Fare i compiti: bambini e genitori

di Stella Totino

Dai circoli viziosi ai circoli virtuosi: l’autoefficacia

Sin dalle prime fasi di apprendimento può capitare, per diversi motivi, che il momento dei compiti si trasformi in un vero e proprio incubo per genitori e figli. Il bambino che fatica a svolgere una determinata attività, esattamente come l’adulto, sarà meno attratto da quel compito perché lo porterà a non sentirsi capace.

Si possono presentare, sin dai primi giorni di scuola primaria, dei circoli viziosi che se non interrotti accompagneranno figli e genitori per tutto il lunghissimo percorso scolastico.

Vediamo cosa può succedere: è arrivato il momento di fare i compiti, bisogna sbrigarsi perché dopo bisogna andare in piscina, a basket, a calcio o semplicemente bisogna giocare. Nel momento in cui viene invitato dal genitore a prepararsi per fare i compiti, il bambino sta facendo un gioco che sicuramente lo interessa maggiormente, pertanto cercherà di evitare quell’impegno giornaliero, tendendo a procrastinare, dicendo di non avere scritto i compiti, di non avere il libro, facendo i “capricci”, piangendo. Allo stesso tempo, il genitore sperimenta un “cocktail” di emozioni, dall’ansia al senso di colpa, fino alla rabbia, che non lo aiuteranno a interrompere tale circolo. I “virus mentali”, più frequentemente riportati sono: “non riusciremo mai a finire tutto prima di uscire e quando torneremo sarà pure stanco e non li finirà”; “le insegnanti penseranno che non ci interessiamo a nostro figlio e che per noi la scuola non è importante”; “continuando così non lo aiuterò ad avere un futuro”; “non può mica fare come gli pare, non sono a sua disposizione tutto il giorno, i compiti si fanno quando lo dico io”.

A lungo andare, queste situazioni rischiano di logorare il rapporto genitori-figli e di compromettere il rapporto con lo studio.

Per interrompere tale circolo può essere importante incrementare l’autoefficacia dei figli e dei genitori. Lo psicologo canadese Albert Bandura nel 1986 ha definisce l’autoefficacia come la “fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Secondo lo stesso autore tale concetto si fonda su 4 tipologie di esperienze:

  1. Esperienze dirette: che possono essere di successo o insuccesso. Nel nostro caso, sarebbe importante incrementare le occasioni di successo nello svolgimento dei compiti. Uno strumento molto utile in tal senso è la pianificazione sia della giornata, in modo che sia facilmente prevedibile, sia delle attività che devono essere svolte, sia dei materiali necessari.
  2. Osservare le esperienze degli altri genitori: ci può aiutare a modificare i virus mentali, passando da “non posso farcela” a “se ci sono riusciti gli altri posso riuscirci anche io”.
  3. Persuasione verbale: sia attraverso apprezzamenti e rassicurazioni provenienti dall’esterno da persone ritenute autorevoli, sia attraverso le proprie convinzioni. Nel primo caso potrebbe aiutare un rinforzo da parte degli insegnanti: “Vedo che state lavorando sempre meglio, si vede che vi state impegnando”. Nel secondo: “Ce la faremo, con la calma e le giuste strategie andrà sempre meglio”.
  4. Gestione del vissuto emotivo, compresi gli stati fisiologici che accompagnano l’emozione. Nella gestione dei compiti, ciò può avvenire con il riconoscimento del proprio stato emotivo e dello stato emotivo dell’altro, l’accettazione e la gestione.

Più genitori e figli si sentiranno competenti, meglio affronteranno il momento dei compiti, più sperimenteranno successo ed emozioni positive più tale momento diventerà piacevole.

Soprattutto quando tutto questo si accompagna a storia personale di insuccesso scolastico o a una condizione di disturbo del neurosviluppo, può essere utile affidare tale compito a un tutor e/o a un percorso di psicoterapia che incrementi l’autoefficacia percepita, il riconoscimento, l’accettazione e la gestione delle emozioni.

Per approfondimenti:

Bandura A. (2000), Autoefficacia: Teoria e applicazioni, Trento, Erickson.

Moè A. e Friso G. (2014), L’ora dei compiti. Come favorire atteggiamenti positivi, motivazione e autonomia nei propri figli, Trento, Erickson.

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Adulti e disturbi di apprendimento

di Stella Totino

Il ruolo del terapeuta nell’individuazione dei disturbi specifici di apprendimento (DSA) in pazienti adulti

I disturbi specifici di apprendimento (DSA) sono disturbi evolutivi che si manifestano durante l’età scolare e che, pur modificandosi durante lo sviluppo, accompagnano l’individuo nell’intero arco di vita. Le caratteristiche essenziali riguardano le difficoltà di lettura, scrittura e/o calcolo in persone con abilità cognitive nella norma.

Molto spesso, questa discrepanza, porta l’individuo a giungere alla diagnosi di DSA tardivamente.

Questo può generare false credenze che possono portare la persona a non esprimere il suo massimo potenziale, a non credere nelle proprie capacità, a essere insicuro e a sviluppare disturbi emotivi.

Talvolta, il campanello d’allarme, si può accendere proprio durante un percorso di psicoterapia, quando il paziente riporta le proprie sofferenze emotive, che non si esauriscono terminata la scuola, perché, se non adeguatamente gestite, limitano la persona nella propria quotidianità.

Alcune credenze e strategie di evitamento possono portare la persona a rinunciare a diverse esperienze di vita per evitare il fallimento: un paziente non scriveva bigliettini di auguri per paura di fare errori ortografici ed essere, quindi, umiliato e deriso. Non solo: veniva accusato dalla sua compagna di non scriverle neppure un bigliettino di auguri. Un’altra paziente non partecipava ai giochi di società con gli amici se sapeva che potevano esserci domande di matematica, per timore che potessero pensare che fosse stupida. Prima di giungere in terapia, tale timore era diventato invalidante: non chiedeva informazioni quando andava a iscriversi in palestra, quando entrava in un negozio o si era persa per strada e aveva bisogno di essere accompagnata dai familiari, che si sostituissero a lei nel prendere informazioni. Il tema che accomunava tali esperienze era il timore di essere giudicata come una persona non intelligente.

Sin da piccoli, la scuola e la società ci portano a credere che andare bene a scuola, saper leggere, scrivere e calcolare correttamente siano sinonimo di intelligenza: se chiediamo a un bambino chi è il compagno di classe più intelligente, molto probabilmente ci dirà il nome del bambino che ottiene voti più alti degli altri.

Con adolescenti e adulti che in terapia portano temi legati al timore di non essere capaci, di non farcela, che ci raccontano percorsi scolastici caratterizzati da frequenti insuccessi, occorre prestare attenzione ai racconti provenienti dal passato approfondendo se ricordano di aver fatto fatica a imparare le tabelline, i mesi dell’anno, i giorni della settimana, i verbi o se, per esempio, quando dovevano leggere a voce alta provavano a rifiutarsi o manifestavano forte disagio. Nel momento in cui terapeuta e paziente arrivano a ipotizzare un possibile disturbo specifico di apprendimento alla base delle sofferenze è molto utile esplorare le emozioni relative a questo momento che possono variare dal sollievo allo sconforto e proseguire con l’invio a un esperto nella valutazione di questi disturbi in età adulta.

Una corretta valutazione necessita di una conoscenza delle caratteristiche del disturbo, al fine di effettuare una approfondita storia clinica e l’uso di strumenti clinici adatti all’età di riferimento.

Giunti alla diagnosi occorrerà, per esempio, procedere con una ristrutturazione cognitiva, tecnica che in psicoterapia permette di mettere in discussione le convinzioni disfunzionali del paziente così strutturatesi.

Per approfondimenti

Consensus Conference (2011), Consensus conference sui DSA dell’Istituto Superiore di Sanità, Ufficio per le Linee Guida, https://www.aiditalia.org/Media/Documents/consensus/Cc_Disturbi _Apprendimento.pdf

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