Mindfulness e gioco d’azzardo

di Alessandro Giurgola

Il ruolo della psicoterapia basata sulla mindfulness nel trattamento del craving del gioco d’azzardo patologico (gap)

Il Gioco d’azzardo patologico (GAP) entra nel 2014 in una nuova sezione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) intitolata “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction” segnando un passaggio fondamentale nella psicopatologia. Joseph

Nowak e altri accademici statunitensi nel 2014 hanno rilevato che la prevalenza del GAP tra gli universitari era del 10,23%, in aumento rispetto al passato, grazie anche alla diffusione di massa del gioco online.

Il GAP, come le altre addiction, è contraddistinto da fasi di craving – desiderio improvviso e incontrollabile di assumere una sostanza psicoattiva -, discontrollo emotivo e dipendenza. Il lavoro psicoterapeutico finalizzato alla prevenzione delle ricadute è diretto al craving in quanto elemento di mantenimento del problema. I modelli comportamentali automatici del GAP che conducono il soggetto a rispondere impulsivamente agli stimoli scatenanti (triggers) sono fondamentali per il paziente per educarlo a tollerarli e non replicarli.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è il principale tra gli approcci utilizzati per il trattamento del Gioco d’azzardo patologico e l’evidenza empirica supporta la sua efficacia. La CBT, in particolare quella basata sulla pratica della Mindfulness (MBCT), promuove l’importanza di riconoscere il pensiero come prodotto dalla nostra mente e non come sinonimo di fatto (pensiero ≠ realtà), preferendo accettarne l’esistenza piuttosto che modificarne il contenuto. La Mindfulness porta intenzionalmente consapevolezza alle sensazioni corporee, ai pensieri e alle emozioni coinvolti nel craving. I pazienti acquisiscono abilità a osservarne le caratteristiche come farebbero spettatori esterni, come se appartenessero a qualcun altro. L’effetto atteso è quello di ridurre la durata, l’intensità e l’importanza del desiderio di giocare d’azzardo.

In uno studio della psichiatra canadese Diane McIntosh e colleghi, vengono messi a confronto l’efficacia della CBT attraverso la formulazione e la condivisione del caso, i protocolli classici e la MBCT per trattare il GAP. Tutti e tre gli interventi hanno ottenuto miglioramenti significativi a tre e sei mesi di follow-up. La Mindfulness è stata più efficace dei classici protocolli CBT nel ridurre il comportamento problematico e lo stress associato. Gli autori hanno concluso che un breve intervento di Mindfulness, psicoeducazione e CBT, possono essere un utile complemento rispetto ai soli protocolli CBT, favorendo la riduzione della ruminazione e la soppressione del pensiero disfunzionale automatico.

Perché la MBCT è utile nel GAP?
Perché aumenta la consapevolezza di sé, riduce le risposte automatiche e quindi le ricadute; le emozioni negative associate al craving e alle ricadute sono sostituite dalla compassione verso di sé; il valore delle ricompense ottenute tramite il gioco diminuisce; vengono sviluppati maggiori valori personali; la tolleranza alla frustrazione aumenta con una maggiore capacità di ritardare le ricompense.

Affrontare i propri impulsi è cruciale nella gestione dei problemi legati al gioco d’azzardo e la Mindfulness sembra essere un’ottima alleata degli psicoterapeuti.

Per approfondimenti

Ventola A. M., Yela José Ramón, Crego A., Maria Cortés-Rodríguez, Effectiveness of a mindfulness-based cognitive therapy group intervention in reducing gambling-related craving, Journal of Evidence-Based Psychotherapies, Vol. 20, No. 1, March 2020, 107-134

Foto di Oleg Magni da Pexels

Benvenuti nell’Era degli a-social network

di Benedetto Astiaso Garcia

Sono rimasto per qualche ora senza connessione internet e ho conosciuto delle persone stupende qui a casa. Dicono di essere la mia famiglia” (Anonimo)

L’interazione tra l’uomo e la tecnologia diviene ogni giorno più articolata e complessa, modificando significativamente la modalità dell’individuo di comportarsi, percepirsi, pensare ed entrare in relazione. L’epoca attuale, infatti, conferisce alla mente umana la capacità di creare nuovi mondi, delineare spazi tra il sogno e la realtà e configurare interi universi di esperienza completamente svincolati dalla dimensione materiale, estendendo il Sé e modificando in maniera rilevante le condizioni della coscienza.

Proprio come ogni forma di dipendenza patologica, tuttavia, un eccessivo utilizzo di piattaforme virtuali sviluppa sintomi di “craving” (impulsività nel ricercare l’oggetto gratificante), tolleranza e astinenza, contribuendo all’insorgenza di disturbi d’ansia, pensieri fissi, depressione, attacchi di panico, disturbi del sonno, cali prestazionali di attenzione e concentrazione, isolamento e fenomeni dissociativi.

I comportamenti maladattivi e compulsivi, connessi a una precoce ed eccessiva familiarizzazione con la rete, catturano l’individuo in un universo idealizzato e fantasmatico, inducendolo inesorabilmente a sacrificare impegni e relazioni appartenenti alla vita reale.

Affrontare tematiche connesse alla realtà virtuale non significa demonizzare il progresso o gli enormi ed evidenti benefici a esso connessi, ma solamente osservare in modo critico e consapevole comportamenti che giorno dopo giorno divengono abitudinari e caratterizzanti della nostra epoca, come dimostrato da innumerevoli ricerche sull’utilizzo di internet e dei sociali network effettuate in Italia e negli Stati Uniti:

  • In Italia solamente 4 persone su 100 non si connettono quotidianamente ad Internet;
  • In Italia, in media, ogni persona trascorre 4 ore al giorno su internet;
  • Oltre il 20% dei bambini delle scuole elementari italiane naviga su internet quotidianamente;
  • Il 75% dei bambini delle scuole elementari italiane utilizza computer o tablet con regolarità;
  • Il 76% degli studenti americani usa Facebook in classe;
  • Il 40% dei soggetti americani usa Facebook alla guida;
  • Il 63% dei soggetti americani usa Facebook durante le conversazioni faccia a faccia;
  • Il 65% dei soggetti americani usa Facebook durante l’orario di lavoro;

La tendenza a vivere sempre più frequentemente in una rappresentazione della realtà, piuttosto che nella realtà stessa, diventa la principale modalità attraverso cui l’individuo cerca di esprimere o superare il proprio malessere, alterando la nozione spazio-temporale e favorendo una totale perdita di controllo nella gestione dell’esperienza tecno-indotta.

In questo modo, il mondo virtuale diviene garante di un’illusoria e fraudolenta promessa di atemporalità, perfezione e infallibilità destinata a deragliare presto in alienazione, solitudine e disillusione nei confronti di relazioni tanto idealizzate quanto impalpabili e deludenti. Il sano desiderio di incrementare la propria autostima, sentirsi parte di qualcosa, aumentare la propria rete relazionale e liberarsi dalla schiavitù del giudizio altrui produce un effetto paradosso di isolamento, paura e incomunicabilità.

Diventare dipendenti dalla “droga virtuale” significa perdere un orizzonte di significato, sviluppando un profondo senso di estraneità, intolleranza, irritabilità e disgusto verso il mondo reale, troppo faticoso e frustrante per poter essere affrontato.  La stessa realtà virtuale, inizialmente percepita come una panacea dei propri limiti e delle proprie sofferenze, finirà poi con il deludere profondamente la persona, catapultandola in un limbo onirico e depressivo in cui sperimenterà uno struggente senso di mancata appartenenza  verso entrambe le realtà, materiale e virtuale.

Avevamo così tanta voglia di essere vicini che non siamo mai stati così lontani: i pochi momenti di autentica intimità familiare e sentimentale si sono ormai ridotti a una cena a lume di smartphone.

 

Per approfondimenti:

– Caretti V. e La Barbera D., “Le Dipendenze Patologiche”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005

– Dati Istat 22 Giugno 2016;

– Ricerca Digital 2016;

– Ricerca Saremi e Turel, University of South California, 2016;