Ordine naturale e sofferenza mentale

di Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini

Stoicismo, buddhismo e credenze sul funzionamento della natura: una via verso l’accettazione radicale

Quale legame esiste tra le credenze che un individuo ha sul funzionamento e la giustizia etica della realtà e la sua condizione di benessere (o sofferenza) mentale? In un articolo appena pubblicato su Cognitivismo Clinico, Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini fanno il punto sull’argomento, evidenziando come tali credenze, che danno origine nella mente umana a precise aspettative sugli stati del mondo – possibili (ordine naturale fattuale), giusti (ordine naturale etico) e utili (ordine naturale utilitaristico) – siano effettivamente in grado di modulare le convinzioni circa il valore e la perseguibilità degli scopi e dunque di agire, in accordo con modello cibernetico del purposive behaviour, su tutti i fattori che influenzano l’accettazione della sofferenza psicologica (entità e credibilità degli scopi, investimento, meccanismi ricorsivi).

Dopo aver chiarito il ruolo dell’ordine naturale nel promuovere il benessere psicologico o, al contrario, nel favorire la sofferenza, gli autori prendono in esame una forma particolarmente radicale di accettazione, l’amor fati della filosofia antica, rivisitandola in chiave cognitivista e mostrando come essa, a differenza di quanto accade nella accettazione comunemente intesa – in cui il processo di accettazione termina con la cessazione degli investimenti sugli scopi irrimediabilmente compromessi (lasciando dunque la possibilità di un “residuo” di sofferenza da “rassegnazione”) – miri a realizzare una condizione di annullamento completo e definitivo della sofferenza mentale.

Secondo gli autori, l’analisi degli insegnamenti di due grandi scuole di pensiero, lo stoicismo di Marco Aurelio e il buddhismo antico, opportunamente “tradotti” in senso cognitivista, attesta che, alla base di entrambi questi sistemi di pensiero, vi è proprio il concetto di ordine naturale fattuale.

La retta comprensione delle leggi che regolano la natura (il Logos stoico, il Dharma buddhista), da conseguirsi attraverso l’impiego di specifici esercizi cognitivi ed esperienziali, consente all’essere umano di ristrutturare le proprie credenze sul valore, etico e utilitaristico, dei fatti esistenziali (il lutto, la malattia, il successo, l’abbandono, ecc.) e di collocarsi in una condizione di assenza di sofferenza che, almeno teoricamente, è generale e permanente: l’individuo non soffre, qualsiasi cosa accada, perché tutto ciò che succede è compatibile con il suo schema di funzionamento della realtà e non può compromettere o minacciare alcuno scopo dotato di valore utilitaristico o normativo.

Una parte importante dell’articolo è dedicata proprio all’analisi degli esercizi “spirituali” proposti da stoicismo e buddhismo; gli autori mettono in luce i meccanismi cognitivi attraverso cui tali pratiche incidono sull’assetto scopistico dell’individuo e sulle cause della sofferenza mentale e, aspetto particolarmente interessante, mostrano come, alla luce del concetto di ordine naturale, esse acquistino un senso alquanto differente da quello comunemente loro attribuito dagli approcci psicoterapeutici contemporanei.

È il caso, ad esempio, degli esercizi di mindfulness, tanto di moda oggi nella pratica psicologica e psicoterapeutica, che, a giudizio degli autori, corrisponderebbero solo in parte alle pratiche di visione profonda (vipassana) del buddhismo antico, alle quali vengono solitamente ricondotte; mentre la mindfulness, secondo gli autori, serve essenzialmente a promuovere la defusione, le meditazioni vipassana del buddhismo originario, presupponendo, diversamente dalla mindfulness, pratiche molto spinte di concentrazione meditativa, assolvevano probabilmente a un compito cognitivo estremamente più significativo, quello di indurre la comprensione diretta, esperienziale dell’ordine naturale fattuale delle cose e, conseguentemente, di promuovere la completa ridefinizione degli scopi e degli investimenti personali.

Per approfondimenti

Carlo E., Brasini M., Giacomantonio M., & Mancini F. (2021). Accettazione, amor fati e ordine naturale: una prospettiva cognitivista. Cognitivismo clinico 18, 1, 67-86.

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Indistruttibile come il cristallo

 di Benedetto Astiaso Garcia
Il cuore dell’uomo è come il vestito del povero; è dove è stato rammendato più volte che è più forte. Paul Brulat
La sofferenza psichica, esperienza che accomuna il genere umano, sembra compromettere molto spesso il perseguimento sovrainvestito di scopi di forza, autonomia e indipendenza, rigurgitando la fallace illusione che solamente nell’impeccabile armonia della perfezione dell’essere risieda la felicità. La sofferenza, tempra dell’animo umano, favorisce, invece, un inevitabile processo di consapevolizzazione teso a ricordare la fragilità e la finitudine proprie dell’essere. Alcune ferite, pur ricominciando a sanguinare al primo pretesto, divengono riflesso di una bellezza diversa: matura, vissuta, reale. Assumono la forma di simbolo, divenendo sinestesia tra un ricordo di dolore e una consapevolezza di mortalità: scopi di autonomia e forza necessitano, infatti, di alternarsi, come sistole e diastole, a una matura coscienza della propria fragilità, emblema di una rivoluzionaria concezione di potenza e autoaffermazione.
La crepa dell’animo diviene così bussola del senso stesso della vita, rendendo l’uomo tanto forte da poter accettare il proprio essere mortale e fallibile. “Il mondo spezza tutti e poi molti sono forti proprio nei punti spezzati”(Ernest Hemingway).
Cercare a tutti i costi di mantenere l’integrità del proprio mondo emotivo e fisico significa rendersi soggetti a un vincolo di rigidità, un atteggiamento che favorisce l’incapacità di modificare la propria struttura interna in relazione a forze agenti dall’esterno. È proprio l’elasticità, di contro, a conferire alla materia una maggiore capacità di assorbire il trauma, evitandone la disgregazione: i vasi molto antichi che presentano una crepa, infatti, hanno una maggiore capacità di resistere al tempo di quanta non ne abbiano quelli perfettamente integri; è proprio grazie a questa ferita che l’oggetto, cessando di perseguire un’immagine di incrollabilità, diviene maggiormente capace di tollerare
traumi e sconvolgimenti. Nella sua apparente fragilità, la materia cela, dunque, una maggiore capacità di resilienza: questo perché rigidità e inflessibilità, mascherate da stoica indistruttibilità, pongono l’oggetto in una precaria condizione di potenziale compromissione, definitiva e irreversibile, della propria essenza.
La ferita assume in questo modo l’accezione di indispensabile strumento finalizzato alla sopravvivenza della propria psiche, dal momento che annichilisce l’effimera onnipotenza del perfetto. Ogni trauma diviene perciò un premio: “Porto su di me le cicatrici come se fossero medaglie” (Paulo Coelho).
Disinvestire scopi di forza e indistruttibilità permette all’individuo di far cadere l’opprimente maschera di ferro dentro la quale ha deciso di sopravvivere, accettando contenuti mentali maggiormente adattivi e funzionali alla relazione: l’homo fragilis, pertanto,si configura come colui che è capace di uscire dalla caverna platonica, divenendo libero e liberante, proprio come un terapeuta ferito.
​Al contrario, repressione del proprio mondo emotivo, inibizione, isolamento sociale e anassertività comunicativa rappresentano solamente alcuni dei costi che l’antieroe moderno, a carattere più sveviano che eracliano, è destinato a pagare. Continuare a perseguire obiettivi di forza condanna l’uomo al destino di Atlante, costretto da Zeus a tenere in eterno sulle proprie spalle l’intera volta celeste. Potenza e virilità assumono l’accezione di drammatica condanna alla solitudine ed all’individualismo; la forza, intesa come eroica tensione all’incrollabilità, diviene monito di un destino tanto drammatico quanto ideale e allucinatorio: l’homo valens acquisisce, così, la connotazione dell’elefante spaziale raffigurato dal pittore Dalì, pachiderma dalle gambe esili, probabilmente affascinante in quanto irreale ma certamente destinato a un prevedibile crollo.
Chiedere aiuto forse non libererà il titano dalla sua sorte, ma di certo renderà la sua condanna meno gravosa. Anche perché, come diceva William Shakespeare, “tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto al dolore che non provano”.

Tu e la tua malattia: non vi sopporto più!

di Benedetto Astiaso Garcia

Rendere la famiglia una risorsa: come si accede alla sofferenza altrui? Quali strategie familiari, efficaci e condivise, mettere in atto per promuovere il benessere?

I vissuti di sofferenza psichica coinvolgono l’intero sistema familiare in cui la sintomatologia si manifesta, compromettendone in maniera significativa le relazioni, la comunicazione e, soprattutto, la comprensione dei bisogni altrui.
Fronteggiare inadeguatamente una problematica psicologica, di qualsiasi natura essa sia, potrebbe innescare forti vissuti di incomprensione e impotenza, con il rischio di sminuire e svalutare il vissuto dell’altro, ponendosi in una posizione di giudizio, chiusura e scarsa empatia.
Il disorientamento familiare rende vano qualsiasi tentativo di assistenza, supporto e cooperazione, inducendo frustrazione e conflitti, la cui origine risiede in una mancata comprensione del disagio psicologico con il quale ci si deve confrontare ogni giorno. Leggi tutto “Tu e la tua malattia: non vi sopporto più!”