Non sapere più a chi credere può spaventare più di una malattia
Ai tempi dei miei genitori, quando la televisione forniva delle informazioni, tutti la ritenevano “fonte attendibile e sicura”, pertanto, pure di fronte a notizie nefaste, loro si sentivano al sicuro, protetti e guidati. Ai tempi nostri, al contrario, siamo tutti diffidenti: abbiamo scoperto troppi inganni, intrighi internazionali, sono nate e diffuse teorie complottistiche sotto l’egida di scoperte “sensazionali”, vediamo i nostri “punti di riferimento” politici ed economici cambiare direzione a seconda di interessi a noi più o meno noti… Insomma, non ci fidiamo più di nessuno!
Inoltre, siamo sommersi, differentemente dal passato, da informazioni provenienti da centinaia di fonti: TV, radio, internet, giornali cartacei e online, opinionisti, social, WhatsApp… Migliaia di informazioni tra cui è difficilissimo districarsi e che ci fanno sentire persi. La nostra mente, infatti, non è in grado di sopportare una tale quantità di informazioni contemporaneamente; la memoria a breve termine, o memoria di lavoro, può contenere ogni istante solo alcune informazioni e le seleziona per un processo di elaborazione solo se tali informazioni risultano essere “coerenti” rispetto agli scopi che in quel preciso momento stanno predominando nella singola persona. Per questo motivo, quando una informazione compromette lo “scopo di sicurezza” dell’individuo, quindi è una informazione che presenta un potenziale rischio che si sta correndo, la nostra mente comincia a funzionare seguendo un semplice principio dettato dall’istinto di sopravvivenza: inizia a lavorare secondo il principio Better safe than sorry, ovvero combatte alacremente per risolvere il dubbio che sia possibile o meno scartare l’ipotesi peggiore (in questo caso, poter morire o far morire qualcuno per il contagio da Coronavirus). Quindi si scartano le informazioni più ottimistiche a favore di quelle maggiormente pessimistiche. Purtroppo, però, per quanti sforzi la nostra mente possa fare per eludere l’ipotesi catastrofica, ci sarà sempre qualche elemento, dettaglio, informazione nuova o ragionamento che porterà a non risolvere il dubbio, poichè non esiste in natura la possibilità di portare a zero la probabilità di un evento, resterà sempre una quota di rischio incontrollata. Questa spirale cognitiva produce ansia, angoscia, terrore!
Ho fatto un esperimento giorni fa in una chat di WhatsApp che comprende centinaia di persone (non me ne vogliano le cavie): ho inoltrato un messaggio vocale con all’interno una ipotesi complottista sul Coronavirus. Le reazioni sono state di fastidio (“Un’altra informazione da processare, oh no!”), di rifiuto (“Dimmi se la fonte è attendibile sennò questa informazione la elimino”), di scherno (usare la satira è una delle strategie per distanziarsi da qualcosa che ci infastidisce)… Insomma, non ce la facciamo più! Stiamo praticamente cedendo di fronte alla sovrabbondanza di stimoli a cui siamo sottoposti.
Quindi che succede quando dobbiamo decidere a cosa credere?
Ci sono almeno due processi da considerare.
Il primo: ricorriamo alla formula più comune (“Se stanno chiudendo le scuole ecc. allora vuol dire che…”) e ognuno sceglie la propria conclusione allarmistica o menefreghista che sia. Anche questo ragionamento è parte di un corredo comune di euristiche del ragionamento umano: il Behaviour as input è quel tipico ragionamento che parte dall’osservazione di un comportamento (in questo caso: stanno chiudendo i luoghi di incontro collettivo) per renderlo la prova di un effettivo pericolo, per cui quel comportamento viene inteso come un tentativo di prevenire quella minaccia (morire per contagio da Coronavirus).
Il secondo: di fronte a una tale quantità di informazioni discordanti o semplicemente abbondanti, ci comportiamo come Pascal che ragionava sull’esistenza di Dio; come decidere se crederci o meno? Il ragionamento di Pascal consisteva nel fatto che, non avendo prove né della sua esistenza né della sua non esistenza, non gli restava che scommettere, e la scommessa può essere valutata sulla base dei rischi che si corrono. Se credo in Dio e mi sbagliassi, potrei rischiare di aver limitato la mia vita terrena, facendo sacrifici in nome della religione; se non credo in Dio e mi sbagliassi, vivrei liberamente ma il costo sarebbe più elevato poichè patirò le pene dell’Inferno per la vita dissoluta condotta. Così tendiamo a dare credito alle ipotesi più improbabili, talvolta implausibili, perchè si teme di sottovalutare una minaccia consapevolmente, cosa che induce a una elevata quota di senso di colpa.
Riconoscere, infine, di essere vittima di una condizione di insicurezza, dovuta ai fattori di cui sopra, aiuterebbe a non farsi travolgere dalle proprie emozioni ed a ripristinare una modalità di valutazione degli eventi più scientifica e oggettiva. Il senso di sicurezza, infatti, può maggiormente essere garantito se alleniamo la nostra mente a produrre “pensieri utili” e funzionali, ovvero correggere gli errori di ragionamento, che inducono paura e terrore anche quando la realtà oggettiva dei fatti non dimostra che ciò che pensiamo sia vero in quel momento.
Dobbiamo, in sostanza, imparare a essere legati alla “realtà oggettiva dei fatti”: sapere cosa è il Coronavirus, come non contagiarsi o trasmetterlo ad altri, seguire le regole igieniche “normali” ricordate da tutti, ed essere fiduciosi che tutto andrà bene. Sebbene non si possa escludere l’ipotesi peggiore, accettare infine che nessuno possa evitare che questo accada e quindi quanto possa essere disfunzionale, per la propria vita, spendere del tempo e tante energie nel tentativo di prevenire un evento che non dipende da noi.
Per approfondimenti
Gangemi A., Mancini F. e van den Hout M.A. (2007),”Feeling guilty as a source of information about threat and perfomance”. In Behaviour Research and Therapy, 45, pp. 2387-2396.
Mancini F. (a cura di), (2016), “La mente ossessiva”, Raffaello Cortina Editore
Lopatcka C., Rachman S. (1995), “Perceived responsibility and compulsive checking: An experimental analysis”. In Behavioural Reserarch and Therapy, 33, pp. 673-684.
Van den Hout M.A., Gangemi A., Mancini F., Engelhard I.E., Rijkeboer M.M., van Dams M., Klugeist I. (2014), “Behavior as information about threat in anxiety disorders: A comparison of patients with anxiety disorders and non-anxious controls”. In Journal of Behavoir Therapy and Experimental Psychiatry, 45, pp.489-495.