Stigma e conoscenza

di Giuseppe Femia

È giusto comunicare al paziente il proprio disturbo? E come farlo?

Nel libro “Diagnosi e destino”, Vittorio Lingiardi cattura la mente del clinico, trasferisce e aggrega concetti e teorie da Foucault a Basaglia, traccia una linea di conoscenza ricca e saggia. Passando per percorsi storici relativi al concetto di malattia mentale, lascia un bagaglio operativo per chi lavora a confronto con la psiche, con i suoi trabocchetti, con le sue trappole, con le sue categorie.
Sin da subito si presenta la volontà di evidenziare un pensiero clinico che sia flessibile, lontano da inquadramenti diagnostici asfittici e da nosografie sterili: “il rovinoso cartellino”.

Il focus è centrato sui processi, i significati e le dinamiche che si muovono attorno o in relazione al tema della diagnosi: è un diritto conoscere il nome della propria sofferenza?
È giusto comunicare al paziente il proprio disturbo? E come farlo?
Soprattutto: come fare a non attivare processi di giudizio e discriminazione in relazione alla sofferenza psichica? Quanto il clinico influisce nei processi di definizione delle problematiche psicologiche in termini di diagnosi? Come utilizzare le coordinate comuni e i manuali diagnostici senza cedere a ragionamenti clinici aridi?

In questo testo vengono sollevate riflessioni riguardo l’impatto della “diagnosi” nella vita di ciascuno: “dal morbillo alla depressione, tutti, prima o poi, riceviamo una diagnosi. Che è timore, conoscenza e relazione”.
Sono affrontati concetti che si muovono attorno alla pratica clinica, alle categorie psichiatriche e soprattutto al rischio che esse creino disagio, qualora utilizzate in un modo rigido e trascurante la soggettività di ciascun individuo. “Se isoliamo l’etichetta diagnostica dalle finalità e potenzialità che essa implica, – si legge nel testo – rischiamo di fare come lo sciocco che, quando il saggio gli indica la luna, guarda il dito”.

Si sollevano riflessioni rispetto all’ipocondria nelle sue diverse forme, dalla “diagnosifilia” alla “diagnosifobia”. Vengono descritte le tre forme di Narcisismo, quella “maligna”, quella “vulnerabile” e quella di alto funzionamento (“l’esibizionista-competitivo”), sottolineando l’importanza di ragionare in termini dimensionali.

Si parla del dilemma del clinico che deve operare un processo di integrazione fra la categoria e l’unicità di ciascuno.
La diagnosi è dunque un processo “tormentato” che richiede impegno e soprattutto empatia da parte di chi la opera. I contenuti trattati sono tanti, ma di maggiore rilievo sembra per l’appunto essere la necessità, più volte ribadita, di generare una diagnosi che non sia sganciata dall’individuo e dal suo mondo di valori, ma contrariamente, operativa e non stigmatizzante.

Nell’ultima sezione del libro, “Diagnosi e psiche”, viene infatti espressa in modo chiaro la necessità di operare diagnosi dimensionali che siano esplicative del funzionamento psicologico alla base della sofferenza e che possano favorire la conoscenza in generale, il trattamento in modo strategico e la ricerca empirica nello specifico.
Si evidenzia la giusta relazione, fondamentale, fra processo psicodiagnostico e formulazione del caso.
Nel testo si ricorre a un linguaggio metaforico. Ad esempio, per spiegare la responsabilità del clinico durante il procedere diagnostico, sia riguardo l’impiego degli strumenti di indagine sia circa la prudenza richiesta durante i processi decisionali e differenziali, viene utilizzata la seguente formulazione:

“[…] se ho un martello e lo uso per piantare un chiodo lo sto usando bene; se lo do in testa a qualcuno lo sto usando male. E se ho una forchetta, non mi servirà per raccogliere il brodo: mentre si raffredda dovrò riflettere sul fatto che ho scelto la posata sbagliata. Non prendiamocela con le diagnosi  e i loro strumenti, ma con chi li usa nel modo e nel momento sbagliato”.

Il libro di Lingiardi si conclude ricordando quanto sia importante valutare gli aspetti di risorsa e adattamento della persona esaminata, i punti di forza, con lo scopo di direzionare la valutazione psicodiagnostica verso l’avvio di un percorso di trattamento che sia idoneo e strategicamente orientato.

Per approfondimenti

Lingiardi, V. (2018). Diagnosi e destino. Einaudi Editore

Undicesimo comandamento: non stigmatizzare

di Elena Bilotta

Lo stigma nei confronti della malattia mentale è il primo ostacolo alla ricerca di cure

Più del 70% delle persone che soffrono di un disturbo psicologico non riceve alcun trattamento. La richiesta di cure psicologiche e psichiatriche è esposta, a differenza delle cure sanitarie in generale, a una serie di importanti barriere di natura culturale e sociale, che danno luogo a un enorme divario tra prevalenza dei disturbi e prevalenza del trattamento adeguato ricevuto. La stigmatizzazione e la discriminazione delle persone che soffrono di un disturbo mentale sono il principale ostacolo alla richiesta di cure adeguate.

Ma cos’è lo stigma? È un segno distintivo negativo che differenzia un “noi” da un “loro”, si basa su stereotipi e pregiudizi ed è associato a comportamenti discriminatori. Il mondo dei disturbi mentali è sicuramente ricco di stereotipi e pregiudizi. Lo stereotipo dell’individuo con disturbo mentale lo dipinge come imprevedibile e potenzialmente pericoloso, impossibilitato a svolgere alcun tipo di lavoro e a rendersi indipendente, immorale e a volte anche responsabile del proprio problema. Il passo successivo è il pregiudizio, che implica l’essere d’accordo con lo stereotipo, e porta ad adottare misure emotive e valutazioni in linea con esso, come ad esempio avere paura e non fidarsi di chiunque abbia un problema mentale. La discriminazione è il risultato comportamentale del pregiudizio (“Se credo che la persona con disagio mentale sia pericolosa e inaffidabile non la assumerò, non le darò in affitto una casa, non la aiuterò a integrarsi nella comunità”).

In questo ambito così delicato e complesso, le campagne di informazione, atte a favorire la conoscenza delle caratteristiche dei diversi disturbi mentali, della loro diversa gravità e trattabilità, sono le più efficaci nel tentativo di ridurre la stigmatizzazione esistente nel confronti di chi ne soffre. Lo stigma può, però, assumere altre forme. Spesso, infatti, il pregiudizio nei confronti del disturbo mentale viene interiorizzato dalla stessa persona che ne soffre e porta a una diminuzione della propria autostima e un aumento dei sintomi depressivi. Vivere il proprio disagio mentale in solitudine costituisce un ulteriore fattore di rischio per la mancata ricerca di cure e per la cronicizzazione del problema. Per questo motivo sono stati sviluppati dei programmi brevi specifici di psicoeducazione, come ad esempio il Coming Out Proud, che hanno l’obiettivo di sviluppare strategie adattive per parlare del proprio problema. La ricerca ha mostrato che questo tipo di programmi aiuta a diminuire lo stress derivante dalla “auto-stigmatizzazione” del proprio disturbo.

Sarebbe sicuramente auspicabile riuscire a modificare gli stereotipi e i pregiudizi individuali e sociali esistenti sui disturbi mentali. È però sicuramente più efficace agire sui comportamenti discriminatori a essi associati, perché questi incidono sul diritto di manifestare richieste d’aiuto in chi ne ha bisogno per migliorare la propria qualità della vita.

Per approfondimenti:

Corrigan, PW et al. (2015). The impact of mental illness stigma on seeking and participating in mental health care. Psychological Science in the Public Interest, 15, 37-70.

Corrigan, PW et al. (2015). Diminishing self-stigma of mental illness by coming out proud. Psychiatry Research, 229, 148-154.

Henderson, C. et al. (2013). Mental illness stigma, help seeking, and public health programs. American Journal of Public Health, 103, 777-780.