Quella tendenza delle persone a utilizzare procedure rapide e intuitive ma anche più fallaci rispetto a processi cognitivi più sofisticati e analitici
Quando ci si domanda perché l’uomo crede in Dio, il punto di vista dal quale viene posta la domanda è cruciale: fa una bella differenza se a chiederlo è, ad esempio, un uomo di fede, un filosofo morale o uno scienziato cognitivo.
La risposta che le persone credono in Dio semplicemente perché Dio esiste e l’uomo è fatto a sua immagine, per la psicologia cognitiva, non consente di fare grandi passi in avanti. D’altro canto, anche la risposta finora più accreditata in ambito scientifico – ossia che la fede svolge una funzione di controllo sociale, che sentirsi osservati dallo sguardo di un Dio incentiva una serie di comportamenti morali e prosociali e costituisce un vantaggio per il gruppo sociale e, in definitiva, per la specie – non sembra pienamente soddisfacente per chi studia la mente.
Negli ultimi vent’anni alcuni ricercatori, tra cui anche un gruppo di psicologi cognitivi e neuroscienziati Italiani, hanno messo in dubbio l’ipotesi che la religiosità sia il frutto di un adattamento darwiniano specifico, vale dire: essere religiosi non sarebbe una caratteristica che offre un vantaggio evoluzionistico a chi la possiede, come ad esempio avere il pollice opponibile, piuttosto si tratterebbe di un effetto collaterale derivante da alcuni processi cognitivi semplificati e intuitivi, questi sì utili per la sopravvivenza della specie. I Leggi tutto “Nati per credere: religiosità e evoluzionismo”