di Daniela Fagliarone
Effetti del perfezionismo dei terapeuti sui pazienti
Il perfezionismo è stato definito come un’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dalla ricerca di standard personali elevati e auto-imposti in almeno un dominio importante per la persona, nonostante le conseguenze avverse. È stato riconosciuto come esso contribuisca allo sviluppo e al mantenimento di varie psicopatologie: è infatti correlato con bassa autostima, elevata sensibilità alla critica, depressione, disturbi d’ansia e alimentari, difficoltà interpersonali, disperazione e rischio di suicidio e, se non viene riconosciuto e trattato in terapia, può limitare il successo terapeutico. Cosa accade però quando ad essere perfezionista è il terapeuta? Le ricerche suggeriscono che il perfezionismo nei professionisti della salute mentale sia comune e dannoso per la guarigione del paziente, ma non esistono molti dati empirici del suo impatto, sull’esito delle terapie e sul rischio di drop-out. Vickie Presley e colleghi, ricercatori all’Università di Birmingham, hanno indagato questo legame chiedendosi in particolare se c’è una relazione significativa tra le dimensioni del perfezionismo nei terapeuti cognitivo comportamentali e i risultati del trattamento sui clienti nei punteggi di depressione e ansia e sugli effettivi drop-out dalla terapia. I risultati confermano questa ipotesi: in particolare, è emerso che i migliori risultati per i pazienti con sintomi depressivi erano associati al fatto di avere un terapeuta organizzato, che predispone materiali appropriati e di informazione da consegnare al paziente. Punteggi alti nella sottoscala “perseguimento dell’eccellenza” e “elevati standard per gli altri” del test di valutazione del perfezionismo dei terapeuti, però, erano associati a esiti peggiori nei loro pazienti depressi, perché la relazione terapeutica potrebbe essere danneggiata da queste attitudini che rischierebbero di demotivare il paziente, proponendo obiettivi irrealistici o prescrivendo compiti a casa troppo difficili. Al contrario, terapeuti che avevano riportato “bassa pressione genitoriale verso il successo” ottenevano i migliori risultati clinici con questi pazienti, probabilmente perché uno stile meno richiedente e critico a livello interpersonale è con loro più efficace. Per i disturbi di ansia, invece, i migliori risultati erano associati con quei terapeuti che avevano minori “preoccupazioni rispetto agli errori” e che non esageravano nella programmazione della seduta (farlo troppo può ridurre la collaborazione in terapia, inibire il paziente nell’esprimere i propri bisogni e far percepire lo psicoterapeuta come rigido e controllante). Chi ha elevati sintomi ansiosi già di suo può tendere, inoltre, a pianificare eccessivamente come strategia di coping, di fronteggiamento, e questo può colludere con un terapeuta che mostra livelli troppo elevati di pianificazione, fungendo da ulteriore fattore di mantenimento dei sintomi e limitando il successo terapeutico. Altri pazienti ansiosi, invece, possono rifiutare del tutto la pianificazione per il timore di fallire e quindi possono trovare molta difficoltà a lavorare con uno psicologo con tali caratteristiche. Infine, la ricerca ha mostrato come bassi livelli di drop-out fossero associati a psicoterapeuti che non avevano elevati standard sugli altri e che non ruminavano sui propri errori ma anche con quelli che cercavano l’eccellenza in quello che facevano. In conclusione, si può affermare che le dimensioni interpersonali del perfezionismo sono importanti e identificare il proprio schema può aiutare lo psicoterapeuta a massimizzare i risultati clinici.
Per Approfondimenti:
Presley V.L., Jones C. A. & Newton E.K. (2017). Are perfectionist therapists perfect? The relationship between therapist perfectionism an client outcomes in cognitive behavioural therapy. Behavioural and cognitive psychotherapy, 45(3), pp. 225-237