di Alessio Congiu
a cura di Barbara Basile
Gli studi epidemiologici compiuti a partire dagli anni ’80 hanno oramai mostrato una netta discrepanza nella prevalenza delle complicanze psicologiche tra i due sessi. Seppure equiparabili (in linea teorica) nei diritti ad essi riconosciuti, uomini e donne variano in funzione della prevalenza di specifiche condizioni psicopatologiche. Ad esempio, un dato oramai appurato nella letteratura scientifica è la maggiore prevalenza nella popolazione femminile di disturbi “internalizzanti” (es., disturbi d’ansia, disturbi depressivi), ossia quei disturbi in cui l’espressione del disagio è rivolta prevalentemente all’interno di sé.
Diversamente, sembra che nella popolazione maschile sia più prevalente la presenza di disturbi “esternalizzanti” (es., dipendenze patologiche, disturbi antisociali), ossia di disturbi in cui la manifestazione della sofferenza viene espressa prevalentemente all’esterno di sé.
Riassumendo, sembra che nella popolazione femminile sia più presente una tendenza ad inibire la manifestazione esterna del proprio disagio, o ad esprimerla in modo indiretto; al contrario, nella popolazione maschile sembrerebbe più presente una tendenza ad agire la propria sofferenza, ora attraverso la ricerca di sostanze sedativo-ipnotiche (es., alcol) o analgesiche (es., eroina), ora attraverso comportamenti aggressivi e antisociali (es., risse, anti vandalici)
Malgrado la presenza di dati ormai confermati nel panorama scientifico, i diversi studi che finora sono stati compiuti non ci permettono di comprendere il motivo alla base di questa differente distribuzione nelle problematiche psicologiche.
Molte sono le spiegazioni che i ricercatori hanno provato ad offrire a proposito di tale fenomeno, ma nessuna di queste sembra poter godere tutt’oggi di un consistente supporto scientifico.
Tali limiti esplicativi sono stati imputati alle scarse conoscenze in nostro possesso in merito all’eziogenesi dei diversi disturbi. Non possiamo quindi escludere l’ipotesi che le differenti prevalenze riscontrate nella popolazione maschile e femminile non rispecchino la realtà dei fatti, ma dipendano piuttosto dal modo con cui sarebbero state condotte le ricerche che ne hanno riscontrato la presenza. Ad esempio, non è da escludere che gli studi condotti non abbiamo prestato la giusta attenzione alla differente manifestazione dei sintomi tra i due sessi, come pure al differente modo con cui femmine e maschi ricercherebbero un supporto esterno per alleviare il proprio stato di disagio.
Sebbene limitatamente ad alcuni disturbi (es., disturbo depressivo maggiore), le teorie biologiche hanno provato a fornire una chiave esplicativa di tale fenomeno ricercando alterazioni nella struttura e nella funzionalità neurochimica cerebrale tra i due sessi, come pure nelle differenze nelle funzioni riproduttive di base e nei ritmi circadiani, mostrando ciononostante numerosi limiti di validità. Come poter spiegare, ad esempio, l’importanza dei fattori psicosociali nell’influenzare le differenze nella prevalenza dei disturbi tra i due sessi se la causalità viene ricondotta ad un unico fattore biologico supposto universale?
I limiti nelle teorie biologiche hanno di certo alimentato il proliferare di ipotesi esplicative di stampo psicosociale, che hanno provato a spiegare la differente prevalenza psicopatologica riconducendola alla differenza nello status socio-economico tra i due sessi, alla maggiore probabilità delle donne di andare incontro ad eventi di vita stressanti, al minore supporto ad esse fornito dalla struttura sociale nel suo complesso, come pure alla maggiore probabilità di andare incontro ad eventi traumatici nell’infanzia e nell’adolescenza. Come per le teorie biologiche, anche quelle psicosociali, tuttavia, non sono riuscite ad disambiguare un fenomeno che rimane tutt’oggi avvolto nel mistero.
Un interessante studio ha mostrato come alcuni fattori sociodemografici siano associati a queste differenze. Nello specifico, sembra che per la popolazione femminile l’isolamento e il ritiro sociale si presentino spesso associati ad una psicopatologia; diversamente, nella popolazione maschile la patologia mentale si associa più frequentemente alla giovane età, al non avere figli (o ad essere unico tutore di un figlio a proprio carico) e al provenire da una bassa estrazione sociale. Colpisce inoltre come il basso status sociale e il trovarsi in una condizione di assenza di partner (es., essere single, separati, divorziati, etc.) si associno più frequentemente a condizioni di psicopatologia tanto per i maschi quanto per le femmine.
Come interpretare quindi la disparità di genere nella prevalenza di specifici disturbi? Come evitare di farsi condizionare da tesi poco fondate scientificamente? In cosa credere? I dati presenti nella letteratura scientifica ci esortano alla calma e a non ricercare frettolosamente una spiegazione che risulterebbe allo stato attuale poco difendibile con i dati in nostro possesso. In linea con quanto è stato detto, chi scrive non aggiungerà dunque ulteriori commenti, preferendo piuttosto invitare gli stessi lettori a mantenere un atteggiamento critico e flessibile.
<< Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere >>
(Ludwig Wittgenstein)