle MICI, la CBT non ha dimostrato di alterare gli esiti della malattia, ma è risultata efficace nel migliorare la qualità della vita, le capacità di coping (adattamento efficace di fronte alla difficoltà), l’aderenza medica nonché nel diminuire i sintomi di ansia o depressione.

Per approfondimenti

Yue Sun, Lu Li, Runxiang Xie, Bangmao Wang, Kui Jiang and Hailong Cao (2019), Stress Triggers Flare of Inflammatory Bowel Disease in Children and Adults, Department of Gastroenterology and Hepatology, General Hospital, Tianjin Medical University, Tianjin, China, published: 24 October 2019 doi: 10.3389/fped.2019.00432

Tiffany H. Taft, Sarah Ballou, Alyse Bedell and Devin Lincenberg (2017), Psychological Considerations and Interventions in Inflammatory Bowel Disease Patient Care; Gastroenterol Clin North Am. 2017 December ; 46(4): 847–858. doi:10.1016/j.gtc.2017.08.007

Whitney Duff, Natasha Haskey, Gillian Potter, Jane Alcorn, Paulette Hunter, Sharyle Fowler (2018); Non-pharmacological therapies for inflammatory bowel disease: Recommendations for self-care and physician guidance; World J Gastroenterol 2018 July 28; 24(28): 3055-3070

Foto di Sora Shimazaki da Pexels