Paziente difficile: come intervenire?

di Emanuela Pidri

Dal disturbo di personalità alla concettualizzazione del trattamento del paziente difficile

L’attenzione sui disturbi, se da un lato permette di descriverli, dall’altro rischia di condurre a formulare rappresentazioni dei pazienti stereotipate e convenzionali. La nosografia ufficiale relativa ai Disturbi di Personalità sembra sia un’elencazione dal valore puramente descrittivo piuttosto che un modo di valorizzare la conoscenza del funzionamento globale della persona. Diventa inevitabile abbandonare la classificazione descrittiva per adottare un approccio ai pazienti difficili che orienti il terapeuta cognitivista nel predisporre un intervento efficace e mirato, rivolto alle modalità disfunzionali di pensare, sentire e relazionarsi con il mondo. Parlare di paziente difficile piuttosto che di paziente con disturbo di personalità, più o meno grave, consente di porre l’accento sugli aspetti di ordine comportamentale e relazionale che rendono necessaria una presa in carico globale. In ambito cognitivista, Antonio Semerari e Giancarlo Dimaggio propongono un modello nel quale i Disturbi di Personalità sono presentati come sistemi che si auto-organizzano e che mantengono la patologia nel momento presente. Secondo questi autori, gli elementi costitutivi dei disturbi sono identificabili come: un insieme di stati mentali rigido e specifico per ogni disturbo; povertà e/o disorganizzazione narrativa; disfunzioni stabili socialmente invalidanti definibili in termini di deficit delle capacità meta rappresentative; cicli interpersonali disfunzionali che agiscono nel concreto delle relazioni, in modo tale che determinati schemi interpersonali si perpetuino e si automantengano; disfunzioni nei processi di valutazione e scelta; problemi nella regolazione dell’autostima. L’analisi di Semerari e Dimaggio si concentra sulla carenza di abilità psicologiche che potrebbero invalidare le aspettative relazionali che si sono sviluppate in senso patologico mantenendo il disturbo di personalità. Tali abilità costituiscono sottofunzioni della più generale funzione metarappresentazionale. Essa può essere suddivisa in tre aree impiegate nella comprensione e nella gestione degli stati mentali: processi autoriflessivi (consentono di avere la consapevolezza del possesso e dell’attuale condizione dei propri stati interni e di formulare ipotesi su ciò che li ha determinati o che può modificarli); comprensione della mente altrui (permette di riconoscere all’altro una mente personale e distinta dalla propria, nonché di ipotizzarne lo stato interno e le variabili che lo potrebbero influenzare); mastery (permette di assumere un atteggiamento volto alla risoluzione dei problemi intrapsichici e interpersonali attraverso una serie di strategie d’autoregolazione che si riflettono sul piano della condotta interpersonale). L’adozione di questa prospettiva ha notevoli implicazioni per l’analisi dei Disturbi di Personalità. Dapprima si porrà la domanda rispetto a quanto la descrizione di un malessere in termini di disturbo di personalità sia utile per gli obiettivi terapeutici e quanto invece possa impedire di intravedere altre strade percorribili, rendendo più probabile il cristallizzarsi della situazione di disagio. In seguito si valuterà se considerare il funzionamento mentale e relazionale del paziente come insieme di sintomi da descrivere derivati dalla personalità o come comportamenti messi in atto in relazione a specifiche circostanze. Infine si valuterà l’efficacia di decostruire le narrazioni disfunzionali che il paziente ha consolidato e le descrizioni di sé con cui si presenta, costruendo narrative più funzionali. L’intervento clinico dovrebbe indirizzarsi sui fattori generali alla base della psicopatologia della personalità (disregolazione emotiva, dissociazione, bassa agency, mentalizzazione). L’attenzione sarà focalizzata sulle diverse funzioni metacognitive che potrebbero risultare danneggiate in questi pazienti (monitoraggio, integrazione, differenziazione, decentramento) e verranno potenziate le strategie di mastery distinte in tre livelli che vanno dal più semplice, che richiede un ridotto senso di agentività da parte dell’individuo, a quelle più complesse, che richiedono operazioni di rielaborazione metacognitiva.
Per approfondimenti:

MEIER C. et al., (1995) Oltre la diagnosi verso il cambiamento. In Pagliaro G., Cesa-Bianchi M., Nuove prospettive in psicoterapia e modelli interattivo cognitivi, FrancoAngeli, Milano.

PERRIS C., (1989). Cognitive Therapy Wth Schizophrenic Patients, Guilford, New York [trad.it. Terapia con I pazienti schizofrenici, Bollato Boringhieri, Torino 1996]

PERRIS C., (1993). Psicoterapia del paziente difficile, Métis, Lanciano.

PERRIS C., (1999).  A conceptualization of personality-related disorders of interpersonal behaviour with implications of treatment, in Clinical Psychology and Psychotherapy, 6, pp.239-260.

SEMERARI A., (2000). Storia della psicoterapia Cognitiva. Laterza, Bari

SEMERARI A., DIMAGGIO G., (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Laterza, Roma-Bari.

SEMERARI A., (2016). Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva. Laterza, Bari.

CARCIONE A, NICOLO’ G., SEMERARI A.,  (2016). Curare I casi complessi. Laterza, Bari.

“Perché non sono quando non ci sei”

di Caterina Parisio

Dipendenza: da fenomeno fisiologico a psicopatologia

 Nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1902, Mathilde Tulla Larsen, amante del celeberrimo pittore Edward Munch, in seguito al suo ennesimo rifiuto a sposarla, fece giungere all’artista la notizia che ella era in fin di vita a causa di un’overdose di morfina. Quando Munch giunse a casa di Tulla, la trovò avvolta in un sudario e distesa in una bara, circondata da candele. Vedendolo, ella si sollevò stremata gridando: “Era l’unico modo per farti giungere a me!”.
Curiosa, a tratti comica, la scenetta di Tulla ed Edward, profondamente triste e tragica nella sua verità: quando una relazione si trasforma in qualcosa di tossico.

Esiste un momento preciso durante il quale una relazione approda a una dimensione patogena e patologica? Vari autori sottolineano la necessità di distinguere la dipendenza come fenomeno fisiologico dalla dipendenza intensa come Disturbo di Personalità. John Birtchnell considera la dipendenza negli adulti l’equivalente dell’attaccamento nei bambini e sottolinea come essa possa essere normale in alcune situazioni come le malattie invalidanti o nell’infanzia. L’autore evidenzia, come caratteristica del disturbo, l’incapacità di stabilire una propria identità separata da quelle delle figure di riferimento.
La dipendenza può, del resto, essere considerata come un atteggiamento etologicamente adattivo e appropriato in alcuni contesti, che spinge verso la ricerca di protezione da parte di un altro ritenuto più forte, ma che può determinare, in alcune situazioni cliniche, una grave menomazione del funzionamento personale e sociale.
La dipendenza problematica, legata alla stabilità di relazioni interpersonali disadattive, non configura sempre un Disturbo Dipendente di Personalità, ma è una dimensione comune a vari funzionamenti psicopatologici. La richiesta continua di rassicurazione, l’impossibilità di esprimere disaccordo e il prestarsi a compiti spiacevoli, sono modalità finalizzate al mantenimento della dipendenza dalle figure significative; sottomissione, l’essere facilmente feriti dalla critica e dalla disapprovazione, l’aggrapparsi alle relazioni sono, invece, manovre difensive tipiche del disturbo.

Gli stati mentali caratteristici di pazienti con DDP oscillano tra stati di autoefficacia, in cui il soggetto ha di sé un’immagine positiva, forte e adeguata, e stati di vuoto terrifico disorganizzato, in cui predomina una rappresentazione di sé inadeguato e fragile.

Il sé fragile è caratterizzato da temi di minaccia, solitudine, abbandono e perdita. La sensazione costante è quella di essere incapace a fronteggiare gli eventi da solo; è pervasiva la necessità di essere presenti nella mente dell’altro, di avere una profonda condivisione e sintonia. La fragilità si esprime nel timore costante di abbandono.

Se da un lato, il mantenimento della dipendenza consente la permanenza di una rappresentazione di sé come competente (ma non annulla quella di un sé debole), dall’altro, la rottura della dipendenza genera lo stato mentale temuto di vuoto disorganizzato. È caratterizzato da temi di pensiero di abbandono e perdita e da assenza di desideri attivi.

La dipendenza non è legata a un semplice bisogno di aiuto e rassicurazione contro le paure, ma è ciò su cui si basa la regolazione delle scelte, permette di percepire scopi e desideri, contrasta sensazioni terrificanti di vuoto: è la dipendenza che fa sentire vivo il soggetto! Combattere la dipendenza in questi pazienti è come voler riabilitare la muscolatura di un arto dopo la frattura, riducendo il funzionamento dell’arto sano. Sarà un lungo lavoro di potenziamento dei processi di riconoscimento dei propri scopi e di regolazione dei piani a equilibrare la dipendenza sintomatica versa una forma più funzionale.

Quando Munch, giunto a casa dell’amante, comprese l’inganno, sembra che disgustato decise di allontanarsi, ma ella, disperata, impugnò un revolver per uccidersi.

Ah Tulla, ad averti avuta in terapia chissà, forse avresti regolato meglio le tue scelte!

Per approfondimenti

Giancarlo Dimaggio, Antonio Semerari (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Ed. Laterza