Natura e meccanismi della perdita di motivazione

di Veronica Landeschi
a cura di Cristiano Castelfranchi

“Volere è potere” un famoso detto che trova anche le sue fondamenta nel libro di Lessona del 1869, ispirato all’opera di Smiles, che altro non era che la raccolta dei testi di una serie di conferenze rivolte ad un gruppo di giovani inglesi di umili origini, che l’autore aveva tenuto con il fine di spingerli a migliorare la propria posizione sociale.

Troviamo anche moltissimi corsi di motivazione, proprio per incoraggiare le persone ad un cambiamento; per spronarle a raggiungere i loro obiettivi, a far si che il loro desiderio di arrivare ad una determinata condizione desiderata sia possibile.

C’è da chiedersi: perché se una cosa la bramo, la desidero tanto ho bisogno di incoraggiamento per raggiungerla? Quale è, o quali sono, i punti in cui piano piano perdo la motivazione nel raggiungere il mio obiettivo?

Ecco che nel loro articolo, il Prof. Cristiano Castelfranchi e la Prof.ssa Maria Miceli (istituto di Psicologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma), “Nature and Mechanism of Loss of Motivation” approfondiscono e analizzano i vari atteggiamenti mentali come la frustrazione soggettiva, l’aspettativa negativa, la delusione e lo scoraggiamento per delineare i loro ruoli nella perdita di motivazione. Sono così analizzate le possibili condizioni cognitive necessarie affinché si presenti la perdita di motivazione.

L’essere umano, in quanto agente cognitivo, quando ha uno scopo che si attiva nella sua mente, si delineano tutte le azioni necessarie per raggiungere lo stato desiderato. Per essere motivati a fare qualcosa occorre, quindi, una relazione tra due obiettivi: per arrivare a “Q” devo ottenere “P”. La forza con cui si desidera raggiungere “q” consiste  nella spinta per pianificare e perseguire i vari sottoscopi “p”, ovvero i sottobiettivi per arrivare al macrobiettivo. Per esempio, se mi voglio laureare (Q) prima devo superare gli esami (P).

Molti studi hanno collegato la perdita di motivazione alla paura del fallimento, soprattutto inteso come un obiettivo di evitamento, in cui ci sono ostacoli o difficoltà da affrontare; ci sono molti momenti in cui l’obiettivo da raggiungere rimane quello e rimane fermo, ma i vari sottobiettivi possono subire qualche battuta di arresto.

Che ruolo ha la frustrazione nella perdita di motivazione? Iniziamo con il dire che un obiettivo non raggiunto non è necessariamente frustrato. Ma per identificare la frustrazione con il nostro obiettivo è necessario considerare il peso del tempo nella sua rappresentazione, tassello che può dare origine ad una perdita di motivazione nel continuare a perseguire lo scopo attivo, o come suggerito da Klinger, attraverso la frustrazione possiamo anche indurre una fase detta di “rinvigorimento” in cui gli sforzi vengono maggiorati per il raggiungimento degli obiettivi. Se mi preparo per un esame e mi pianifico un calendario di studio e non mi preparo per tempo, posso decidere di non presentarmi a questa seduta di esami o posso aumentare la mia voglia di prepararmi in fretta e sostenere l’esame.

Le aspettative giocano un ruolo cruciale nella fase decisionale, in quanto riescono ad influenzare l’intenzione. Un obiettivo per essere considerato raggiungibile deve avere un costo di scelta e di perseguimento inferiore rispetto a quello che sarà il beneficio ottenuto al momento del suo raggiungimento. Se c’è un’aspettativa negativa, relativa al raggiungimento dell’obiettivo, ecco che abbiamo la percezione di una realizzabilità incerta: maggiore è l’inconveniente e più probabile è la perdita di motivazione e la relativa caduta di intenzioni sequenziali.

Quando abbiamo un’aspettativa positiva che diventa un’aspettativa negativa abbiamo una delusione. Ecco che ci si riferisce a quel momento del raggiungimento dei nostri obiettivi in cui assistiamo ad un cambiamento dal positivo al negativo, che influenza la perdita di motivazione. La perdita di motivazione potrebbe anche essere un mezzo per evitare o ridurre la sofferenza, che può generare dalla verifica che lo stato delle cose desiderate non è stato raggiunto, e che quindi, non corrispondendo all’aspettative iniziali, hanno meno probabilità di essere realizzate rispetto a quanto inizialmente previsto.

Uno dei motivi della perdita di motivazione è il costo, in termini di risorse e impegno sostenuto per arrivare all’obiettivo: più ho investito nel perseguire lo scopo e maggiore sarà la sofferenza per non averlo raggiunto, dovuta non solo al costo sostenuto ma anche alle conseguenze cui ha portato il mantenerli, considerando anche tutti gli eventuali costi sommersi.

C’è anche lo scoraggiamento, la situazione in cui si perde il “cuore”, si perde il coraggio di gestirlo, il momento in cui una persona, dopo aver immaginato un risultato positivo, arriva allo scoraggiamento per il non riuscire a raggiungere l’obiettivo desiderato.  Con scoraggiamento (i cui ingredienti cognitivi ed emotivi sono delusione ed intenzione) ci riferiamo ad una tipologia di delusione, in cui delle situazioni che prima erano positive si trasformano in negative, per quanto riguarda il proprio potere di realizzare ed arrivare all’intenzione desiderata.

Questi ingredienti che abbiamo descritto, vanno a delineare un mix di situazioni da valutare, di caso in caso, in quanto gli obiettivi principalmente in gioco sono due, il raggiungimento dello scopo o non raggiungerlo e mantenerne un altro, insieme ad altri minori che interagiscono con essi. Le varie interrelazioni che dipendono da questi aspetti possono essere compatibili, ed anche coincidere, ma possono esserci casi in cui ciò non succede.

L’impulso motivazionale si manifesta ogni volta che la persona avverte un bisogno, che rappresenta la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e quella che è la situazione-obiettivo desiderato. È così che si presenta un bisogno, percepito come uno stato di insoddisfazione che spinge la persona a procurarsi i mezzi necessari e adoperarsi per riuscire così a realizzarlo o eventualmente sublimarlo. Per il raggiungimento dell’obiettivo è necessario porre attenzione alle variabili che abbiamo indicato e far fronte alle ipotesi presentate; da non sottovalutare che, in alcuni casi, la perdita motivazionale potrebbe essere funzionale, in quanto le condizioni specifiche per le quali la perdita di motivazione fav il benessere soggettivo potrebbe essere diverso da quelle che favoriscono l’adattamento del soggetto.

Bibliografia

Miceli, M., & Castelfranchi, C. (2000). Nature and Mechanisms of Loss of Motivation. Review of General Psychology4(3), 238–263. https://doi.org/10.1037/1089-2680.4.3.238

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Che tipo di alessitimico sei?

di Daniele Migliorati
curato da Elena Bilotta

Alessitimia, una parola derivata dal greco per indicare la difficoltà nel descrivere e verbalizzare le proprie emozioni. Letteralmente significa “mancanza di parole per le emozioni” e tale costrutto si alterna principalmente in tre dimensioni, ovvero:

  • Difficoltà nell’identificazione delle emozioni
  • Difficoltà nel descrivere le emozioni
  • Stile di pensiero orientato all’esterno

La comunità scientifica si sta tutt’ora chiedendo se l’alessitimia sia in un tratto stabile della personalità oppure costituisca un fenomeno che correla con l’insorgenza dei disturbi mentale. A favore di ciò, esistono dei dati che mostrano come la difficoltà ad descrivere e identificare le emozioni mutino alla variazione dei livelli di stress e depressione. Nonostante questo, studi longitudinali suggeriscono che l’alessitimia sembri essere un tratto abbastanza stabile e quindi un fattore di rischio per le malattie psichiatriche. A tale proposito, si è cercato di capire se esistano dei sottotipi nel profilo alessitimico, in modo da poter avere informazioni maggiori sul tipo di prognosi e sulla predittività psichiatrica di tale costrutto. Diverse evidenze suggeriscono che la difficoltà a identificare le emozioni abbia maggior peso, in quanto correla maggiormente con la gravità dei sintomi psichiatrici. Uno studio recente si è posto come obiettivo quello di confermare l’ipotesi che un sottogruppo di alessitimici con particolare compromissione della dimensione dell’identificazione delle emozioni sia quello portatore di un maggior numero di sintomi e che questi siano più gravi. E’ stato esaminato un campione composto da 2874 partecipanti, che è stato diviso in tre livelli di gravità (basso, moderato e grave) sulla base del risultato della TAS-20, un questionario largamente utilizzato per la valutazione dell’alessitimia che permette di distinguere le tre dimensioni sopra citate. Attraverso una cluster analysis, i ricercatori sono riusciti ad isolare due sottotipi di alessitimia:

  • Gruppo A: punteggi alti nella dimensione descrittivo e pensiero esternalizzato
  • Gruppo B: punteggi alti nella dimensione di identificazione delle emozioni

Tale divisione in sottogruppi mantiene la validità per tutti e tre i livelli di gravità dell’alessitimia.

Due sono i risultati più interessanti di questo studio:

  • I punteggi relativi alla difficoltà nell’identificazione delle emozioni e quelli relativi al pensiero orientato all’esterno sono correlati negativamente, a significare che chi ha uno scoring elevato nella prima, ha punteggi più bassi nella seconda (e viceversa). In generale, i partecipanti con punteggi totali di alessitimia più alti, riferivano una frequenza maggiore di diagnosi pregresse di depressione maggiore e disturbi d’ansia
  • I partecipanti con alessitimia grave appartenenti al gruppo B mostravano maggiori sintomi depressivi e ansiosi rispetto al gruppo A.
  • Le differenze fra sottotipo A e B si mantengono anche nei gruppi a moderata e bassa alessitimia. In più genere, livello di istruzione e status socio-economico non sembrano avere influenza sui risultati appena descritti.

Lo studio mostra come una compromissione maggiore dell’abilità di identificazione delle emozioni sia il fattore maggiormente predittivo della salute psichiatrica. Inoltre, persone con difficoltà nella sfera emotiva potrebbero favorire uno stile cognitivo esternalizzante. Contrariamente, è anche possibile, che partecipanti del gruppo A riferiscano meno frequentemente di avere difficoltà emotive, proprio perché non propensi all’introspezione.

Infine, va fatta anche una considerazione psicometrica sulle sottoscale della TAS-20: anche se la sottoscala di identificazione e descrizione hanno un’ottima validità interna, sembrano essere quelle maggiormente suscettibili ad oscillazioni in congruenza con le variazioni dello stress. Quindi, il fatto di aver riscontrato una correlazione tra gravità, frequenza dei sintomi e difficoltà a descrivere le emozioni, potrebbe dipendere anche dal fatto tale punteggio rispecchi più una situazione momentanea di stress acuto piuttosto che un reale tratto stabile di personalità.

Bibliografia

Kajanoja, J., Scheinin, N. M., Karlsson, L., Karlsson, H., & Karukivi, M. (2017). Illuminating the clinical significance of alexithymia subtypes: A cluster analysis of alexithymic traits and psychiatric symptoms. Journal of Psychosomatic Research, 97, 111-117.

Insonnia e triade oscura: esiste un legame?

di Cinzia Calluso
curato da Elena Bilotta

L’insonnia può essere definita come una persistente difficoltà ad iniziare e/o mantenere il sonno, tale da renderlo insoddisfacente per qualità e/o durata, causando ripercussioni negative nella vita di tutti i giorni (es., stanchezza, irritabilità, ecc.). Si stima che l’insonnia colpisca circa il 30% della popolazione generale e che sia influenzata da una molteplicità di fattori predisponenti e precipitanti, di natura biologica, comportamentale e psicologica. Tra questi è stato suggerito che alcuni tratti di personalità possano agire da fattori predisponenti o di mantenimento, tuttavia, i dati in merito sono ancora scarsi.

Un contributo in questa direzione è offerto dallo studio di Akram e collaboratori (2018), in cui gli autori hanno testato il legame tra l’insonnia ed i tratti di personalità riconducibili alla cosiddetta “triade oscura” (Jonason et al., 2013): machiavellismo, psicopatia e narcisismo. Il machiavellismo si riferisce alla tendenza verso un agire manipolativo, strategico e ingannevole; la psicopatia si caratterizza per la dimensione emotiva superficiale, alta impulsività ed agonismo interpersonale; infine, il narcisismo è associato ad atteggiamenti di superiorità, dominio e marcato egocentrismo. Il legame tra l’insonnia e la triade oscura era già stato suggerito in studi precedenti che mostravano come questi si accompagnino spesso ad un cronotipo prevalentemente notturno (Sabouri et al. 2016).

Gli autori hanno studiato la relazione tra i tratti di personalità della triade oscura e l’insonnia, cercando di valutare anche il possibile contributo di fattori generali quali genere ed età. Per testare le loro ipotesi, gli autori hanno raccolto dati relativi ad una serie di questionari volti a testare la gravità dei sintomi dell’insonnia (Inomnia Severity Index; Bastien et al., 2001) e i tratti di personalità della triade oscura (Short Dark Triad questionnaire; Jones &Paulhus,2014) nella popolazione generale (N = 475).

Gli autori hanno stabilito che il genere maschile e i tratti collegati alla psicopatia predicono i sintomi collegati all’insonnia. I tratti narcisistici, invece, sembrerebbero non essere predittivi dell’insonnia, mentre quelli del machiavellismo avrebbero un effetto solo marginale.

Una possibile interpretazione di questi risultati è da ricercarsi nell’associazione tra insonnia e attività cognitiva a contenuto negativo, ed in particolare alla ruminazione e alla preoccupazione. Questi potrebbero trovare una causa nelle problematiche legate alla regolazione delle emozioni e nel ricorso a strategie di coping disadattive, ripercuotendosi così sulla qualità del sonno, in soggetti con alta psicopatia. Poiché la disregolazione delle emozioni sembrerebbe più marcata in soggetti con tratti psicopatici rispetto al narcisismo e al machiavellismo, questa spiegazione potrebbe rendere ragione delle differenze osservate nei tratti della triade.

Un’ipotesi alternativa è quella secondo cui lo stile sociale manipolativo di questi soggetti tenderebbe a dar luogo ad attività cognitiva – finalizzata ad aggirare, manipolare ed ingannare le persone che potrebbero costituire una minaccia – che raggiunge un picco prima di dormire a causa del minor rischio di essere scoperti e dell’aumentata vigilanza associata a questo momento della giornata (Jonason et al., 2013). Quest’ultima ipotesi tuttavia, non renderebbe ragione delle differenze osservate nei tratti della triade.

Bibliografia:

  • Akram U., Allen S., McCarty K., Gardani M., Tan A., Villarreal D., Bilsborough E., Dooher G., Gibbs G., Hudson J. L., Mills R., Subramaniam V., Akram A. (2018). The relationship between insomnia symptoms and the dark triad personalitytraits. Personality and Individual Differences, 131 (2018), 212-215.
  • Bastien, C. H., Vallières, A., & Morin, C. M. (2001). Validation of the Insomnia SeverityIndex as an outcome measure for insomnia research. Sleep Medicine, 2(4), 297–307.
  • Jonason, P. K., Jones, A., & Lyons, M. (2013). Creatures of the night: Chronotypes and theDark Triad traits. Personality and Individual Differences, 55(5), 538–541.
  • Jones, D. N., &Paulhus, D. L. (2014). Introducing the short dark triad (SD3) a briefmeasure of dark personality traits. Assessment, 21(1), 28–41.
  • Sabouri, S., Gerber, M., Lemola, S., Becker, S. P., Shamsi, M., Shakouri, Z., … Brand, S.(2016). Examining Dark Triad traits in relation to sleep disturbances, anxiety sensitivityand intolerance of uncertainty in young adults. Comprehensive Psychiatry, 68,103–110.

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Si può rinunciare ai propri scopi?

di Irene Tramentozzi e Erika Cellitti
a cura di Cristiano Castelfranchi

L’essere umano è un agente cognitivo che regola il proprio comportamento sulla base di stati mentali interni, influenzati da credenze e scopi. Le credenze sono rappresentazioni mentali del mondo organizzate in una rete cognitiva “a nodi” in cui la conoscenza è suddivisa in due livelli, generalizzata (per classi) e specifica-episodica; le credenze definiscono il “come” perseguire gli scopi, intesi quest’ultimi come rappresentazioni mentali dello “stato voluto” che motivano il comportamento umano e attivano l’azione per il raggiungimento di un obiettivo desiderabile (i cosiddetti goal cibernetici) o per l’evitamento di situazioni temute o sgradite (gli avoidance-goal). Quando uno scopo si attiva, l’agente cognitivo cerca di identificare tutte le azioni necessarie al raggiungimento dello stato desiderato.

Cosa succede quando l’agente cognitivo va incontro ad un fallimento? Lo scopo verrà frustrato e la persona sperimenterà uno stato di sofferenza caratterizzato da vissuti emotivi negativi come tristezza, rabbia e senso di colpa. Non tutti gli scopi hanno però uguale valore, se uno scopo è “strumentale”, cioè caratterizzato da obiettivi concreti e specifici finalizzati al raggiungimento di scopi più  astratti e globali (definiti “terminali”), una volta frustrato potrà essere sostituito attraverso varie modalità, o basandosi sull’equivalenza (uno scopo strumentale sarà quindi “rimpiazzato” da un altro di pari valore), oppure per surrogazione  (in questo caso il soggetto rinuncerà ad una parte o ad un aspetto dello stato desiderato originale), o infine, per compensazione, sostituendo lo scopo strumentale non attuabile con uno che risulti realizzabile (ad esempio se il mio scopo terminale è “essere una persona di successo” e non posso diventare “un bravo calciatore”, ripiegherò su un altro obiettivo come “essere un bravo genitore”).

Ci sono però alcuni casi in cui gli scopi non risultano sostituibili basandosi sulle tre modalità sopra descritte, poiché non applicabili al contesto, oppure quando si parla di scopi terminali, relativi al sé-con-l’altro e coincidenti con il progetto di vita della persona. In questi casi, dopo aver elaborato la frustrazione e le emozioni negative ad esse associate, lo scopo diventa inattivo e immagazzinato nella memoria a lungo termine, ma non per questo dimenticato. È il destino di molto scopi reputati irraggiungibili e irrealizzabili, ai quali le persone smettono di pensare e rinunciano a perseguirli. Tuttavia, ci sono alcuni obiettivi irraggiungibili e insostituibili a cui non si riesce a rinunciare, in quanto rimangono attivi nella propria mente. La persona sembra incapace di accettare lo stato delle cose e percepisce quello scopo come irrevocabile. Quest’ultimo non riuscendo ad essere sostituito, rende meno desiderabili gli altri, che divengono di poco valore e sembrano essere troppo difficili, pesanti e costosi da perseguire. Questa condizione è associata ad un vissuto di tristezza, pensieri depressivi, perdita di interesse, ruminazione e tendenza al pessimismo. Le persone non riescono a spostarsi in altri domini del sé e rimangono ancorate all’obiettivo irraggiungibile.

Ma cosa spinge le persone a continuare ad investire su uno scopo “impossibile”?

Secondo la psicologia dei “sunk cost” (“costi sommersi”) è possibile spiegare questo meccanismo poiché l’aumento del valore dello scopo è direttamente proporzionale all’aumentare dei costi già sostenuti, quindi nonostante il sicuro fallimento, la scelta del decisore sarà influenzata dalla motivazione di base di evitare lo “spreco” dei costi sostenuti sino ad allora. Pertanto, anche se il soggetto rinuncia al perseguimento dello scopo, questo rimarrà attivo mentalmente proprio a causa dell’investimento delle risorse già attuato.

Si individuano in particolare due classi di scopi irrevocabili: gli scopi di autodefinizione, che permettono di mantenere il senso della propria identità, e gli scopi di attaccamento, che permettono altresì di mantenere i legami affettivi.  Gli scopi irrinunciabili e irraggiungibili comportano, per loro natura, dei pesanti costi di “mantenimento” tuttavia, è possibile affermare che svolgano anche una duplice funzione positiva: da una parte, permettono di avere un’immagine sociale stabile, condizione basilare per l’interazione sociale poiché permette al soggetto di essere reputato come affidabile e prevedibile; dall’altra, permettono di avere coerenza dando un significato e uno scopo alla propria vita, così da mantenere l’identità personale.

Ma quando risulta conveniente perseguire in scopi irrevocabili e irraggiungibili? È necessario valutare caso per caso, considerando primo fra tutti la durata della “fissazione”, fondamentale per distinguere una tristezza fisiologica e transitoria, da uno stato depressivo permanente e invalidante. Va ricordato che la tristezza, e più in generale, gli stati emotivi negativi, quando non sono permanenti e protratti nel tempo, svolgono una funziona adattiva poiché evitano scelte pericolose, permettono di riflettere e riorganizzare gli schemi cognitivi e rivalutare la propria gerarchia dei bisogni.

Bibliografia:

“Irrevocable goals” di M.Miceli e C.Castelfranchi; Review of General Psychology 2017, Vol. 21, No. 1, 69–81; http://dx.doi.org/10.1037/gpr0000094

Ansia per la salute e regolazione delle emozioni in età evolutiva: esiste una relazione?

di Anna S. Nicolì
curato da Giuseppe Romano

Negli ultimi anni, l’interesse sul fenomeno dell’ansia per la salute nei bambini e negli adolescenti è cresciuto anche in considerazione del ruolo che può avere la regolazione delle emozioni nell’eziologia del problema. L’ansia per la salute  si riferisce a una preoccupazione per la propria salute e all’ansia o alla  preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia (Asmundson, Abramowitz, Richter, & Whedon, 2010), in un continuum che si estende da lieve a grave (Ferguson, 2009). Quando l’ansia per la salute diventa eccessiva e influisce sul funzionamento quotidiano si può porre diagnosi. La regolazione delle emozioni, presente dai primissimi anni di età, implica la capacità di gestire l’intensità degli stati emotivi sperimentati, positivi o negativi che siano, in modo tale da essere funzionali ed utili a quanto richiesto dall’ambiente, attuando una risposta adeguata ed adattiva ai diversi contesti. Il “controllo” delle emozioni, compresa la capacità dei bambini di adattarsi al loro cambiamento, è stato considerato importante per il benessere generale in quanto si ritiene essere un fattore di protezione rispetto all’insorgenza di eventuali problematiche psicopatologiche.

In un recente studio è stato esaminato il rapporto tra ansia auto-riferita per la salute, regolazione delle emozioni e costrutti associati in bambini e adolescenti. Al campione, composto da 79 bambini e adolescenti (38 f. e 41 m.) tra 7 e 15 anni (età media = 10,89 anni; Ds = 2,11), veniva chiesto di completare una serie di misure che esaminavano l’ansia per la salute, la regolazione delle emozioni, la sensibilità all’ansia e la depressione, attraverso quattro scale e sottoscale (Scale di atteggiamento per la malattia infantile; Indice di sensibilità all’ansia infantile; Scala di gestione delle emozioni dei bambini; Inventario della depressione infantile). Non sono state osservate associazioni statisticamente significative tra ansia per la salute e regolazione delle emozioni; sono state dimostrate alcune associazioni statisticamente significative tra sensibilità all’ansia, depressione e regolazione delle emozioni. Sono state invece osservate associazioni statisticamente significative tra ansia per la salute e sensibilità all’ansia coerenti sia con le ricerche precedenti su popolazioni di adulti e bambini sia con la letteratura esistente.

Appare da valutare attentamente l’identificazione dei risultati ottenuti, tuttavia non è trascurabile considerare la quantità elevata di sottoscale esaminate che riguardavano non solo l’aspetto emozionale in toto, bensì, in una particolare scala, veniva analizzata per ogni emozione, la sua inibizione, la disregolazione, nonché le capacità di coping, applicate a tale emozione. Sarebbe utile considerare inoltre la possibilità, nei successivi studi, di utilizzare un campione con comorbilità molto bassa con altre condizioni di salute sia fisica che mentale già esistenti.

Risulta frammentario e poco utile il risultato finale ottenuto, considerando la mancanza di una base teorica, il campione piccolo e l’aspetto riguardante la patogenesi dell’ansia per la salute. La sensibilità all’ansia è probabilmente un’interazione complessa dovuta a fattori infantili, familiari, sociali e ambientali nonché trattasi di una caratteristica variabile nelle diverse etnie (nello studio effettuato l’84,8% del campione era di origine caucasica) e nei diversi contesti culturali ai quali il campione appartiene.

Riferimenti bibliografici
Sarah J. Reiser, Amanda M. Oliver, Hilary A. Power & Kristi D. Wright (2019): Health anxiety and emotion regulation in children and adolescents: is there a relationship?, Children’s Health Care, DOI: 10.1080/02739615.2019.1629297

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Il ruolo dei bisogni sentiti

di Alessandra Santoro
a cura di Cristiano Castelfranchi

I bisogni sono scopi di grande forza motivante, hanno una natura molto particolare, non solo perché sono rappresentati come imprescindibili necessità la cui mancata soddisfazione è concettualizzata come un danno, ma anche perché si possono “sentire”.
Castelfranchi (2004) delinea l’importante differenza tra “avere un bisogno” e “sentire il bisogno” di qualcosa, e l’efficacia del ruolo cruciale svolto dal corpo e dalla propriocezione nei bisogni “sentiti”, ovvero soggettivamente percepiti e particolarmente “pressanti”.

Si può pensare al passaggio tra i diversi bisogni come un susseguirsi di livelli.

Nella cognizione umana, avere un bisogno, significa che si ha una mancanza di qualcosa (ad esempio: una risorsa, una condizione, un’azione) che si rappresenta come necessaria al raggiungimento di uno scopo, per cui diventa uno scopo-mezzo, che implica un’azione compiuta sotto la spinta di un impulso o istinto, in cui no n entra in gioco il ruolo del corpo.

Prima di affrontare il livello del sentire un bisogno, è opportuno considerare un livello intermedio: quello dei bisogni oggettivi assunti, che ancora non coincidono con i bisogni sentiti, in quanto l’essere umano, può venire a conoscenza di un suo bisogno e tuttavia continuare a non “sentirlo”.

E’ al livello dei bisogni sentiti che il corpo assume una funzione discriminante. Per poter essere attivati, questi bisogni, necessitano di condizioni particolari: una persona deve percepire una  sensazione proveniente dal proprio corpo, deve avere la credenza di avere bisogno di una determinata cosa per raggiungere il suo scopo, ed inoltre deve attribuire la sensazione provata a quella mancanza che non gli permette di soddisfare il bisogno, per cui si attiva la ricerca in termini cognitivi e comportamentali.

Un bisogno sentito, di natura psicologica, che definiamo secondo la classificazione di Castelfranchi come bisogni sentiti astratti, non coinvolgono un segnale somatico periferico, ma ciò che si “sente” è un segnale o una traccia percettiva che è nel cervello e si trova associata a una data configurazione di scopi e credenze.
Sentire bisogni psicologici comporta una forma di disagio, dolore o sofferenza “mentale”, che implica anch’essa un segnale proveniente dal corpo, in questo caso a livello cerebrale non periferico ed inoltre, sentire questi bisogni può comportare l’attivazione di un “marcatore somatico” (Damasio, 1994), cioè di una traccia centrale di esperienze emotive o percettive associate alle rappresentazioni mentali implicate da tali bisogni.

L’importanza del riconoscere i bisogni sentiti, permette di comprendere in che maniera coinvolgono le credenze, gli scopi e l’ emozioni.
Un bisogno sentito si basa sulla credenza che la causa di ciò che si sente è una mancanza, inoltre secondo il meccanismo feeling as information, il sentire un bisogno può essere la base per formare una credenza.

I bisogni, in quanto scopi, hanno la capacità di elicitare un altro scopo, che siano essi mentali o pratici, come quelli che inducono ad  un’azione per essere soddisfatti.

I bisogni sentiti, ovviamente, possono sia associarsi che evocare altre emozioni, ad esempio relative anche al bisogno stesso, in cui la persona che le sperimenta può giudicarsi, positivamente o negativamente, per provare quel bisogno e ciò determina un’altra emozione.

Bibliografia:

Castelfranchi C. & Miceli M.(2004). Gli scopi e la loro famiglia: Ruolo dei bisogni e dei bisogni “sentiti”. Cognitivismo Clinico, 1, 5-19.
Damasio, A.R. (1994). Descartes’ error. New York: Putnam’s Sons.

 

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Il ruolo della vergogna nel DOC

di Giuseppe De Santis
a cura di Barbara Basile

Il DSM-5 riconosce il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e disturbi correlati come una recente classificazione diagnostica. La categoria include il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da dismorfismo corporeo, la tricotillomania, la dermatillomania e il disturbo da accumulo.

Gli studi hanno dimostrato come il timore di colpa per irresponsabilità giochi un ruolo chiave nell’esordio e nel mantenimento del DOC. Tuttavia, nel presente articolo l’emozione di senso di colpa non verrà presa in considerazione. Per un approfondimento clinico e scientifico aggiornato si veda “La mente ossessiva” (Mancini, 2016).

In che cosa sono simili tutti i quadri clinici menzionati?

Oltre alle emozioni comunemente considerate come la colpa o l’ansia, diversi autori tra cui Weingarden (2015) suggeriscono che la vergogna potrebbe essere un anello trasversale di congiunzione tra queste diverse condizioni.

Secondo la definizione di Castelfranchi (2017), la vergogna è un’emozione sociale con la funzione di proteggere i nostri scopi di buona immagine, ovvero essere valutati positivamente da noi stessi e dagli altri. Si prova vergogna quando si teme un fallimento personale rispetto a degli standard ideali che ci si è posti, sentendosi quindi inadeguati.

La vergogna motiva al ritiro e all’isolamento sociale, compromettendo il funzionamento. È associata alla depressione, al suicidio e agisce come ostacolo per il trattamento terapeutico.

La vergogna dovuta ai sintomi e la vergogna per il proprio corpo sono particolarmente rilevanti nel DOC. La prima consiste in una valutazione secondaria di inadeguatezza rispetto alla presenza di un disturbo mentale; la seconda è un giudizio di indegnità dovuto alla percezione di difetti fisici.

Consideriamo ora il ruolo della vergogna in maniera più specifica.

La letteratura sul disturbo ossessivo-compulsivo suggerisce che la vergogna si riferisce al contenuto delle ossessioni e ai comportamenti compulsivi. Le ossessioni con contenuti violenti, sessuali o blasfemi potrebbero innescare più di tutte la vergogna dovuta ai sintomi. Successivamente, le compulsioni possono essere eseguite per neutralizzare sia l’ansia che la vergogna.

Nella tricotillomania e nella dermatillomania la vergogna dovuta ai sintomi è in relazione ai comportamenti dello strappare i capelli, stuzzicare la pelle e ai comportamenti post-compulsivi. La vergogna per il corpo, sperimentata in risposta ai danni derivanti dai comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo, insorge come emozione secondaria.

La vergogna dovuta ai sintomi nel disturbo da accumulo potrebbe accompagnare i pensieri sull’essere difettoso, dovuti al convivere con il disordine. La bibliografia sottolinea una variabile cognitiva che può essere correlata alla vergogna: l’insight critico. I soggetti con sintomi ego-distonici possono sperimentare vergogna in modo più pervasivo.

La vergogna per il proprio corpo è stata considerata un’emozione primaria sin dalle prime descrizioni cliniche del disturbo da dismorfismo corporeo. All’interno di un modello cognitivo, si ipotizza che bias cognitivi come l’attenzione selettiva al corpo e la generalizzazione eccessiva dei difetti fisici portino a cognizioni irrazionali sull’immagine corporea che generano vergogna.

L’attenzione alla vergogna potrebbe aumentare l’efficacia dei trattamenti del DOC, considerando alcune proposte critiche.

I clinici dovrebbero fornire una precoce psico-educazione ai pazienti in trattamento. Ricevere informazioni accurate e obiettive sul ruolo delle emozioni ha probabilmente il potenziale di ridurre la vergogna, diminuire i comportamenti protettivi e incoraggiare la ricerca di aiuto.

Le terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione potrebbero inoltre fornire interventi utili sulla vergogna da incorporare all’interno degli attuali trattamenti di ristrutturazione cognitiva, funzionali ad affrontare la vergogna come problema secondario e fattore di mantenimento.

Infine, sono necessarie ulteriori ricerche sulla vergogna come fattore di rischio e barriera al trattamento. I supporti empirici incoraggerebbero ad occuparsi della vergogna, con l’obiettivo di promuovere il miglior benessere psicologico possibile da un punto di vista globale.

Riferimenti bibliografici

Castelfranchi C., Che figura. Emozioni e immagine sociale, Bologna: Il Mulino, 2017.

Del Rosso A., Beber S., Bianco F., Di Gregorio D., Di Paolo M., Lauriola A.L., Morbidelli M., Salvatori C., Silvestri L., Basile B., La vergogna in psicopatologia, Cognitivismo Clinico (2014) 11, 1, 27-61.

Mancini F., La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo, Milano: Raffaello Cortina, 2016.

Weingarden H., Renshaw K.D., Shame in the obsessive compulsive related disorders: a conceptuale review, Journal of Affective Disorders, vol. 171 (2015): 74-84.

Autostima e regolazione delle emozioni nel Disturbo Narcisistico di Personalità: implicazioni per il trattamento

di Aleandra Rocci
curato da Elena Bilotta

In un recente articolo scritto da Elsa Ronningstam, psicoanalista statunitense esperta di diagnosi e trattamento del disturbo narcisistico di personalità, vengono proposte e discusse strategie e interventi che servono a proteggere, mantenere e a far progredire il processo terapeutico col paziente narcisista, fino all’obiettivo di miglioramento del funzionamento della personalità e di cambiamento. Secondo l’autrice, nella costruzione dell’alleanza terapeutica è importante identificare le basi dell’autoregolazione narcisistica del paziente, ovvero le specifiche fluttuazioni dell’autostima e delle emozioni, in quanto aspetti interdipendenti nel funzionamento narcisistico. Il funzionamento del paziente può influenzare la regolazione delle emozioni e dell’autostima e viceversa. Questo a sua volta influenza le relazioni interpersonali, gli eventi della vita del paziente e specialmente la fase di costruzione dell’alleanza terapeutica e il trattamento. Il terapeuta incoraggia e aiuta il paziente ad identificare i propri trigger e il modo in cui vengono espressi nelle relazioni interpersonali. Questo può essere di particolare aiuto sia per il paziente, e cioè per avvicinarlo agli aspetti più critici del suo funzionamento, sia  risultare informativo per il terapeuta sulle precedenti esperienze di attaccamento, su eventi cruciali dello sviluppo, sulla riattivazione di un trauma e sulle implicazioni che questo ha nella relazione terapeutica. La costruzione dell’alleanza terapeutica nei pazienti narcisisti può essere molto complessa, tanto da richiedere mesi e in alcuni casi essere sia un aspetto centrale del trattamento che uno degli obiettivi principali della terapia.

Nell’articolo l’autrice evidenzia sei strategie terapeutiche utili per la costruzione dell’alleanza.

Attraverso un approccio generalmente esplorativo e collaborativo in primo luogo è necessario identificare e raggiungere un accordo sul problema che il paziente intende affrontare. Questo punto di partenza è molto importante per far sì che il paziente trovi il coraggio e la motivazione ad affrontare il problema.

In secondo luogo, l’attenzione iniziale può essere focalizzata su problemi riguardanti l’autostima, fino a quando l’alleanza non sarà abbastanza solida per permettere al paziente di tollerare l’esplorazione delle emozioni.

In terzo luogo, l’atteggiamento non giudicante del terapeuta, con l’utilizzo di termini come “impegnativo”, “difficile”, “complesso”, validano il dolore dei pazienti e tendono anche a diminuire la loro reattività e le difese.

Quarto, è importante incoraggiare gradualmente la curiosità e la capacità di riflessione del paziente ponendo domande come “cosa pensi che ti faccia reagire, sentire in questo modo?”. Questo serve ad attivare la capacità riflessiva e l’autovalutazione del paziente e permette di avere descrizioni più informative delle loro difficili esperienze legate sia all’autostima che alle emozioni.

Quinto, promuovere il senso di agentività del paziente, in base alle capacità, aspirazioni e obiettivi. Questo è particolarmente importante quando il paziente è alle prese con un grave senso di inferiorità. E’ importante promuovere l’autonomia e un senso più solido di agentività personale.

Sesto, anche quando l’alleanza è solida e c’è fiducia, collaborazione, rispetto e comprensione, eventi esterni possono improvvisamente provocare resistenza nel paziente con evitamento, disinteresse, critica sprezzante. L’evitamento del paziente e il rifiuto più o meno esplicito degli interventi terapeutici può in alcuni casi indicare il riemergere di un trauma precoce. Con una solida alleanza il paziente sarà in grado di riflettere sulle proprie difese e lavorare su di esse.

La sfida nell’affrontare la vulnerabilità narcisistica costituisce parte integrante della terapia.

Bibliografia

Ronningstam E. Intersect between self-esteem and emotion regulation in narcissistic personality disorder – implications for alliance building and treatment. Biomedcentral: Borderline PersonalityDisorder and EmotionDysregulation (2017) 4:3 DOI 10.1186/s40479-017-0054-8

Ansia, strategie di coping e gioco di finzione nei bambini ospedalizzati: uno studio italiano

di Alice Micheletti
curato da Giuseppe Romano

Quando si parla di ospedalizzazione si pensa ad un allontanamento fisico e sociale dagli affetti più cari e dalle abitudini e routine. La letteratura sul ricovero ospedaliero sottolinea come, a breve termine, il disagio nell’affrontare un ricovero possa compromettere l’efficacia di una procedura medica richiesta, mentre a lungo termine, possa portare a difficoltà nell’intraprendere ulteriori trattamenti medici.

Nei bambini, le esperienze che provocano ansia come i ricoveri possono inficiare sulla crescita fisica, sulla personalità e sullo sviluppo emotivo. Studi empirici suggeriscono come l’ansia sperimentata dai bambini possa manifestarsi attraverso diverse modalità come la regressione nel comportamento, alcune forme di aggressività, la poca disponibilità alla cooperazione, il rifiuto e la difficoltà a riprendersi dalle procedure. I bambini che sono coinvolti in programmi psicologici pre-ricovero si sono dimostrati più in grado di contenere l’ansia a livelli più bassi, sia prima dell’intervento chirurgico sia nella fase post-operatoria.

Una ricerca condotta dall’Università di Padova ha valutato i punti di forza e di debolezza dei bambini che hanno subito uno o più ricoveri ospedalieri; mediante un approccio triangolare e l’uso del gioco, sono stati valutati l’ansia di stato e di tratto, le capacità di coping e il funzionamento cognitivo e affettivo. Questi, pur essendo aspetti indipendenti tra loro, nella loro interazione potrebbero spiegare il modo in cui si affronta un’esperienza stressante. 50 bambini ospedalizzati di età compresa tra i 6 e i 10 anni sono stati confrontati con 50 bambini non ospedalizzati e i bambini al primo ricovero sono stati confrontati con bambini con più di un’esperienza di ricovero. È stato proposto l’uso di tre misure: lo STAI-C, per valutare l’ansia di stato e di tratto, una checklist sulle strategie di coping (CCSC-R1 – Children’s Coping Strategies Checklist-Revision 1), e la versione estesa dell’Affect in Play Scale – Preschool – Brief (APS-P-BR) per valutare le dimensioni cognitive e affettive del gioco. Dai risultati si evince che, mentre l’ansia di stato risulta significativamente più elevata nei bambini ricoverati, non vi sono significative differenze per l’ansia di tratto tra bambini ospedalizzati e non ospedalizzati. Difatti, l’ansia di tratto accompagna il bambino nelle esperienze quotidiane, compreso il ricovero ospedaliero, e come tale, se elevata, deve essere riconosciuta come una vulnerabilità di base del bambino. L’ansia di tratto ha un ruolo importante nella risposta del bambino al ricovero, quanto più è alta tanto più la sua percezione del ricovero, come esperienza stressante, sarà alta e tanto meno efficace sarà la sua capacità di superamento.

I bambini ricoverati riportano punteggi più alti rispetto ai bambini non ospedalizzati anche nelle strategie di supporto. Come suggerito da Wilcox (2018), l’efficacia delle strategie di gestione è influenzata dalla ricorrenza e dalla durata dei ricoveri: bambini con più di un ricovero sono meno inclini ad evitare lo stress della situazione e a richiamare pensieri positivi. Riguardo al gioco di finzione, i bambini ricoverati mostrano punteggi cognitivi molto più alti rispetto ai non ricoverati: nell’elaborazione dei temi delle storie ricorrono ad una maggiore complessità e arricchimento, presentando, al contempo, una maggiore fantasia e immaginazione nel gioco. Questi due elementi potrebbero rappresentare una modalità per affrontare la realtà angosciante e sconosciuta dell’esperienza del ricovero ospedaliero. Tuttavia, i bambini ospedalizzati sono più limitati nelle espressioni affettive nel gioco, forse per paura di essere sopraffatti dai sentimenti stressanti che il ricovero può attivare. Infine, i bambini ospedalizzati sono comunque in grado di organizzare un finto gioco e la loro ansia non differisce dai bambini non clinici; in più esprimono un atteggiamento attivo volto alla ricerca e all’utilizzo di modalità di difesa, prevenzione e al riconoscimento del proprio bisogno di sostegno. Nonostante ciò, i ricoverati appaiano maggiormente limitati nelle espressioni affettive. Non vi sono differenze sostanziali per i punteggi concernenti il gioco e l’ansia tra bambini al primo ricovero e bambini con più di un ricovero; eppure i bambini al primo ricovero hanno ottenuto un punteggio più alto nella gestione e nella ristrutturazione cognitiva positiva e nelle strategie di prevenzione rispetto ai bambini con più di un ricovero.

Come riferisce Lewick, valutare l’assistenza sanitaria, sottolineando le risorse e le capacità dei bambini, significa riconoscere e sostenere la resilienza dei pazienti, i loro punti di forza, e contribuire a comprendere il modo in cui un bambino-paziente può gestire le difficoltà della sua vita. Determinare risorse e vulnerabilità dei pazienti risulta essere una valida strategia per comprendere il funzionamento adattivo e risolutivo impiegato dagli stessi per affrontare l’esperienza di ricovero. La valutazione psicologica dei bambini in fase di ricovero, rispetto all’interazione di variabili come l’ansia, le abilità di coping e le modalità di gioco, può essere un supporto e una guida per gli operatori sanitari ai fini della determinazione del rischio di un bambino di evolvere verso esiti psicologici negativi dovuti al ricovero, può aiutare a pianificare progetti di intervento adeguati e consente di fornire l’assistenza di base ai bambini ricoverati in futuro. Lo studio di Del Vecchio et al. (2019), a tal proposito, può essere uno spunto per la progettazione di interventi mirati all’accrescimento delle capacità personali e sociali necessarie alla gestione dello stress causato da esperienze altamente preoccupanti come quella di un ricovero ospedaliero.

Riferimenti bibliografici

Del Vecchio E., Salcuni S., Lis A., Germani A., Di Risio D., Hospitalized Children: Anxiety, Coping Strategies, and Pretend Play, Public Health, 06 September 2019.
Wilcox LN., Exploring Coping Skills of Hospitalized Children: A Children’s Book Proposal. (2018).
Lerwick JL., Minimizing pediatric healthcare-induced anxiety and trauma. World J Clin Pediatr. (2016) 8 5:143–50.