Un robot per psicologo

di Giuseppe Grossi

I big data: una risorsa per la scienza o la scienza del futuro?

Si sente sempre più spesso parlare di Big Data, indicando l’enorme quantità di dati oggi disponibili e generati dai telefoni, dalle carte di credito, dai sensori montati sugli edifici, dai mezzi di trasporto pubblici e così via. Tale termine si riferisce alla capacità di usare queste informazioni per elaborare, analizzare e trovare riscontri oggettivi su diverse tematiche, a partire da alcuni algoritmi. Ciò fa sì che i Big Data siano utili nei mercati business più disparati, dall’automobile alla medicina, dal commercio all’astronomia, dalla biologia alla chimica farmaceutica, e non solo.
Pensiamo a tutti i dati provenienti dalla navigazione di un utente, dai suoi acquisti, dai prodotti ricercati: questi permettono ai colossi del commercio di suggerire i prodotti più adatti agli scopi del cliente, quelli che solleticano la sua curiosità e lo spingono a comprare per un bisogno momentaneo, permanente o semplice impulso. Appartenenti ai Big Data sono gli algoritmi che riescono a identificare una shopper donna incinta, tracciando le sue ricerche sul web e gli oggetti acquisiti in precedenza. Una volta individuato il particolare stato, a quella stessa utente si propongono offerte speciali su prodotti inerenti al proprio stato.
A questo punto, sembra plausibile pensare che il comportamento umano sia spiegabile e prevedibile a partire dall’analisi dei dati che sono e saranno sempre più disponibili e nelle mani di chi avrà tali strumenti.
Ma che effetto avrà tutto ciò sulla società, sul comportamento umano e sulla scienza che se ne occupano? Stiamo assistendo a una rivoluzione anche delle scienze sociali e comportamentali e non solo economiche?
Queste ormai le domande di molti che vedono ancora una vola in Asimov un profeta e nel suo Multivac il super computer in grado di governare la Terra e di collegare praticamente tutto, l’inizio di una nuova scienza ricca di dati ma forse priva di teorie.
Per rispondere, proviamo per un attimo a immaginare lo psicologo del nuovo millennio tralasciando tutto ciò che riguarda la relazione terapeutica e molto altro e focalizzando l’attenzione solo sulla sua efficacia, sulla capacità di immagazzinare informazioni provenienti dalle domande e dai comportamenti manifesti del paziente. Immaginiamo il nostro psico-robot in azione mentre elabora, attraverso algoritmi sofisticati, l’enorme mole di dati, individuando il particolare stato del paziente, selezionando i suoi scopi e suggerendogli una serie di comportamenti finalizzati a raggiungerli.
Siamo sicuri che tutto questo sia sufficiente per una scienza sociale che si occupa dell’uomo e dei suoi comportamenti? Siamo sicuri che sia in grado di predire, grazie alla sua natura descrittiva, anche senza spiegare? Può una scienza cosi fatta discriminare se questo o quello scopo rappresenta un reale e soggettivo bisogno di quell’individuo o una semplice risposta condizionata ad un dato stimolo, senza definire alcun perché?

Immaginiamo che il nostro psico-robot, ascoltando le generalità di quel paziente riesca a raccogliere una serie di informazioni relative ai siti web visitati, alle parole chiave usate per la ricerca, agli ultimi acquisti effettuati etc.; e che tutto ciò attraverso l’utilizzo di specifici algoritmi permetta di definire il suo attuale stato, dandoci una panoramica della sua vita, delle sue abitudini. Immaginiamo che il nostro paziente abbia acquistato ansiolitici negli ultimi sei mesi; abbia fatto una serie di viste mediche in centri clinici famosi, ripetendo spesso le stesse visite. Immaginiamo che abbia utilizzato parole chiave come ansia, panico, paura di morire, infarto, tachicardia e che abbia ordinato spesso pizza a domicilio e si sia assentato dal lavoro. Immaginiamo che tutte queste informazioni con tante altre a disposizione spingano il nostro paziente a rientrare in un gruppo di persone che come scopo avrà quello di sopravvivere e di eludere la minaccia che stia accadendo qualcosa di male, di catastrofico, tipo avere un infarto.

Quale sarebbe secondo voi il comportamento che il nostro psico-robt consiglierebbe al nostro paziente? Siamo sicuri che consiglierebbe la cosa giusta da fare a quel paziente, considerando la sua soggettività? Come potrebbe consigliare la cosa giusta senza avere i riferimenti teorici e conoscere i modelli dei meccanismi sottostanti a tali comportamenti, indispensabili non solo per spiegare un fenomeno ma anche per definire ciò che accade in lui e cosa può essere più giusto e adeguato?

Il nostro psico-robot avrebbe tante informazioni utili scuramente per predire un comportamento e proporre un prodotto a questa categoria di persone: la miglior pizza a domicilio, una visita medica, una casa al piano terra e senza ascensori, vacanze in posti non lontani da casa e da ospedali; tante informazioni che potrebbero essere utili anche a predire un comportamento sociale di un individuo ma non a modificarlo, perché come ricorda Castelfranchi: “Come si può pensare di cambiare il comportamento delle masse senza cambiare il comportamento degli individui? Come è possibile cambiare il comportamento dell’individuo senza cambiare le idee? Solo conoscendo e rappresentando i meccanismi e le dinamiche nascoste, sottostanti, i micro livelli responsabili degli effetti macro, è possibile intervenire appropriatamente”.